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Autore: Arya Tata Montrose    07/02/2023    4 recensioni
Anche quella sera Kiba riconobbe la conformazione della via sotto i suoi piedi, e si trovò a sollevare lo sguardo verso le mura che circondavano la casa di Hinata. E di suo marito. E di Neji e Tenten, e del piccolo Hizashi. E di Hanabi. Soprattutto di Hanabi. Kiba sospirò di nuovo.
Sono cambiate tante cose dalla fine della Guerra, ed i problemi tornano ad essere quelli di una volta, come la cotta stratosferica che ti sei preso per la sorella della tua amica.
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[Kiba/Hanabi][Atto primo][Neji lives perchè sì]
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akamaru, Hanabi Hyuuga, Kiba Inuzuka | Coppie: Hinata/Naruto, Kiba/Hanabi, Neji/TenTen
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
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Atto primo

Il problema

 

Sbuffava scocciato ogni due o tre passi, mentre Akamaru gli trottava davanti tutto allegro durante una delle loro tante passeggiate a tarda serata. Di solito, cane e padrone si sfidavano a correre, giocavano al riporto, o Kiba lo cavalcava in giro per le strade di Konoha, facendo prendere un colpo a chiunque fosse ancora in giro a quell’ora. Ma Kiba, da un po’ di sere a quella parte, trovava sempre più fastidiose le loro passeggiate. Immancabilmente, ogni volta che si metteva a camminare, si perdeva in una marea di pensieri che si condensavano, inarrestabili, nell’unico che voleva tenere al di fuori della sua testa. E così, seguendo Akamaru che seguiva lui, finiva sempre dove non sarebbe voluto essere, col corpo e con la mente, in quella maledetta intersezione che sembrava attirarlo come un magnete. O peggio, era come se la curvatura stessa dello spaziotempo lo portasse a gravitare esattamente attorno a quel punto.

Anche quella sera Kiba riconobbe la conformazione della via sotto i suoi piedi, e si trovò a sollevare lo sguardo verso le mura che circondavano la casa di Hinata. E di suo marito. E di Neji e Tenten, e del piccolo Hizashi. E di Hanabi. Soprattutto di Hanabi. Kiba sospirò di nuovo.

Lo sapeva, lui, che c’era qualcosa di particolare quando si trattava di Hanabi, da un po’ di tempo a quella parte. Quel loro battibeccare continuo in fondo gli piaceva, e si pizzicavano per le minime cose, le più stupide e banali; così tanto che aveva cominciato a pensare che piacesse anche a lei. Nemmeno poi così in fondo, dopotutto. A pensarci si ritrovò a sorridere al nulla, con lo sguardo ancora perso nel bianco del muro.

Gli tornò in mente lei, al matrimonio di Neji e Tenten qualche settimana prima, tutta intenta a sgraffignare un mochi dalla tavola del buffet dopo aver giocato con il nipotino. Kiba stava per andare da lei per una sana presa in giro, com’era nel loro stile, ma Hanabi non l’aveva ancora visto che Zashi l’aveva richiamata.

«Zia, zia! I capelli» le aveva detto, saltellando per puntarle i capelli scompigliati. Ed era stato allora che era intervenuto Neji, che le aveva pettinato i capelli con le dita, e le aveva pulito la farina dal viso.

Poi, Neji l’aveva abbracciata, e Kiba non l’aveva mai vista così dannatamente morbida, così incredibilmente al di fuori della sua forma di cera, come di rado era anche con lui.

Al contrario, lì era stato Kiba, a sciogliersi, e il pensiero l’aveva colpito come un tiro di Tenten: dritto e preciso al cuore. Voglio baciarla.

Akamaru tornò alla sua gamba, strusciandovisi e abbaiando, richiamandolo improvvisamente di nuovo sulla terra. Lo sguardo di Kiba tornò sul cagnolone scodinzolante accanto a lui, che lo guardava con i sottili occhi color nocciola in attesa di qualcosa.

«Beh, che hai da guardarmi così? Perché non mi fermi mai dal venire qui?» sbottò contro il suo migliore amico, che di rimando abbaiò di nuovo.

«Shh, non vorrai far sapere a tutto il clan Hyuuga che siamo qui, no?»

Ottenne un uggiolare non esattamente dispiaciuto in risposta. 

«Bah, andiamo via.» Ributtò le mani nelle tasche, nonostante l’aria della sera di maggio non fosse così fredda da dargli fastidio alla pelle, e riprese a camminare con passo pesante per tornare a casa. Non che avrebbe smesso di pensare ad Hanabi, non era così stupido da crederlo, ma almeno non sarebbe stato in mezzo alla strada, dietro alla villa dove vivevano lei e l’intera famiglia - compreso il padre di lei e della sua compagna di squadra -, con Akamaru che abbaiava e lui che si sentiva un idiota e, peggio ancora, un illuso.

 

 

Cosa diavolo gli era saltato in mente? Farsi venire una cotta proprio per lei. Lei che era la sorella di Hinata, la sua migliore amica, lei che era una Hyuuga, di tutti i clan! Lei che era Hanabi Hyuuga e aveva diciassette anni, contro i suoi ventitré suonati. Erano solo cinque anni, per l’amor dei Kami, eppure a lui sembrava passata un’eternità e poco più da quando diciassette anni li aveva lui. Forse era stata la guerra, e tutto quello che avevano passato nel mentre. Dal primo esame per la licenza di chuunin, nei suoi ricordi era un continuo susseguirsi di eventi a un respiro l’uno dall’altro, e poi puf, cinque anni dopo quella maledetta guerra – la stessa guerra che stava per portarle via suo cugino – Kiba si trovava così, steso sul suo letto, ad avere ventitré anni e sentirsene cento. E come poteva lui, vecchio com’era, sperare in qualcosa con lei, che di nuovo, di anni ne aveva solo diciassette. Si sentiva un piccolo, infame ladro, in agguato per rubarle quegli anni di giovinezza spensierata, proprio come la Storia aveva fatto con lui.

Come se poi lei se li sarebbe lasciati rubare! Da lui, poi! Kiba si diede dell’idiota . Come poteva essere così presuntuoso da pensare che Hanabi gli avrebbe concesso un tale onore? Erano sui, quegli anni, e Hanabi era il tipo di persona che li avrebbe spesi coscienziosamente, ogni momento soppesato e bilanciato per ricavarne il più possibile poi. Erano tutti suoi, contati e pianificati alla perfezione, e non avrebbe permesso a nessuno di portarglieli via. Tantomeno si sarebbe sognata di regalarli proprio a lui, il pulcioso cane che negli anni si era ritrovato a gravitarle attorno sempre di più, incrociando la sua strada per sottrarle pian piano momenti preziosi.

Sì, era proprio un’idiota. Avrebbe dovuto accontentarsi di quelle briciole, senza sperare in qualcosa che non sarebbe mai arrivato; avrebbe dovuto accontentarsi di quel qualsiasi-cosa-fosse che avevano e che non si erano mai preoccupati di definire. Qualcosa in cui si trovavano per caso, finendo a passare il pomeriggio insieme; quando lui passava a salutarla mentre andava da Hinata, o quando decidevano di tenersi compagnia mentre uno dei due si faceva ricucire le ferite dopo una missione, o quei piccoli momenti che sembravano rubati al tempo in cui si parlavano senza guardarsi negli occhi, e si confortavano senza toccarsi.

Gli venne in mente un momento in particolare, quando era andato a Villa Hyuuga – sotto lo sguardo sprezzante degli anziani della famiglia, evidentemente scontenti che un Inuzuka calpestasse il prezioso tatami della loro dimora – per prendere non ricordava nemmeno bene cosa per Hinata, che era seduta in ospedale, china sul corpo esanime di Neji ancora in bilico tra la vita e la morte. Le sue orecchie avevano captato un suono che gli aveva fatto nascere un macigno alla bocca dello stomaco, e seguendolo l’aveva trovata rannicchiata sul pavimento della sua stanza, con le ginocchia al petto e le braccia che stringevano forte le spalle. In quella posa contratta, con la vecchia giacca di Neji addosso, Hanabi aveva alzato lo sguardo e, per la prima volta nella sua vita, Kiba aveva visto gli occhi color perla di Hanabi rigonfi di pianto. Non aveva detto nulla, si era seduto accanto a lei e aveva aspettato che si sentisse meglio. Quella volta, Hanabi gli era caduta addosso, e lui si era sentito come se del filo spinato gli stringesse le viscere.

Dopo, quando erano usciti e lei l’aveva accompagnato in ospedale, nessuno dei due ne aveva fatto più parola; non al di fuori di un grazie mormorato a mezza bocca.

E anche nella remota possibilità che lei potesse ricambiarlo

A quel pensiero, Kiba sentì lo stomaco attorcigliarsi in un misto di accanita, testarda speranza e malevola delusione. Quanto avrebbe voluto che fosse vero. Si mise una mano sulla pancia, come se uno squarcio vi si fosse appena aperto e lui stesse tentando inutilmente di arrestare l’emorragia. Ma a sanguinare era solo il suo cuore, già fermo sulla consapevolezza di non poterla avere e sulla risoluzione di amarla nonostante quello. Ed era solo per questo che si concedeva di sperare, e immaginare.

 

 

Se anche lei avesse deciso di ricambiarlo, lei rimaneva sempre Hanabi Hyuuga, erede ufficiale del clan. E gli anziani del clan non avrebbero mai permesso che un’altra di loro, men che meno l’erede, sposasse un povero spiantato come lui.

Certo, Hinata l’aveva fatto. Ma Naruto era un povero spiantato a forma di raccomandazione, perché non solo Naruto era un eroe di guerra, anzi l’Eroe di guerra, ma era anche un Uzumaki. Il suo era stato un clan antico e prestigioso di forgiasigilli, che contava tra i suoi membri anche Mito Uzumaki, la moglie del Primo Hokage, nonna del Quinto. E come ciliegina sulla torta, per non farsi mancare proprio nulla per il bingo del buon partito, era allievo di un Sannin e figlio del Lampo Giallo.

Certo, anche Neji aveva sposato una povera spiantata, che però aveva scoperto di essere incinta di suo figlio a qualche mese dalla fine della guerra, quando lui s’era appena risvegliato dopo essere sfuggito alla morte per il rotto della cuffia. Un disonore indescrivibile, oltre che un problema che, se Neji fosse morto, sarebbe stato pagato fior di quattrini per sparire sotto al tappeto. Ma Neji era sopravvissuto (per fortuna), e quei babbei imbalsamati dovevano aver ragionato che lui era della casata cadetta, e a loro poco importava della sua discendenza, nonostante le carte in tavola stessero cambiando.

Ma ad Hanabi non avrebbero mai permesso di stare assieme a lui: povero, spiantato e pure Inuzuka, che erano secondi solo agli Uchiha nella misura di quanto gli Hyuuga li ritenessero indegni di respirare la loro stessa aria. Odora di cane, aveva sentito dire, durante quella fatidica e altre visite alla villa, da qualcuno dietro un paio di porte. E grazie al cazzo, avrebbe voluto ribattere lui. Forse capiva perché la sua famiglia – e lui in particolare, aveva notato – non andassero proprio a genio agli Hyuuga.

C’era anche da considerare che era lei, affiancando la sorella e il cugino in qualità di erede degli Hyuuga, a star smuovendo mari e monti, pietruzza dopo pietruzza, pur di rinnovare il suo clan. Sicuramente sarebbe stata troppo occupata, troppo assorbita da cose ben più importanti di lui e del suo amore inappropriato, per potersi preoccupare dei sentimenti del cane che le girava attorno da quanto, ormai? Anni? Oh, per i Kami, si faceva schifo da solo.

Si mise un braccio sopra gli occhi, che cominciavano a bruciargli di lacrime, e sentì il peso di Akamaru piegare il materasso, avvicinandosi per dargli il miglior conforto che poteva. Kiba si voltò sul fianco, e immerse il viso nel folto mantello dell’animale, che gli posò il muso sulla testa.

Le lacrime gli scorrevano silenziose giù dalle guance, immediatamente assorbite dal pelo bianco del suo migliore amico, mentre Kiba cercava di sfogare quella frustrazione che gli impediva di muoversi, e lo faceva sentire come sott’acqua ogni volta che lei gli stava accanto. Come aveva potuto ridursi così, disperatamente innamorato di una ragazza che con tutta probabilità non sarebbe mai stata la sua? Tirò un po’ su col naso, mentre Akamaru lo punzecchiava col suo, e gli venne spontaneo sorridere all’imprevedibilità dell’universo: era messo peggio di quanto Sakura fosse mai stata, lei e il suo amore impossibile per quella testa di cazzo dell’Uchiha. Non credeva fosse un livello raggiungibile, ma eccolo qui, a piangere abbracciato al suo cane, perché innamorato di una ragazza al di fuori della sua portata in ogni possibile senso.

Avrebbe dovuto lasciar stare, dimenticarsi di lei. Magari chiedere a Shikamaru se avesse qualche bell’incarico di lunga durata al di fuori del villaggio, così non l’avrebbe vista. Non l’avrebbe più incrociata per caso durante le passeggiate notturne, o quando andava a trovare Hinata, o quando passava ai campi di allenamento. Non avrebbe più visto la sua fronte corrucciata mentre pensava a come ribaltare - fottere, parole sue - il sistema, o quella sua espressione imbarazzata quando al matrimonio di Neji e Tenten l’aveva beccata a mangiarsi anche un cupcake, con la bocca tutta sporca di crema al burro; poi gli aveva sorriso, un sorriso così dolce che gli si era sciolto il cuore e ingarbugliata la lingua, quando le aveva passato un tovagliolo.

Per gli dèi, quanto avrebbe voluto baciarla. D’altronde, quando ci pensava, non poteva fare a meno di rendersi conto di quanto loro due sembrassero due calzini spaiati e di quanto quell’immagine gli faceva venire ancora più voglia di stringerla a sé e… farsi stringere da lei.

Accidenti a lui. Avrebbe fatto di tutto pur di poterla guardare negli occhi e dirle che l’amava. Anche se significava (molto probabilmente) beccarsi uno schiaffo e una visitina all’ospedale per averglielo chiesto. E magari una denuncia. E la totale disapprovazione di… beh, chiunque, ma in primis di Hinata.

Si maledisse di nuovo. Chiunque sarebbe stato un candidato migliore per Hanabi. In cima alla lista c’era proprio quel ragazzino, tra l’altro il pupillo di Naruto – raccomandazioni, stavamo dicendo? –, come si chiamava? Ah, già. Konohamaru Sarutobi. Decisamente, un partito migliore e più appropriato che un cane spelacchiato.

Se lo ricordava bene. Una faccetta da cazzo, l’atteggiamento spocchiosetto e fastidioso di chi era abituato ad avere tutto quello che voleva e a seguire Naruto e le sue cazzate, sicuro che comunque non ci sarebbero state particolari conseguenze. Se non per il suo mentore, ovvio.

Sì, Kiba era abbastanza intelligente da capire che non lo faceva con malizia, che era solo stupido come solo un ragazzino può essere – ed esattamente come lo era stato lui –, ma gli dava fastidio lo stesso. Gli dava l’orticaria pensare che quel tipo avesse più possibilità di lui, soprattutto se cercava di segarsi le gambe da solo prima ancora di farlo fare all’avente diritto in persona.

«Tu che ne pensi?» chiese ad Akamaru, che a ragione lo guardò confuso. Va bene che gli Inuzuka avevano un legame particolare con i loro cani, ma ancora non comunicavano telepaticamente.

Akamaru, quindi, emise un verso aperto ad interpretazione, ma che Kiba tradusse come un palese e convintissimo sì (nonostante sapesse perfettamente che poteva equivalere ad un molto più incerto “Sì?”).

«Le dirò tutto. E poi mi beccherò le botte da lei e da… beh, chiunque altro.»

Akamaru assentì. Questa volta era convinto e d’accordo col padrone, nonostante fosse il primo a sperare nell’ipotesi contraria, ancor prima di Kiba stesso.

«Ora, il problema è che non so come fare. O a chi chiedere. No, non guardarmi così, Hinata è assolutamente fuori discussione.»

Seguì un uggiolato di protesta. Akamaru aveva ragione, Hinata sarebbe stata la scelta più sensata, nonché la più facile. D’altra parte, era sempre a lei che si rivolgeva quando aveva un qualsivoglia problema. Che missione scegliere? Chiedi a Hinata. Se comprare una spada? Chiedi a Hinata. Che cosa mangiare la sera? Hinata.

Ma a chi chiedere, se Hinata doveva stare assolutamente, per forza di cose, fuori dall’equazione?

Kiba si mise a valutare diverse possibilità, e si trovò quasi subito a escludere le ragazze: Sakura aveva troppo da fare, Ino avrebbe fatto decisamente troppe domande, Tenten era impegnata col suo negozio, le sue missioni e il suo bambino – e la sua relazione con Neji, l’adorato e protettivo cugino di Hanabi, andava avanti dall’anteguerra. Ma soprattutto, era sicuro che tutte loro avrebbero finito col dirlo a Hinata e disconoscerlo insieme a lei.

Dei suoi amici, invece, poteva escludere in primis proprio Neji, poi l’Uchiha e Naruto, per ovvie ragioni. Restava Rock Lee, anche lui da escludere per direttissima. Restava Shino. E dopo di lui Choji e Shikamaru, con cui non era particolarmente in confidenza.

Poteva scartare Choji, troppo chiacchierone, e Shino… beh, erano compagni di squadra, ma non aveva idea di come avrebbe potuto aiutarlo per una faccenda del genere. Shikamaru, d’altro canto, di esperienza sul tema “mi sono innamorato della sorella del mio amico” ne aveva. Che poi la storia con Temari non avesse funzionato era secondario, a Kiba interessava che fosse riuscito sia a dirglielo che a non farsi ammazzare da Gaara e Kankuro. Del resto, a Shikamaru fregava così poco delle sue diatribe morali e sentimentali che sicuramente non avrebbe trovato rilevante condividerle con nessun altro.

Sì, era proprio il candidato perfetto.

«Bene, amico, domani si va in ufficio a trovare Shikamaru. Probabilmente gli farà piacere la pausa dal lavoro.»

Akamaru abbaiò e poi si tuffò addosso al padrone, stabilendosi sulla sua pancia per dormire.

 

Shikamaru era un uomo tutto fuorché mattiniero. Per questo Kiba si presentò da lui alle dieci passate e con una tazza di caffè caldo in mano.

«Cosa vuoi.» fu la prima cosa che Shikamaru gli disse, senza nemmeno alzare gli occhi dalle carte che stava guardando con una noia tale da farlo sentire quasi a disagio.

«Ehm- Ti ho portato il caffè.»

Shikamaru sollevò gli occhi dalle carte, che non sembrava nemmeno star leggendo, e sollevò anche un sopracciglio. Ovviamente sapeva che c’era dell’altro.

«E ho bisogno di una mano.»

«E perché sei venuto da me?»

«Perché ho un problema.»

«Di solito non hai qualcun altro che ti risolva i problemi?» Come previsto, Shikamaru era scocciato da quell’aggiunta al suo carico di lavoro. Fosse stato per lui, se ne sarebbe stato a fumare, giocare a shoji e guardare le nuvole per tutto il giorno.

Kiba sospirò, conscio che avrebbe dovuto concedere una parte della verità per convincere l’amico a sacrificare il pisolino per aiutarlo. «Hinata. Ma è parte del problema.»

«Merda.» Shikamaru si passò una mano davanti agli occhi e poi la fermò a reggersi la fronte. «Dev’essere davvero una situazione di merda, se Hinata è parte del problema.»

«Già» Kiba si guardava intorno un po’ in imbarazzo, preoccupato che qualcuno potesse sentirlo e spiattellare tutto alla diretta interessata. Come avrebbe fatto una persona qualunque a leggergli nel cervello quello a cui stava pensando, questo non lo sapeva, ma l’ansia che in quei mesi si era insinuata nella sua testa gli assicurava che non solo era estremamente possibile, ma anche incredibilmente probabile. Non vedeva l’ora di spostare quella conversazione da qualunque altra parte: in un posto meno pubblico, se possibile. «Proprio di merda. Ci possiamo vedere stasera?»

Shikamaru sbuffò di nuovo, poi si alzò e raccattò il pacchetto di sigarette e l’accendino. «Nah, andiamo sul tetto. Tanto mi stavo rompendo i coglioni a guardare tutte quelle boiate. Odio la burocrazia.»

«A chi lo dici, amico.»

 

Shikamaru si accese la sigaretta, espirò e si appoggiò al parapetto.

«Avanti, quale sarebbe questo problema così enorme?». Shikamaru andò dritto al punto. Evidentemente sperava di sbolognare in fretta la questione e utilizzare il resto del tempo a farsi un pisolino. Sembrava più esausto del solito, ultimamente.

Kiba si avvicinò, e lo imitò nella posizione, attento a mettersi sopravvento, in modo da sentire meno l’odore di quella cosa schifosa. Sospirò. Sapeva di non dover tergiversare, non voleva scocciare l’amico più di quanto non fosse necessario. «Temo di essermi innamorato di Hanabi.»

Sentì Shikamaru tossire vigorosamente, il fumo andato di traverso. Ecco, la bomba era stata sganciata, e ora aspettava solo il contrattacco.

«Cosa?»

«Ora capisci perché non potevo dirlo ad Hinata?»

Seguì un’altra boccata di fumo e Kiba sentì lo sguardo dell’amico perforarlo, mentre lui faceva di tutto per mantenere il suo fisso sul panorama del villaggio che si poteva godere dal palazzo. Si sentiva come se anche i volti degli Hokage dietro di lui lo stessero giudicando.

«Mh, proprio una situazione del cazzo, amico. Cosa pensi di fare?»

Kiba spostò gli occhi su di lui, e una leggera risata gli sfuggì dalle labbra, carica di ironia. «Ero venuto apposta. Vorrei dirglielo, ma… non lo so. Da una parte, penso che farei meglio a ingoiarmi palle e sentimenti e far finta di nulla. Ma fa male. E non ridere, sono serio, io! Fa male, ogni volta che la vedo. È… complicato. Vorrei non vederla più, chè almeno me la farei passare, e allo stesso tempo non sopporterei di non vederla e di non litigare come due idioti. E non so se dirglielo, farmi pestare e fare la figura del pedofilo e farmi odiare, e poi cercare di passarci sopra.»

«Vuoi un calcio in culo, quindi?» Shikamaru si era acceso un’altra sigaretta e aveva smesso di guardarlo con quel cipiglio annoiato che sembrava avere perennemente stampato in volto. I suoi occhi avevano una strana intensità, come se ad un tratto quella fosse una questione importante. Kiba si sentì un po’ rincuorato. Ancora non gli aveva detto che faceva schifo, e quello era già qualcosa.

«Che cazzo vuoi dire?»

«Ti ho chiesto se vuoi un calcio in culo per andare a dirglielo.» Vedendo l’espressione interdetta dell’amico sbuffò una nuvola di fumo, e poi riprese. «Tutta ‘sta situazione è una vera scocciatura, ma non te ne tirerai mai fuori se non fai qualcosa» e, per rafforzare il concetto, si avvicinò a lui e gli diede un calcio. Non troppo forte, ma abbastanza per farlo tornare con il cervello collegato alla situazione.

Poi, Shikamaru vide i suoi occhi abbassarsi, e guardare fissi il terreno. «Quindi… tu non pensi che sia un viscido schifoso? Ha diciassette anni.»

«Mh, non è convenzionale. Ma già il fatto che ti faccia dei problemi risponde da sé.» Buttò la sigaretta, e gli posò una mano sulla spalla. «Sei mio amico, ma sarei il primo a puntarti un coltello alla gola se pensassi che abbia cattive intenzioni. Sei una brava persona e penso che, qualunque sia la sua risposta, lo sappia anche Hanabi.»

Quando Kiba risollevò gli occhi, a Shikamaru parve per un secondo di vedere un cucciolo – che fosse un altro asso nella manica del clan Inuzuka? – e gli sorrise.

«Grazie amico» e lo trascinò in un abbraccio improvviso, che tuttavia Shikamaru ricambiò.

«Figurati. Ora, se sei convinto e non ti devo riprendere a calci, mi spieghi perché sei venuto proprio da me?»

«Perché sei l’unico che ha esperienza con situazioni da “sono innamorato della sorella del mio amico”

«Sei un idiota.» Shikamaru sospirò, e si accese un’altra sigaretta, poi rise. «Che scocciatura.»

 

 

C’era un che di déjà-vu in quella scena. Ancora una volta, Kiba si trovava in mezzo alla foresta con Akamaru accanto, nella consueta passeggiata serale. Era la foresta in cui avevano fatto il loro primo esame da Chuunin, e da allora erano cambiate così tante cose che non sembravano passati dieci anni, ma cento. Per cominciare, non era più utilizzata per gli esami, quanto più come parco del villaggio e come primo terreno di addestramento alle missioni per gli alunni dell’Accademia. Di fatti, aveva accompagnato Shino e la sua classe a fare un’esercitazione, qualche giorno prima.

Calciò per l’ennesima volta lo stesso sassolino che aveva raccattato all’entrata della foresta e che aveva trascinato con sé come fosse una questione personale.

Come doveva fare? Ogni volta che aveva incontrato Hanabi nelle ultime due settimane c’era stato qualcosa che gli aveva impedito di parlarle seriamente. O un litigio stupido dopo una mossa non proprio correttissima in una sessione di allenamento; o sua sorella che decideva di accompagnarla, o Konohamaru che s’intrometteva; e infine l’assoluto, divorante imbarazzo che li aveva colti, cinque giorni prima, quando si era ritrovato per terra con lei addosso e le sue dita a pochi centimetri dal suo sterno.

Kiba si sentì infiammare le guance al pensiero del viso di lei, un po’ sudato e rosso di affanno, che stando al di sopra di lui gli oscurava il sole. Per i Kami, si sentiva debole al solo rivivere la scena. Ripensava ai suoi lineamenti delicati, agli occhi bianchi concentrati a scrutare ogni dettaglio del suo viso, pieni di quella determinazione che da sempre faceva parte di lei, di quell’energia che aspettava il momento giusto per esplodere dal suo guscio di algidità e compostezza, come un fuoco d’artificio che illumina un cielo senza stelle.

E lei come un fuoco d'artificio lo era davvero: incostante, arrabbiata, segretamente insicura eppure così risoluta, che oscillava senza sosta fra la gentilezza di sua sorella Hinata e l'austera freddezza di Neji, senza sapere davvero a chi dei due somigliare, chi dei due essere. E Kiba, senza capire come, s’era trovato immerso in quell'enigma di nome Hanabi. Un enigma che lo teneva sempre col fiato sospeso, come una partita di shoji in cui non sapeva quale sarebbe stata la sua prossima mossa, tantomeno quella della sua avversaria.

«Direi che il paragone regge,» fece, diretto ad Akamaru o a nessuno in particolare, «io manco ci so giocare, a shoji.»

Ormai erano giorni e giorni che rifletteva e si arrovellava il cervello, in cerca del modo o dell’occasione perfetta per confessarle l’inconfessabile e levarsi di dosso quel peso senza che lei lo allontanasse per sempre dalla sua vita.

Akamaru, intanto, gli trottava al fianco o poco lontano, lasciando il proprio padrone immerso nei suoi pensieri. Erano giorni che si prestava a confortarlo, ma ad un certo punto il cane aveva capito che fosse meglio lasciarlo bollire un poco nel suo brodo. Perciò, lo aveva portato a passeggiare nella speranza che gli si chiarissero un poco le idee. Akamaru iniziava a dubitare dell’efficacia del suo piano, perché quella era la quarta sera di fila, e non aveva idea di quante ne fossero passate da che Kiba aveva parlato con Shikamaru – che per la povera bestia rimaneva quello che odorava di fumo.

Di contro, c’era un altro odore, flebile e così confuso con l’aroma della foresta che Akamaru lo captò solo perché era così familiare da esser difficile da ignorare. Scoccò un’occhiata veloce al suo padrone, a pochi passi dietro di lui con un muso così lungo da competere con un cavallo. No, lui non l’aveva sentito, troppo immerso nei suoi pensieri per prestarci attenzione. Akamaru starnutì, divertito. Tra poco avrebbe avuto un bello spettacolo davanti.

 

La foresta era silenziosa, oltre a loro. Hanabi li percepiva come suoni distanti, incapace di concentrarsi sul gioco che i suoi amici avevano deciso di imbastire, forti di varie bottiglie d’alcol e schifezze di ogni tipo. Non sapeva nemmeno chi o perché avesse deciso di accamparsi proprio nella ex Foresta della Morte per giocare a quel gioco cretino che qualcuno aveva proposto dopo aver scolato la prima bottiglia. Le regole erano semplici: qualcuno designava una vittima, che doveva scegliere tra obbligo o verità; veniva posta la domanda – o l’obbligo – e poi la vittima poteva assecondare la richiesta o esimersi buttando giù un beverone, mix di vari alcolici che aveva trovato posto nella bottiglia vuota che aveva dato inizio alla giostra.

Era stanca, lei, e aveva solo voglia di uscire in compagnia e bere, senza troppi fronzoli. Invece s’erano impelagati con questo gioco, a cui aveva acconsentito solo per non sentire altre lamentele. Purtroppo, di bere a casa non se ne parlava, con suo padre che teneva sotto chiave quel poco sakè che bevevano lui e i vecchi, e nemmeno poteva rivolgersi a Hinata, che le avrebbe detto che era troppo piccola per bere. E chiedere al Cane non era una possibilità, perché l’avrebbe tampinata per chissà quanto prima di accontentarla, e non ne aveva affatto voglia.

Sì sentì picchiettare la spalla da Udon, che con l’altra mano le indicava Konohamaru, dall’altra parte del cerchio, rosso come un rospo. Dopodiché, i suoi occhi furono catturati da Moebi che sghignazzava malefica.

«Uh, Moebi ha obbligato Konohamaru a darti un bacio.» le spiegò il ragazzo accanto a lei.

«A stampo, basta!» si affrettò a chiarire il diretto interessato.

Hanabi guardò annoiata gli altri giocatori, chiaramente complici di quel teatrino. Scrollò le spalle, un poco dispiaciuta per Konohamaru. Lo conosceva abbastanza da sapere che non era stata una sua idea e si capiva che non gli piaceva affatto l’idea di farle fare una cosa del genere; tuttavia, non abbastanza da bersi quella schifezza che avevano preparato, e non sarebbe certo stata lei a farlo.

Così si alzò e in due passi coprì la distanza tra loro, mentre gli amici intorno intonavano un coro di “bacio, bacio”. Hanabi attese che fosse Konohamaru ad adempiere all’obbligo, e passarono svariati secondi prima che fosse investita dal tocco delle sue labbra. Fu poco più che una pressione sulla sua bocca, e Hanabi sperò che finisse il prima possibile. Si chiese come sarebbe stato, se le fosse importato in po’ di più della persona che stava baciando, ma presto quel pensiero fulmineo fu sovrastato dall’eccessivo acclamare della comitiva. Fu lei a staccarsi, lasciando Konohamaru dietro di lei ancora rosso in viso e incapace di articolare alcun suono coerente, mentre tutti gli altri applaudivano.

«Dai, Konohamaru, ora tocca a te!» disse Moebi, scrollando l’amico.

Lui si riprese a sufficienza da ritrovare un colore più umano, e scegliere la prossima vittima a cui infliggere obbligo o verità. Hanabi non si premurò di ascoltare, preferendo sorseggiare la sua sospirata tequila, ovvero la ragione per cui si trovava lì a giocare. Era stressata per tutta la faccenda con il clan: la successione, le riforme… e l’allenamento con Kiba, che due giorni prima l’aveva frustrata come poche cose; col risultato che l’alcol scorreva giù per la sua gola come acqua fresca in una giornata torrida. Allenarsi con lui avrebbe dovuto servire da valvola di sfogo, ma ultimamente Kiba si comportava in modo strano, i loro litigi avevano un sapore diverso e la cosa non le piaceva affatto. Era come se avesse la coda di paglia per qualcosa e lei non era da meno, a dirla proprio tutta.

«Hanabi, è il tuo turno: obbligo o verità?» Kendo, un loro conoscente che s’era aggregato all’ultimo minuto dopo non averli cagati di striscio per mesi, rise quando lei si riscosse.

«Verità.» sbuffò la ragazza, prendendo l’ennesimo sorso dalla bottiglia di tequila che aveva accanto. Era quasi a metà, e programmava di finirsela prima di mollare lì tutti e il loro stupido gioco.

Non le piacque affatto il sorriso che si allargò sulla bocca di Kendo e di tutti gli altri.

«Chi avresti voluto che ci fosse al posto di Konohamaru, prima?» E di fatti. Merda.

Hanabi deglutì, e osservò per un lungo, intenso istante la bottiglia con il mix che aveva giurato che non avrebbe bevuto, e valutò le sue opzioni. Poteva bersi quella schifezza, e ammettere che qualcuno c’era – no, non ne avrebbe mai sentito la fine; poteva mentire e dire che non c’era nessuno, ma ci aveva già messo troppo a rispondere – accidenti alla tequila – e l’avrebbero tacciata di menzogna e si sarebbe comunque dovuta bere quella schifezza – fuori questione. Avrebbe potuto dire la verità, ma… ma qual era la verità?

Si pentì di essersi posta la domanda l’esatto istante in cui il volto della risposta baluginò per un solo momento davanti ai suoi occhi.

«Non è che è quel tipo più grande che tu chiami sempre Cane?» la nuova fiamma di Kendo la punzecchiò col dito, e Hanabi sussultò.

Non si era accorta di essersi persa a pensare, e forse un po’ di quella insolita lentezza la doveva alla mezza bottiglia che ancora le rimaneva. Forse. Ma poteva essere anche un piccolo asso nella manica.

«Non so di che stai parlando»

Prese la bottiglia, si alzò e sorrise. «Il mio cuscino» fu l’ultima cosa che disse prima di fare perno sul tallone e andarsene, ignorando completamente le proteste degli amici. Bevve un sorso e ridacchiò. Poteva aver omesso qualche dettaglio, ma a ben pensarci, era una verità valida. E la cosa la faceva incazzare.

 

Kiba inspirò a fondo. Sapeva perfettamente di chi fosse quella particolare traccia, ma per tutta la sera si era detto che si stava ingannando solo perché pensava a lei. Di fatti, virtualmente il suo naso era in grado di trovare chiunque nel villaggio dato un campione della persona che stava cercando. Si era convinto che la sentisse solo perché oramai era concentrato su di lei, perché conosceva bene il suo odore ed esserne circondato gli piaceva, perché voleva dire che era nei paraggi.

Una folata di vento, però, portò con sé un’altra traccia molto chiara mischiata all’odore di Hanabi – elicriso, iris e mirto. Alcol. Tequila, se proprio voleva essere preciso. 

«Lo senti anche tu?» chiese, e Akamaru abbaiò affermativo.

Una delle prime cose che sua madre gli aveva insegnato era che l’ultima cosa che poteva essere ingannata era il fiuto di un Inuzuka, anche perché gli odori erano una delle cose più complicate da contraffare con dei genjutsu. Così, la sua prima lezione, ancora prima dell’Accademia Ninja, era stata sul fidarsi del proprio naso. E ora il suo naso gli stava dicendo che l’odore era troppo intenso perché Hanabi fosse dall’altra parte del villaggio, nel comfort della magione della sua famiglia. Lei era lì, nella stessa foresta. E i suoi piedi si mossero prima che lui potesse processare la cosa, verso di lei.

Più si avvicinava e la sua attenzione si focalizzava su di lei, più l’odore diveniva chiaro, delineato nelle sue sfumature – abbastanza da capire che non solo quella era tequila, ma che non fosse nemmeno troppo buona – e il suo udito riuscì a distinguere un passo un po’ diverso da quello deciso che Hanabi aveva di solito. Tentennava, come se non fosse sicura della direzione che stava intraprendendo.

Vide per prima la sua schiena, ma la chiamò solo quando fu abbastanza vicino.

«Ehi, Ragazzina!»

Lei si girò, gli scoccò un’occhiataccia e si fermò per un secondo abbastanza lungo da far temere a Kiba di aver sbagliato momento. «Cagnaccio» gli rispose invece, con quel mezzo sorriso che le avrebbe tanto volentieri tolto a forza di baciarla.

«Non è un po’ tardi per una passeggiata?»

«Potrei farti la stessa domanda»

«Mica decido io quando Akamaru vuole uscire.» Indicò il cane, che intanto si era seduto al loro fianco. Akamaru abbaiò, chiaramente contrariato dal barile che il padrone gli stava scaricando addosso, ma questo Hanabi non lo poteva sapere. «E comunque, touchè.»

Hanabi rise. «Non fare il fantastico, quella parola te l’ho insegnata io»

«Vero. Ora, cosa ci faceva una così acculturata ragazzina d’alto borgo in una foresta che puzza di sangue alle… due e qualcosa di notte?» Avevano ripreso a camminare nella direzione che stava seguendo prima Hanabi.

«Sta’ zitto. Ero fuori con i miei amici» Hanabi mise su un mezzo broncio.

«Hm, hm.» annuì lui. «E immagino che ci sia un motivo se sei qui da sola invece che con i suddetti amici?»

«Oddei, da quando così ficcanaso?»

«Sono un Inuzuka, è tipo il mio lavoro.»

«Uhmpf» Si soffiò via un ciuffo di capelli da davanti alla faccia, e Kiba rise. «Hanno cominciato a darmi fastidio, così me ne sono andata.»

Sembrava così altezzosa, eppure si vedeva che impiegava quella frazione di secondo in più a mettere un piede davanti all’altro. Giravano un po’ in tondo, seguendo la direzione che prendeva Hanabi, mentre lui e Akamaru stavano ai suoi fianchi, come una scorta.

«Certo»

«Ovviamente! D’altra parte, sono uscita con loro solo per questo» disse, togliendo la bottiglia di tequila dalla borsa. Bingo, aveva ragione! Sua madre ne sapeva una più del diavolo.

«Quindi volevi bere, ma non volevi stare con loro?»

«Che fai, giochi al detective?» Bevve un sorso, poi gli offrì la bottiglia, che lui prese volentieri. «Forse.»

«Cosa hanno fatto per farti andare via?» Kiba sputò la tequila, che sapeva quasi di alcol denaturato, provocando una risata sguaiata della ragazza accanto a lui. Hanabi rise così tanto da tenersi la pancia. «Per gli anni dello Tsuchikage, ma che razza di schifezza avete preso? E non ridere! Se volevi bere, potevi venirmelo a chiedere, che io questa roba non te la do»

«Dovresti vedere la tua faccia! Diglielo, Akamaru!»

Il cane abbaiò e scodinzolò, dandole man forte.

«E non darle ragione! Che poi, non sei un po’ troppo piccola per bere?»

«Sono troppo piccola per un sacco di cose che faccio lo stesso, Cagnaccio, dovresti saperlo» rise, e Kiba si sentì colpito e affondato. «Che poi, sono la ragione per cui voglio bere. A volte è difficile rilassarsi, e non avevo voglia di essere presa in giro. Per questo me ne sono andata.»

«Noiosa» toccava a lui adesso fingere il broncio, e le diede una gomitata leggera mentre riprendevano a camminare, questa volta in direzione dell’uscita della foresta. «E poi potevi andare da Hinata. Anzi, no, meglio di no. Ma Naruto sicuramente- no, lui beve solo merda acida.» Sospirò, guardando la luna che si stagliava oltre le chiome degli alberi. «Saresti potuta venire da me. E chiedere.»

Hanabi rimase in silenzio, e lui non lo ruppe. Si sentì attanagliare lo stomaco dalla solita sensazione di disagio, come se fosse la persona sbagliata al momento sbagliato nel posto sbagliato. Shikamaru la faceva semplice, dicendogli di buttarsi e che l’avrebbe preso a calci, ma lui non era mai stato in una situazione così schifosa: Temari se l’era preso e l’aveva mollato, e con Ino erano anni che si facevano il filo a vicenda. Lui, invece, una volta di più si sentiva di troppo. Come poteva sperare in qualcosa se lei non voleva vederlo nemmeno per prendersi una sbronza e sfogarsi? Kiba voleva essere un porto sicuro per Hanabi, dove attraccare quando il mare in tempesta si faceva troppo impetuoso, ma come poteva esserlo se lei non voleva rivolgersi a lui per niente di diverso che una sacrosanta scazzottata? Sospirò: forse il genio aveva toppato, per una volta.

«Nah, avevo voglia di bere un po’ e allontanarmi dal clan, la rivoluzione e tutto il resto, e posso ignorarli mentre bevo. La carta “alcol buono e cane morbidoso in cui immergere la faccia” la sfrutterò quando avrò un problema serio, e avrò bisogno di lamentarmi.»

Kiba mise su un secondo broncio più finto dell’età dichiarata di Tsunade. «Ma guarda tu, che faccia tosta questa ragazzina!» brontolò, e Hanabi rise. «Subdola! Sfruttarmi per il mio buon cuore e la mia galantissima preoccupazione nei suoi confronti per avere alcol eccellente e il mio grosso, morbidoso cane da abbracciare! È giocare sporco, ragazzina.»

Akamaru abbaiò, sentendosi chiamato in causa e Hanabi rise ancora di più. Poi balzò avanti di un passo e piroettò nella direzione di Kiba, sfoggiandogli una linguaccia enorme: «Ma certo che lo è! D’altra parte, la rivoluzione non si fa giocando secondo le regole!»

Kiba le scoppiò a ridere in faccia. Non era forse quello che avevano fatto tutti loro, gli Undici di Konoha, cinque anni prima? Avevano combinato proprio un casino. «Questa volta devo darti ragione, ragazzina.»

«Questa volta? Io ho sempre ragione!»

«Non sempre!»

«Però molto spesso! Tipo il novanta percento delle volte.»

«Visto? Questa volta ho ragione io»

Hanabi sbuffò. Guidati da Hanabi, erano ormai erano arrivati davanti ai cancelli del cortile di Villa Hyuuga, e Kiba – nemmeno lei, a dire il vero – non poteva sapere se fosse stata una scelta inconscia oppure no, ma fu felice di averla accompagnata a casa sana e salva. Rimasero lì qualche secondo a guardarsi in faccia, e poi a guardarsi in giro, senza sapere bene cosa dirsi. Kiba non voleva proprio andarsene, ma lei sembrava sull’orlo di crollare addormentata e Kiba sperava proprio che potesse farlo sul suo letto, piuttosto che lì per strada. Di certo, non fremeva all’idea di accompagnarla svenuta all’interno, sotto lo sguardo assassino di qualsiasi Hyuuga belligerante che vivesse sotto quel tetto – Hinata e Zashi non contavano a quel proposito, ma la cosa rimaneva. Gli dava ancora i brividi ricordare come era stato guardato la primissima volta che era andato a prendere la sua amica per una missione e non ci teneva a ripetere l’esperienza.

Così si frugò in tasca e trovò uno di quei bigliettini per la coda in macelleria di quella mattina, un po’ stropicciato, e lo porse ad Hanabi.

«Ecco il tuo buono. Per il cane morbidoso e tutto il resto. Sfruttalo bene.» le fece l’occhiolino.

Hanabi lo prese con un sorriso. «Chissà se te ne ricorderai»

«Chissà»

Hanabi guardò ancora il pezzetto di carta per qualche secondo, poi rivolse un ultimo sguardo a Kiba. «’Notte Cagnaccio. ‘Notte Akamaru»

«’Notte Ragazzina» Akamaru abbaiò, e poi Hanabi sparì oltre i cancelli.

Solo allora Kiba si voltò diretto a casa propria a passo spedito, contento che le cose, anche solo per quella sera, fossero tornate normali, e che avessero battibeccato come sempre. Era una delle cose che gli piaceva di più, battibeccare con lei come due idioti. Ma questo alla Ragazzina non l’avrebbe mai detto.

Forse.

 
Note dell'autrice
Uhmm, ritorno in grande stile? Non credo proprio. Innanzitutto, sta cosa va avanti da un anno, e conta la bellezza di tre atti. Nelle prossime settimane quindi mi risentirete. Intanto... beh, innamorata di sta coppia dall'alba dei tempi (il 2013), finalmente sono riuscita a tornare e produrre qualcosa di qualità per loro.
Collaborazione e ringraziamento GIGANTE a NanaLuna che mi ha aiutato a scrivere, betato e fatto una copertina superfiga per la storia. Tanta roba relativa alla storia è già sui suoi profili Insta e Twitter (seguono link).
Altro? Ah, sì: tutto è nato da Spirale Ovale degli Articolo 31 e visto che quest'anno partecipano a Sanremo... eccoci qui.
Hope you enjoyed e ci si vede al prossimo atto,
Tata

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