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Autore: Biblioteca    10/02/2023    0 recensioni
“È lì, quel bastardo di un irlandese! Ci ha dormito anche l’altra notte! Puzza e appesta tutto il palazzo! Pensaci tu Sonny!”
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Ho deciso di raccontare l'entrata di Tom nella famiglia dei Corleone basandomi su quanto raccontato dal romanzo di Mario Puzo e quanto visto nel primo film. Se ci fossero dettagli canonici di cui non sono a conoscenza (non ho letto tutti i romanzi di Puzo) chiedo scusa e spero che la storia possa piacervi ugualmente :)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Tom Hagen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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“È lì, quel bastardo di un irlandese! Ci ha dormito anche l’altra notte! Puzza e appesta tutto il palazzo! Pensaci tu Sonny!”
Sonny Corleone, fece una smorfia molto strana. Il suo viso da cupido non era sfuggito ai brufoli, ai punti neri e a tutte quelle imperfezioni che colpivano i giovani nel tremendo periodo di passaggio chiamato “pubertà”. Nonostante ciò, risultava comunque più bello di Antony, il ragazzino che gli andava dietro fuori e dentro la scuola, e che lo aveva chiamato perché da alcuni giorni un ragazzino, il cui padre ubriacone aveva creato non pochi problemi nel vicinato, aveva preso l’abitudine di passare le notti negli androni dei palazzi popolati da italiani.
Ad Antony quel moccioso non piaceva ed era sicuro che con qualche bel pugno assestato sullo stomaco, non si sarebbe più fatto vedere in giro.
Sonny, sempre pronto a dimostrare quanto era bravo ad imporsi, da degno figlio di suo padre Don Vito, aveva ovviamente accettato.
Ma ora vedeva la sagoma del bambino nell’androne oscuro. Sembrava molto più piccolo di lui e aveva gli occhi praticamente chiusi, gonfi e pesti, circondati da brutte croste gialle. Portava sul collo i segni di grosse e pesanti dita, come se qualcuno avesse provato a strangolarlo.
In più era magrissimo tanto da sparire nei luridi vestiti che coprivano il suo corpo. A uno dei piedi mancava una scarpa.
Fin da bambino, Sonny le aveva sapute più dare che prendere. Aveva picchiato bambini grassi, damerini arroganti e teppisti molto più alti di lui. Ma era anche già consapevole che picchiare chi fosse stato più piccolo o più debole di lui, gli era impossibile.
Che gusto c’era a picchiare chi non poteva difendersi? Questo non l’aveva mai capito ed era ciò che l’aveva sempre distinto da tutti gli altri attacca brighe minorenni del quartiere.
Antony sembrava il solo a non averlo ancora capito; questo a Sonny dava molto fastidio.
“Allora?! Che aspetti!?” lo incitò il compagno moro, figlio di madre siciliana e padre napoletano. Sonny pensò a questo dettaglio delle sue origini, pensò che Antony se l’era svignata da solo varie volte quando avevano preso parte assieme a delle risse, pensò che suo padre aveva commentato infastidito verso di lui… e decise che era un’amicizia di cui poteva fare a meno.
Sferrò un forte manrovescio nello stomaco del moro e lo prese per il colletto.
“Se è un lavoro che devo fare io, io decido! E ora fuori dai piedi, stronzo!”
Il volto, deformato dalla rabbia, metteva già allora molta paura. Antony fuggì in fretta, spingendo via il bambino senza una scarpa (che nel frattempo si era alzato pronto per allontanarsi) per salire su per le scale.
Il piccoletto era caduto per terra e Sonny si era avvicinato, aiutandolo a rialzarsi.
“Me ne sto andando… Davvero…” mormorò il ragazzino tremando.
“Non preoccuparti, non voglio mica picchiarti! Che sono io, un mostro?” mormorò Sonny sorridendo.
Alla luce, il ragazzino gli fece tantissima pena: era pallidissimo, aveva i capelli unti di sporco e gli mancava un dente.
“Sei il figlio di Vito Corleone…” mormorò il bambino. Il suo tremore non era ingiustificato: aveva già visto Sonny girare per le strade, a picchiare con foga sovraumana bambini e ragazzi ben più grandi di lui. Era figlio di un uomo di cui tutti avevano paura, italiani e stranieri. Sapeva che nelle sue mani non sarebbe sopravvissuto.
“E tu di chi sei figlio invece?” domandò Sonny, che non sembrava minimamente turbato dalla considerazione.
“Di nessuno. Io non ho nessuno. Io sono nessuno.” Mormorò il bambino che a fatica riusciva a distinguere l’espressione di Sonny tra le croste che aveva sugli occhi “Io non ho una famiglia, non ho una casa. Me ne sto andando e non tornerò qui mai più.”
Da quel poco che vedeva, notò che Sonny non sembrava né divertito né arrabbiato. Il suo volto da cupido si era fatto stranamente pensieroso e cupo.
“Quindi è vero che tu dormi qui…” disse.
“Qui, altrove, dove non fa freddo…”
“Hai un nome?”
“Thomas Hagen.”
“Allora Tom tu ora vieni con me.”
 
Il padre di Tom era sempre stato chiaro: con gli italiani meno si aveva a che fare, meglio era. Un popolo pigro, chiassoso, che puzzava di aglio e cipolla.
Suo padre era stato anche quello che l’aveva picchiato ogni giorno da che era venuto al mondo. Il suo ultimo sfogo, dopo una notte di bevute al pub, gli aveva lasciato due lividi sul collo che proprio non volevano andare via.
Però Tom gli aveva comunque creduto, e aveva visto le botte che Sonny era capace di menare.
In cuor suo non gli dispiaceva l’idea che lo portasse in un vicolo buio per finirlo. Tanto sarebbe diventato presto cieco, come quella demente di sua madre.
Invece, fu l’interno di una casa la prima immagine sfocata che i suoi occhi registrarono dopo una buona mezz’ora di corsa, trascinato dalla forte mano di Sonny.
Sentì la voce della sua guida parlare a qualcuno in una lingua che non conosceva, che scambiò per italiano, ma che in verità era siciliano.
Poco dopo, una donna formosa, dai capelli nerissimi raccolti a crocchia, si parò davanti a lui.
“Oh picciriddu, stai proprio male!”
“Te l’ho detto mamma.” Esclamò Sonny, comparando accanto a lei.
Ancora stordito dalle sorprese, Tom non si accorse neanche di essere trasportato quasi di peso a un tavolo di legno, molto bello e lucido, che fu presto coperto da una tovaglia bianca.
Poi fu assalito alle narici da un profumo inebriante: qualcosa di caldo e sugoso che presto gli fu apparecchiata davanti.
Mangia picciotto.” Esclamò la donna, ma Tom non la capì. Né capì cos’era quello strano ammasso rosso e giallo che aveva di fronte. Era la prima volta che vedeva gli spaghetti al pomodoro.
La mano di Sonny gli mise nella sua una forchetta e allora capì che qualunque cosa fosse era da mangiare.
Stava per infilare la posata nel mucchio quando una mano lo fermò.
Ma era una mano diversa.
Adulta, ruvida, molto più grande e forte di quella di Sonny.
“Non senza l’olio Genco.” La voce allegra e autorevole, marcata di un forte accento, risuonò alle sue spalle. Senza volerlo, Tom sentì un brivido lungo la schiena. Qualcosa in quel tono lo intimoriva profondamente. Eppure era un timore diverso da quello che aveva provato per tanti anni per suo padre. Non si trattava di paura. Più di reverenza. Una parola che aveva sentito pronunciare, a volte, ma della quale non aveva mai capito il significato, fino a quel momento.
Chiunque fosse alle sue spalle, era sicuramente un uomo adulto, che incuteva “reverenza”. Questo la sua mente preadolescente concluse.
Intanto, la donna aveva versato dell’olio verdegiallo sopra al suo strano piatto.
“Ora va bene.” La mano lasciò andare quella di Tom, che tuttavia affondò esitante sul piatto che aveva di fronte. Ma quando le labbra toccarono la pasta, e la lingua sentì il sapore del pomodoro fresco e dell’olio d’oliva, tutto il corpo si rinvigorì. Iniziò a mangiare con foga. Da più di una settimana si era arrangiato con quel poco che la strada gli aveva offerto e ora il suo corpo aveva finalmente del cibo vero. E ne chiedeva ancora e ancora.
Non avrebbe mai dimenticato il sapore di quel piatto.
“Sono spaghetti al pomodoro.” Gli disse Sonny, che si era seduto vicino a lui “Lo sai dire? O non è roba per voi irlandesi?”
“Non sono irlandese.” Mormorò Tom con la bocca piena. Sperava che quella scodella fosse senza fondo.
“Come ti chiami, picciotto?”
Tom sentì di nuovo quel brivido lungo la schiena. Alzò la testa e per la prima volta, anche se sfocato per via dell’infezione agli occhi, vide il volto inespressivo di Don Vito Corleone. Anzi, in realtà distingueva un sorriso asciutto in quelle labbra così simili a quelle di Sonny.
“Si chiama Tom Hagen.” Disse Sonny.
L’uomo fulminò con lo sguardo il figlio grazie a un’occhiata raggelante che fece paura anche a Tom.
“Ho chiesto al ragazzo, non a te.” Disse solenne.
Tom notò che anche se non strillava arrabbiato come il padre, né appariva tale, emanava una collera profonda. Al punto che smise di mangiare per paura che parlando a bocca piena lo facesse arrabbiare ancora di più.
“Mi chiamo Thomas Hagen, signore.” Disse piano, cercando di guardarlo in faccia, per quanto in quel momento gli facesse un po' paura.
L’aura di rabbia sembrò dissolversi. Don Vito riprese a sorridere.
“Vedo che hai fame. Ti piacciono questi spaghetti Tom?”
“Sì, signore.”
“E l’olio? È quello che importo io. È buono, sì?”
“Sì, signore.”
“Sei un giovanotto educato. E i tuoi genitori? Dove sono?”
A quel punto Tom non se la sentì più di rispondere. Cominciò a tremare. E se fosse risultato maleducato?
Don Vito però, non parve offeso. La sua grande mano sollevò un po' il suo mento e scrutò con attenzione gli occhi.
“Questa va curata.” Disse senza essere però rivolto a nessuno in particolare. “Domani chiamiamo il dottore e vediamo di rimettere le cose a posto.”
“Allora Sonny, vai a preparare un bagno per Tom! Non può certo presentarsi al dottore così sporco!”
Esclamò allora la donna con tono allegro.
 
Tom fu lavato, vestito di abiti puliti e fatto coricare in un letto con lenzuola appena stirate e una calda coperta di lana.
Il tutto sotto il sempre vigile sguardo del Don.
Lui, come Sonny e la madre, furono molto sorpresi di scoprire che Tom aveva la stessa età di Sonny (giusto un anno di differenza) e che aveva vissuto molto tempo per strada, sopravvivendo al freddo e al caldo, alla pioggia e alle auto. Giurò di non aver mai rubato, anche quando molto affamato, cosa che fu accolta da Sonny con un sorriso malizioso, come se non gli credesse.
Sonny tuttavia, fu il più affettuoso. Gli concesse i suoi vestiti più belli, gli fece conoscere i fratelli minori Fredo e Michael, e la piccola Connie, che aveva iniziato a parlare.
Dopo di che giocarono tutti insieme a nascondino, gioco a cui Tom si dimostrò molto abile, a nascondersi ma non a cercare, forse perché non ci vedeva molto bene.
Il Don li osservava anche in quella occasione e ad un certo punto, quando Tom non sapeva dove nascondersi, gli indicò un punto dove ancora non aveva provato a entrare: una credenza di un bellissimo armadio, lucido come il tavolo dove aveva mangiato.
Il Don non solo suggerì, ma lo aiutò anche a sistemarsi per bene, tenendo aperta la porta e richiudendola lasciando però uno spiraglio per far passare aria e luce.
Nel buio, in quello spazio stretto, Tom si rese conto per la prima volta di non puzzare. E la cosa lo emozionò al punto da provare a piangere.
Per fortuna quell’infezione nascondeva bene le lacrime, pensò, altrimenti chissà come avrebbero riso gli altri ragazzi.
 
“Papà, posso dormire insieme a Tom?”
“No. Il ragazzo ha questa camera come tu hai la tua. Abbiamo preso questa casa grande apposta.”
“Ma se ha paura?”
“Ha dormito in strada, al freddo. È un ragazzo coraggioso. Non una mammoletta.”
Avvolto nelle lenzuola e nella coperta di lana, Tom si sentì molto orgoglioso di quel complimento del Don, anche se in verità aveva sperato che Sonny potesse restare un po' vicino a lui.
Anche perché gli piaceva proprio quel ragazzo, ora che lo conosceva bene.
E sentiva di piacere a lui, come mai gli era capitato con un coetaneo.
“Ho capito papà. Buonanotte Tom! Buonanotte papà!” Sonny lo salutò con la mano.
“Buonanotte…” ricambiò Tom a voce bassa.
Don Vito però non lasciò la stanza. Era quella degli ospiti ed era meno “vissuta” del resto della casa. Ma a Tom appariva enorme e lussuosa, lui che nella sua aveva avuto giusto il letto e qualche giocattolo, spesso vittima della collera del padre quasi quanto lo era stato lui.
Il Don prese una sedia e si sedette vicino al suo letto.
Non esprimeva alcuna emozione, mentre lo studiava in silenzio.
“B-Buonanotte signor Corleone.” Mormorò Hagen.
“Resto giusto per essere sicuro che ti addormenti. Quell’infezione può essere dolorosa. La conosco. Ho visto molti prenderla. Ma si può curare.”
“Quindi… Non diventerò cieco?”
Macchè, no ragazzo. Ora prova a dormire. Se poi hai dolore, mia moglie ti farà degli impacchi caldi da mettere sugli occhi. D’accordo.”
Tom Hagen ormai non aveva più paura del Don. Aveva paura di fargli qualche scortesia, o deluderlo. Ma non riusciva a staccare gli occhi dal suo volto. Il primo uomo adulto che l’aveva trattato con “rispetto”. Non lo voleva dimenticare. Qualunque cosa fosse accaduta il giorno dopo, non voleva dimenticare quel momento, quel giorno, quell’uomo.
“Signor… Corleone?”
“Don, ragazzo mio, Don Corleone.”
“Signor Don Corleone.” A quelle parole l’uomo non potè trattenere un mezzo sorriso “Che cos’è un picciotto?”
“Significa ragazzo, ragazzo in siciliano. Ti piacerebbe… un giorno… imparare un po' di siciliano Tom?”
“Sì… Signor Don Corleone…”
Don Corleone assentì col capo e rimase in silezio.
Solo allora Tom fu finalmente sopraffatto dal sonno. Nel dormiveglia però avvertì la mano del Don che gli carezzava la testa. La prima carezza dopo anni di botte.
“Buonanotte Tom.” Disse Don Vito Corleone uscendo dalla stanza.

 
  
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