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Autore: sacrogral    14/02/2023    19 recensioni
Io non ho più niente da dire su Lady Oscar e lo so. Ma oggi è San Valentino e, ragazze che mi leggete, se non meritate voi un regalo io non so chi lo merita.
E allora ho scritto. Non è una storia d'amore, ma c'è dell'amore.
Siccome voglio fare l'anticonformista al contrario, voglio dire che San Valentino è stato trasformato da una proficua festa consumistica in un'occasione per gli innamorati: e che venga, il tempo di innamorarsi ancora!
Protagonista della storia è Girodelle. La metto gialla, ma andrebbe bene pure verde.
E per voi, mie lettrici, solo rose (di Versailles) rosse.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Victor Clemente Girodelle
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Giorni di follia di uomini impazziti – penso – mentre scalo questa collina che sembra immensa.

Impreco e sacramento come un brigante di strada, fuggito forse per caso forse per merito dalle prigioni reali, da una condanna a morte certa e da un degrado infimo e inaspettato al mio rango.

Tutto ho perduto, e ho perduto tutto per amore, ma per cos’altro, in fondo, val la pena farlo?  Avessi almeno la soddisfazione, grande, della mia donna fra le braccia – nemmeno a pensarci; avessi almeno la soddisfazione, piccola, che tutto fosse servito per la sua felicità – nulla, nemmeno questo.

I capelli, senza controllo, si impigliano nei rami e le gambe mi tremano. Mi posso contare le costole ormai e mi sembra di scalare una montagna, una di quelle raffigurate nei libri di geografia su cui da ragazzino studiavo e ogni tanto sognavo, quelle montagne che prendevano pagine e pagine e sopra avevano sempre il Sole che brillava e mai la Luna che rischiarava, mentre io ora arranco e vedo quella palla enorme nel cielo, chiara chiara, che fra poco tramonterà.

E indebolito dalla prigionia e dagli stenti, pure dalla catena che mi hanno messo per qualche giorno, prima di rendersi conto, tutti, che sono ancora Victor Clement Florian de Girodelle – questo non me lo può togliere nessuno, nemmeno la morte – e levarmi allora, forse per cavalleria spirituale, almeno i ceppi, che hanno lasciato segni che non andranno via mai più; ecco, indebolito e braccato, come le volpi che liberavamo per la caccia, a Versailles, cent’anni fa, arranco su questi metri di terreno in salita, senza esser sicuro di nulla, e mi porto dietro solo il mio fardello  di dolore e rabbia.

Ricordo come fosse ieri – ma non sono passati anni, solo giorni  – Oscar davanti a me, a braccia spalancate: “Dovrete sparare per fermarmi, Girodelle”.

Che vigliaccata, che vigliaccata tutta femminile. Come se non lo avesse saputo che io, e le mie Guardie Reali, sue fino al giorno prima, ci saremmo buttati nel fuoco prima di sparare a una donna, e nelle fiamme  dell’inferno prima di sparare a lei! Come se non l’avesse saputo che chiedevo solo l’elemosina di un sorriso, e intanto le offrivo una via di fuga – avesse riacquistato il senno, vallo a sapere.

E infatti così è andata, e pazienza se doveva andare così, se era scritto. Ricordo che nemmeno la guardai negli occhi, mentre glielo dicevo che, per lei, avrei fatto qualunque cosa, e non ebbi l’onore di una risposta, lei tutta concentrata sugli ideali della Rivoluzione e liberté egalité fraternité , come se tutto quello avesse un senso per lei, così fine, così delicata – per lei, col suo cuore grande e nobile e francese.

Avrei voluto dirglielo, che era un sogno. Che si sarebbe svegliata d’improvviso, stupita e piena di divertimento negli occhi, e sarebbe stata nel mio letto fra lenzuola di seta e profumate di lavanda, non in mezzo alle sparatorie e ai pezzenti; avrei voluto dirle che non esisteva, il suo cavallo bianco, e che quell’uomo che aveva al fianco, bello della bellezza dei predestinati e dei morituri, era un’illusione – era il suo senso di colpa che si faceva carne, non la sua vita; lei invece si sarebbe svegliata a breve, nel mio letto, e avrebbe tirato un sospiro di sollievo perché aver accettato di sposarmi era stata la decisione più saggia e più lineare della sua vita, e avrebbe guardato al suo fianco me ancora addormentato, con la caviglia che sporge dalla veste da notte e il piede abbandonato, così come mi corico sempre alla sera e mi risveglio al mattino, uguale; e si sarebbe commossa a vedermi lì, perché noi non avremmo bisogno di due stanze, ce ne basta una, e ci basta un letto solo, un respiro solo, a me e al mio comandante, alla mia donna.

Volevo dirglielo che a quel punto si sarebbe quasi commossa, guardando l’anello al suo dito – preziosissimo anello e preziosissimo dito – e guardando me addormentato, col sorriso soddisfatto in faccia di chi dalla vita non desidera altro; e mi avrebbe svegliato con dolcezza, col suo corpo addosso al mio, nel chiarore della mattina estiva che ci invadeva lento.

Il mio rivale, al suo fianco con quell’espressione che ho visto solo in alcuni giocatori di carte, di quelli che perdono con disinvoltura e poi se ne vanno con un inchino e magari si fanno saltare le cervella nel giardino un minuto dopo; e intanto sentivo il calore di lui avvolgerla, proteggerla, senza che dicesse nulla, come se l’anima gli fosse uscita dal corpo, perché il cuore gli batteva troppo forte per trattenerla, e fluttuasse, come se l’anima di lui la abbracciasse, lei a braccia spalancate.

Mia madre mi ha sempre chiamato “Florian” fra le pareti domestiche, fin da quando da bambino giocavo a nascondermi nei luoghi più impensabili e lei, preoccupata, mi cercava e: “Florian, Florian, dov’è il mio fiorellino?” e io sorridevo dell’ingenuo piacere di essere cercato; ma madamigella Oscar no, lei mi avrebbe chiamato “Victor”, invictus, il vincitore. E l’avrei sentita addosso, mezzo addormentato, e il mio nome sussurrato all’orecchio dalla voce di lei, la mia donna, la mia sposa, mi avrebbe svegliato davvero, e l’avrei abbracciata senza nemmeno aprire gli occhi, tenendola stretta, la mia compagna, il mio comandante, nella gioia che non ha nome  del mattino insieme.

E invece, che le dissi?  Poco, credo, forse niente di più. Sotto una pioggia che era già sbarre di prigione e lo sapevo, nel freddo di un’estate senza più il calore, e nel viso di lei dove leggevo – che leggevo? – la passione, l’esaltazione del crociato, la follia del martire, e le braccia spalancate che sembravano pronte ad abbracciare ma in realtà fermavano e bloccavano, e promettevano anche un abbraccio, ma non per me.

E prima di voltare il cavallo, prima che tutto il drappello che comandavo si voltasse pronto a tornare indietro con la sconfitta e la resa scritte in faccia, ma senza aver fatto il gesto del saluto, quasi si inchinassero alla donna e non al loro comandante ormai, quasi a dire che rispettavano gli ordini che erano miei come mia era la responsabilità, io invece ci pensavo appena, a quello che accadeva; gettai uno sguardo di sfuggita al soldato rinnegato con l’occhio sinistro coperto da un ciuffo bagnato di pioggia, pronto allo scatto, lo sentivo – ma falla finita, resta fermo, non vedi che me ne vado, che me ne vado davvero? Guarda che son sempre io, André Grandier, sono sempre quello che si buttò nella Senna con te e lei, sfuggiti alla morte a stento; e son quello che sa perdere – e il pensiero intanto che si faceva sogno, nella nostra camera da letto, nello scandalo di non avere due appartamenti perché non ci servono, a noi, lo scalpore dei pettegolezzi sussurrati a mezza voce alla Reggia, quei due che dormono insieme, e tutte le notti; perché vogliamo dormire abbracciati tutte le notti, siamo sposi novelli, ci servono due scrivanie, due stanze per ricevere gli ospiti, ma due camere da letto, figuriamoci, mi viene da ridere a pensarci:  solo un pazzo rinuncerebbe a svegliarsi la mattina così, col corpo della sua donna addosso, con parole di miele udite a stento nelle orecchie assonnate; e solo un folle rinuncerebbe al piacere di girarsi appena e accogliere il primo bacio del mattino, nelle labbra e nei capelli che si confondono, fra ombre e luci; e solo un matto rinuncerebbe alla voglia di prendersi sua moglie ancora sotto il profumo delle lenzuola, allungando una mano, nell’intreccio delle gambe, nelle suppliche dell’amore.

Questo pensavo già caduto in disgrazia, con la fredda riconoscenza del suo sguardo a trafiggermi schiena e spalle perché sentimenti più caldi non ce n’erano, né tentativi di seduzione dell’ultimo minuto, chissà, almeno un avrei potuto amarvi a fior di labbra, in un’altra vita, in un altro momento, come consolazione estrema, avrebbe anche potuto dirlo; magari l’ha detto, mentre la sua riconoscenza gelida mi colava addosso, dietro le spalle: sperare non costa nulla.

Questa collina non finisce più, o forse son dimagrito e stremato, sono un fantasma, mi sono immaginato la porta della cella aperta e tutti che fuggivano a caso, mi sono immaginato di uscire all’aria aperta trascinato da una piccola folla in rivolta, e le persone a terra schiacciate, e la calca alle porte, e poi l’aria pura, l’aria puzzolente di Parigi da respirare a pieni polmoni, lacero e malmesso, ma in grado, con mia sorpresa, di correre; mi sono immaginato tutto e sono ancora nella mia prigione, sotto processo per alto tradimento, con la compagnia di me stesso che non sopporto più e l’aria fetida a trapassarmi polmoni e carne.

Ho forse sognato anche quel soldato gigantesco, quel soldato della Guardia Metropolitana, e anche il suo urlo da belva: “Fermi, lo conosco!” e senza nemmeno capire se parlava di me o con me svenire davanti a quello ed essere da lui raccolto al volo, come un fuscello, sentire il mio nome pronunciato chissà come, storpiato nella lingua del popolo ma era il mio davvero e prima del buio il breve scambio di parole: “Alain, io lo sgozzo” e la risposta secca: “ A questo penso io”.

E poi svegliarsi in una casa. Un letto nemmeno paragonabile al mio, ma pulito, niente cimici con cui combattere e niente ragni, nessun topo visibile a scorrazzare, qualcosa di simile a una dignità ritrovata, e sconosciuta.

Quel marcantonio con del cibo in mano, acqua e cibo. Sembrano secoli che qualcuno non mi offre del cibo, credo di non aver mai mangiato avendo davvero fame, di non aver mai bevuto avendo davvero sete. Ma quant’è buona l’acqua fresca!

È in borghese, adesso. Sembra ancora più imponente che in divisa, forse per paradosso. Un bisonte, un elefante – come quelli raffigurati nei libri di geografia, dove da ragazzo studiavo e talora sognavo – con le scarpe grosse e il  cervello piccolo, di sicuro.

Si siede al mio capezzale, mi offre da mangiare senza una parola e io senza una parola mangio. Mangio senza grazia, senza educazione, mangio come uno che si avventa sul cibo, piangerei tanto questo pane mi commuove, tanto questa zuppa da due soldi mi sembra buona. Mi sembra un miracolo. Non so come mi guarda il mio ospite e non so cosa abbia in mente, non so nulla.

Mi si snebbia il cervello, poco a poco. L’ho già visto. Non ricordo dove, ma uno così resta in mente, in qualche luogo del cervello che nemmeno si sa di avere, nella memoria che non è volontà di trattenere. È così grosso che mi potrebbe spezzare il collo senza fatica. Magari lo farà.

Aspetta che mi nutra. Anche i carcerieri aspettavano. Forse aspetta che pianga, e non ha torto, perché fra poco piango. Il pane nella zuppa: è una vergogna che non ci abbiamo pensato noi nobili, a richiederlo ai cuochi. È come quando ci siamo dimenticati di inventare la filosofia, noi francesi, e poi ti arriva un greco e dice: “Mentre voi vi arrampicate sugli alberi noi facciamo filosofia e pensiamo al senso della vita”.

“Il gabinetto è di là” dice, e son le prime parole che pronuncia.

Adesso può anche ammazzarmi, sono grato a quest’uomo.

Quando torno non ha cambiato posizione.

Neanche aspetta che mi sieda sul letto, sul mio letto, come ormai lo penso, che inizia a parlare, con voce morbida e piana:

“Cercavate il comandante, dico bene?”

E io ricordo – è un soldato di Oscar, è uno dei rinnegati, stava dietro di lei, un poco a sinistra, quel giorno.

“È morta fra le mie braccia. Il 14 luglio, davanti alla Bastiglia”.

Termina, senza espressione, e quella lacrima se non la vedessi non la indovinerei. Allora li ha conquistati davvero, i suoi soldati, quei figli del popolo che ai nobili torcerebbero il collo, a tutti, ma a lei no.

Sono fiero di lei. È stata la sua bellezza, è stata la sua bontà, è stata la sua forza? Cos’è stato?

Cerco di trattenere le mie, di lacrime: non lo sapevo che era morta. E non c’erano presagi o segni del mio corpo che me lo dicessero. Riesco a pensarla solo viva.

Non so se può chiamarsi “sospiro” quel fiato che emette il bisonte.

“Ha combattuto per quello in cui credeva, il comandante, e non aveva più niente da perdere perché aveva perduto tutto. Credo che non le importasse di morire, che abbia cercato la morte o abbia sperato che la morte la trovasse, perché la sua sarebbe stata una vita incompleta solo se non fosse finita. Perché ha capito che la vita si completa solo con l’amore e che è l’amore che dà senso agli ideali e non viceversa. Non ci vuole tanto, a capirlo, eppure anch’io ci sono arrivato solo vedendo lei, vedendo loro.

E ha saputo anche che nella vita si ama una volta sola. Si cammina, si cammina, solo per arrivare lì, all’amore e poi alla morte, e questo è tutto. E il cuore del comandante era profondo, ma non c’era posto per troppa gente da amare. Una come lei ama davvero una volta sola”.

Sorride amaro, mi pare, e forse il suo cervello invece non è così minimo. Ho pensato poco fa che lei avesse il cuore grande, ma forse ha ragione lui: profondo, ma non c’era posto per troppa gente.

“Voi siete il conte de Girodelle, ma entro breve quel conte e quel de saranno una condanna invece che un privilegio. Siete quello che voleva sposare Oscar. Lo so perché me l’hanno detto. E chi me l’ha detto non c’è più, come lei.  

Chi me lo ha detto avrebbe voluto  costruire per lei una casa di vetro, fragile e resistente. Una casa di vetro sul nulla, che nessun altro potesse vedere mai. Con le pareti che danno su un mondo nuovo e diverso, antico, di notte e chiarore. Per vedere solo le stelle che cadono, e foreste di infiniti simboli, e unicorni, e animali che non esistono e non esistono più. Solo con lei, nel sogno del loro amore. Non sono parole mie, sono parole di quello che l’amava come amano i poeti”.

Ma chi è questo, mi chiedo, un contastorie, un aedo? Una casa di vetro? Non ho mai sentito una bestialità tale. Le case di vetro non esistono. Questo tipo di amore non esiste.

Il mio palazzo, per lei – il mio palazzo, il mio cuore, il mio titolo! Tutto questo, per lei viva, buon Dio!

“Il mio nome è Alain de Soisson. Vi ho portato a casa mia per lei. Voi cercavate lei”.

“Cercavo lei” confermo “Ditemi dov’è”; finalmente spiccico parola, e non c’è neanche bisogno di ringraziarlo.

 
Ho davvero l’impressione che non riuscirò ad arrivare in cima, ma neppure a tornare indietro. Mi metterò seduto, in un posto a caso, uno comodo, e dormirò. Passerà l’estate, passeranno l’autunno e l’inverno e io dormirò ancora. Poi arriverà una ninfa dei boschi dai capelli profumati e mi sveglierà con un bacio. Sarà tutta oro e azzurro e  andremo a vivere lontano, in una casa di vetro che nessuno vedrà mai. Mangeremo zuppa con dentro il pane e berremo acqua fresca e nessuno ci troverà. Leggeremo poesie. Lei avrà un nome da uomo.

È l’alba, ormai. La chiara alba nel cielo color zaffiro calmo e sereno, che se ne frega degli uomini e dei loro incubi, dolce e pallida e senza vento.

 “Un funerale militare, spartano” ha detto il soldato gigantesco –  solo i suoi soldati col cappello in mano e un prete trovato per l’occasione, uno magro e fibroso, che ha pronunciato un discorso bello e duro, ha detto. Lontani gli amici e lontani i nemici. Niente cripta di famiglia, niente fasti da conti, niente Jarjayes, solo Oscar. Dovrebbe essere il bianco, il colore del lutto. Mi sembra di vederla, tutta bianca, fra fiori bianchi. Chissà se c’erano, i fiori.
Non ci credo, sono in cima. Il terreno si spiana, ci sono meno alberi. L’aria è diversa. Sono in cima e vedo quello che sono venuto a cercare. Riprendo il controllo delle gambe e della testa, il sudore mi appiccica addosso i vestiti troppo larghi.

“Madamigella” dico, senza nemmeno riprendere fiato “Sono venuto a salutarvi. Non lo so perché dormite qui, né a chi sia venuto in mente. Dovreste avere un castello, statue di angeli con la spada a vegliare su di voi. Ma la gente del popolo ragiona in un altro modo, forse nemmeno peggio. Avete una croce col vostro nome, solo il nome, chi passerà di qui non saprà mai chi siete davvero, non conoscerà la vostra bellezza e il vostro sangue. Ma forse a voi basta. Io non lo so più”.

 “Mi sento ridicolo davanti a voi, e non è la prima volta. Sono sempre arrivato secondo, l’ho capito da tempo. Non avrei dovuto considerarla una sfida come le altre, l’amore non è una gara e, anche se lo fosse, non l’avrei vinta. Vedo accanto a voi chi l’ha vinta, victor, il vincitore”.

Sposto lo sguardo sull’altra croce, solo un istante.

“Se lo avessi compreso prima non so cosa avrei fatto. Ma la consapevolezza è come l’amore e arriva quando arriva. Vorrei dirvi di non avervi mai amato, ma mentirei. Vorrei dirvi che adesso non vi amo più, ma ancora non sto dicendo il vero. Vi amo ancora, ma controvoglia.

E non so se amo voi o l’idea che ho di voi, così bella e così lontana, e sento che sarei stato felice al vostro fianco. Lo sento con ogni fibra del mio essere; ma bisogna essere felici in due.

Sono ancora vivo, e non prometto di dedicarvi il resto della mia vita. Ho già fatto tutto quello che potevo. Vi prometto che sarò migliore, che non mi avrete sulla coscienza, che non morirò per voi. Vi prometto di non dimenticarvi mai. Non vi farò metro di misura per ogni altra donna, ce ne sarà una che renderò felice. Di voi non le parlerò mai e vi porterò nel cuore sempre ”.

Osservo il cielo, limpidissimo.

“Non ho neppure un fiore, madamigella, non ho nulla da offrirvi. Ma qualcosa posso darvi, tutta la mia attuale ricchezza, anche se ho l’impressione di arrivare secondo un’altra volta”.

E allora prendo il coltello dalla tasca e, nella maniera più rapida possibile, mi taglio i capelli, con un gesto il più netto che riesco a fare, come se dessi un taglio al mio passato; e li spargo vicino a lei, a coprire la terra.

“Dicono che i capelli siano l’unica cosa che rimane viva dopo la morte, che continuano a crescere – non lo so, comandante, se i vostri capelli d’oro continuano a crescere. Credo di lasciarvi un pegno, di volervi dire che adesso divento un uomo, solo questo. Fino a ieri ero un ragazzo.

Mi sembra di arrivare secondo ancora una volta, mi sento come una scimmia che ripete gesti già perfetti, non so perché.

 Ma il mondo va così, Oscar, son solo strutture circolari, e noi camminiamo in cerchio, nella nebbia, e qualche volta ci incontriamo. Non sappiamo il perché di ciò che facciamo e siam burattini nelle mani di chissà chi.

E non so perché, madamigella, mi sembra di vedervi sorridere, nella vostra casa di vetro, al fianco di quell’uomo fatto di silenzi e ferro che ve l’ha costruita non riesco a immaginare come. Vi vedo sorridere perché siete felice e libera. Mi sono perduto tanto della vostra vita e non so come mi sia venuta in mente l’idea che potevate amarmi. Per me “amore” significava divertimento e semplicità, gioielli e svago, per voi passione e sacrificio. Non potevo comprendere la profondità.

Son sicuro che esista davvero quella che chiamiamo “anima” e mentre il vostro corpo riposa voi state vivendo un’altra vita di sogno. Io lo spero, amore mio, spero che ridiate di me adesso, e anche con me”.

E incredulo, stanco, lacero, malmesso, sorpreso, inquieto, agitato, forte e sincero mi sembrò davvero di vederla, splendente, serena, colorata, giocosa, profumata, tutta d’oro e azzurro, che mi salutava, ma sempre dietro a un vetro.
 
 
 
 
  
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