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Autore: awhmoony    13/03/2023    7 recensioni
Parigi è in fiamme, supplica afflitta nel tumulto ché s’avvicina la Rivoluzione, in mezzo a terrificanti rivolte popolari che si confondono tra i lamenti strazianti che squarciano il cielo di quelle madri che piangono disperate lacrime sui cadaveri dei figli rimasti senz’anima, si consuma discreto e intimo un amore struggente tra un comandante e una contadina, che tanto vorrebbero metter fine a quel conflitto sigillando le ostilità con un bacio in una piazza. Ma non succede, loro combattono al fianco della capitale che cade in ginocchio innalzando comunque quel desiderio di libertà che riverbera nel cuore di tutti sotto l’ultima notte stellata di Parigi.
[...] “Esser morta vorrei veramente. Mi lasciava piangendo, e tra molte cose mi disse:
È terribile ciò che proviamo. Ti lascio, non per mio volere. Va’ pure contenta, e di me
serba il ricordo: tu sai quanto t’amavo.”
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Soldati della guardia metropolitana di Parigi
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Che tu sia di passaggio o voglia restare un pochino di più, spero che in questo libro tu possa trovare un po’ di pace e di riposo da un mondo che va sempre di fretta.

Avvertimenti: la coppia principale della storia sarà Femslash, perciò se a qualcuno dà fastidio l’idea di una Oscar omosessuale, non disturbatevi nemmeno a proseguire la lettura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PROLOGO.

 

 

A mia mamma,
che mi ha insegnato
ad amare l’arte, il teatro,
la danza e i libri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Francia, primavera 1772. I soffici e verdissimi ciuffi d’erba si incastravano l’un l’altro in una danza disconnessa, seguendo in tenera eufonia il piacevole battito del vento primaverile che si era alzato quella mattina. Sembrava una frenetica corsa quella messa in scena dalle poche nuvole dipinte sulla tela azzurra del cielo, che si muovevano lente e rilassate, e del sole che repentinamente le raggiungeva sorpassandole una ad una; riversando sul paesaggio di infinite pianure in fiore un piacevole scenario di luci e ombre, dedicando all’ambiente un’illustrazione come fosse un dipinto realizzato con acquerelli. D’improvviso, come se al pittore di quella stramba rappresentazione fosse giunto un bagliore di creatività, ad aggiungere un tocco di incanto in più al dipinto, apparvero da dietro una spessa porta di legno massiccio, le figure scatenate di due bambini che con agitato entusiasmo correvano su quei prati freschi, calpestando con indifferenza le infauste margherite che sventurate si trovavano sotto il loro passaggio. Più distintamente osservati, i due bambini all’apparenza sembravano identici – un distratto errore di pennello, avrebbe assodato il pittore –; lo stile a specchio usato per tracciare i lineamenti fanciulleschi, la forma dolce degli occhi e il color carbone per le iridi, il tratto delicato esercitato per disegnare le forme acerbe dei corpi apparentemente uguali, pareva presentare un difetto: uno dei due bambini indossava un vestito con le maniche a sbuffo, la gonna ampia e agghindato con pizzo e merletti.

La verità era che quelli erano due gemelli, un maschio e una femmina – qualcuno avrebbe potuto comunque definirli un errore – e non v’era alcun pittore ma soltanto la quieta figura di un uomo che dipingeva esclusivamente con l’utilizzo degli occhi. Nessun artista sarebbe stato in grado di replicare fedelmente l’immagine che lui stesso stava tratteggiando nella sua mente. Incastrandola saldamente alle radici più solide della sua memoria.

Se ne stava indulgentemente in disparte, il buon Gérard Moreau, con la schiena dritta e la mano destra saldamente intrecciata al polso sinistro in una posizione perfettamente impettita. Mantenne una solenne espressione di inflessibilità mentre osservava i suoi figli rincorrersi e sfidarsi in duello con due spade di legno in principio utilizzate dai padri al fine di addestrare i figli maschi al combattimento. In circostanze dissimili, che non vedevano Gérard angosciato da insidiosi e abominevoli pensieri, non avrebbe indugiato sull’atteggiamento disdicevole della figlia femmina che, con indiscrezione e prepotenza, persisteva a sbarazzarsi di attività orientate alle altre bambine del villaggio; prepararle correttamente ai fondamentali doveri domestici. Tuttavia, in cuor suo, Gérard era consapevole che opprimere la personalità ribelle della fanciulla sarebbe stato altresì inconcludente. L’anziana e accigliata Madame Boucher la quale si dedicava a ospitare le bambine con l’unico scopo istruirle a svolgere correttamente i lavori casalinghi che una futura moglie doveva essere esperta ad assolvere, aveva sempre riservato un’occhiata arcigna in direzione di sua figlia; giudicandola con un profondo sentimento di indignazione e interpellando Gérard con una annotazione di rimprovero: «Sua figlia, Signor Moreau, assomiglia più a un ragazzaccio che a una fanciulla. Ha modi rozzi, rudi, non certamente adatti a una bambina. In più, preferisce dilettarsi a intagliare il legno con un coltellino piuttosto che nel lavoro a maglia. Le consiglio sinceramente di prendere provvedimenti più severi nei suoi confronti. Di questo passo, temo orribilmente che non troverà mai marito.»

Gérard Moreau che era per natura un uomo dedito a seguire rigidi archetipi – i quali si premurava di tramandare ai suoi figli –  si era trovato in difficoltà quando a mettersi in mezzo alle sue inflessibili illazioni e alle indiscutibili dottrine che seguivano un ideale preciso, era apparsa una bambina che riusciva a guizzare via da tutto quello che era giusto, naturale, normale. Quella fanciulla dagli occhi grandi e scuri era riuscita a mandare tutto in confusione.

Eppure, osservare i suoi figli giocare era un’immagine che non avrebbe mai voluto togliersi dalla memoria e prima che potesse accorgersi della comparsa improvvisa di un uomo che si era sistemato nella sua medesima posizione alla sua sinistra, quest’ultimo parlò: «Però! la piccola Joëlle è una vera forza della natura, Gérard.» Non mancò di osservare il Dottor Masson, che era da pochissimo riemerso dalla penombra della porta d’ingresso di casa Moreau. Entrambi gli uomini avevano assistito alla visione della piccola Joëlle – anche se tanto piccola oramai non lo era più - mettere al tappeto il fratello; gli stava puntando il suo bastone davanti al viso mentre lo teneva bloccato a terra con un piede poggiato sul petto, e un sorriso trionfante aveva preso possesso del suo volto. Gérard dedicò un attimo di attenzione nell'esaminare minuziosamente l’espressione dell’amico, poco più alto di lui, nell’inutile tentativo di intercettare qualsiasi tipo di atteggiamento sospetto, ciò nonostante quello che riuscì a decifrare furono soltanto un leggero sorriso tirato all’insù e rughe d’espressione. Demoralizzato, Gérard voltò lo sguardo nuovamente sulla vista dei suoi figli che in lontananza avevano ripreso a giocare, e sentendosi adirato, proruppe con arroganza

«Già, anche troppo. Credo che sia arrivato il momento di essere più severo con lei, deve capire che è una ragazza e come tale non può più permettersi tali comportamenti.»

La sua affermazione tanto concitata strappò una risata divertita all’amico, il quale di rimando gli appoggiò gentilmente una mano sulla spalla: «Suvvia, è ancora una bambina. Può ancora concedersi la libertà di far ciò che vuole. Vedrai che tra qualche anno ti porterà a casa un bel giovanotto e ti darà la notizia di volersi sposare! A quel punto, amico mio, vorrai di nuovo riavere davanti la piccola e ingenua bambina che gioca con il fratello e i cui occhi s’illuminano per nessun’altra persona che te.»

Joëlle Moreau aveva dieci anni ed era l’unica figlia femmina della famiglia. César era suo fratello gemello e aveva raggiunto la sorella solo dopo dieci minuti dalla sua nascita, il tempo sufficiente a raffigurarla a tutti gli effetti come la sorella maggiore e senza tenere in considerazione le differenze di genere era la riproduzione fedele della sorellina. Stessi capelli, stessa forma degli occhi e perfino stessa altezza. Se osservati senza sapere chi fossero non si sarebbe potuto nemmeno distinguere chi dei due fosse Joëlle e chi invece César. Malgrado ciò avevano due caratteri totalmente differenti: César era un bambino con un temperamento gentile e tipicamente mite, possedeva un’indole più mansueta e diligente. Estremamente affettuoso, era colui che si concedeva più facilmente alle coccole della madre e che reagiva con più sensibilità all’austerità del padre. Joëlle, al contrario, presentava una personalità più ribelle. Avventurosa e dal carattere esuberante, a tratti irrequieta e attaccabrighe soprattutto nei confronti degli altri bambini del villaggio quando essi sembrava si divertissero a infastidire lei e il fratello. Apparentemente più distaccata alle premure della madre e più intrattabile nei confronti dell’autorità del padre.

Sembrava, in effetti, che le personalità dei due bambini si fossero intrecciate, disconnesse e le chiacchiere sempre più esasperate di esagerate presupposizioni – ché la madre avesse avuto delle complicazioni durante la gravidanza, la troppa sensibilità e l’eccessiva fragilità di quest’ultima avevano portato a ostacolare il normale svolgimento di una gravidanza, che l’estremo stato di povertà in cui vigeva ormai da tempo la popolazione francese aveva avuto delle ripercussioni su uno dei due feti, rendendolo dunque debole anche di mente – e di gonfiate fantasie, che in un paese di campagna come quello erano come il pane fresco la mattina. Gérard coraggiosamente non aveva mai dedicato la benché minima attenzione ai tali pettegolezzi, aveva sempre distolto lo sguardo con noncuranza alle occhiatacce che riservavano le donne del paese a lui e ai suoi figli quando li vedevano camminare per strada o entrare nei negozi e aveva sempre fatto finta di non udire i chiacchiericci. Gérard Moreau non credeva a quel che si diceva in giro, si fidava ciecamente esclusivamente dell’opinione scientifica e medica del Dottore del paese, Gilbert Masson, per altro un vecchio amico; e se il buon vecchio Gilbert confermava l’assenza di qualsiasi tipo di complicazione avvenuta durante la gravidanza, allora così doveva essere. Dopotutto, non c’era niente che alludeva che ci fosse qualcosa di sbagliato nei suoi figli. Il fatto che fossero gemelli aveva creato quella catena infinita di polemiche e dicerie, Gérard lo sapeva bene eppure non poteva che essere più orgoglioso della sua famiglia.

 

 

«Hai preso i fiori per la mamma?» Chiese Joëlle lasciando andare un pizzico di supponenza, in attesa con i pugni appoggiati sui fianchi e un’espressione severa a sorreggere le intenzioni autoritarie. Attendeva che il fratello tornasse con i fiori che avevano raccolto qualche minuto prima. L’obiettivo dei due fratelli era inizialmente quello di cercare la posizione più strategica nei prati in cui v’erano più fiori per costruire delle collane e corone da poter regalare alla mamma. Tuttavia, poco dopo aver trovato l’angolo perfetto occupato prevalentemente da margherite, i due fratelli si ritrovarono a duellare e rincorrersi. César annuii entusiasta porgendo alla sorella il bellissimo mazzo di fiori con margherite, narcisi, iris e altri fiori di campo.

Varcarono la soglia di casa: la modesta abitazione dei Moreau possedeva solo due stanze. I fratelli erano costretti a dormire tutti insieme in un unico letto posizionato in un angolo della stanza, che fungeva contemporaneamente da cucina e sala da pranzo, mentre i genitori possedevano una piccola camera adiacente. Non erano economicamente messi meglio rispetto ad altre famiglie del villaggio, ma quantomeno avevano un saldo tetto sopra alla testa e il cibo in tavola ogni sera. I due bambini socchiusero la porta della camera matrimoniale individuando la figura debilitata, ma pur sempre raffinata e bellissima, della madre stesa sotto le coperte. Teneva la schiena appoggiata al bordo del letto e si trovava impegnata a leggere un libro con le figure al più piccolo dei fratelli: Hugo. L’ultimo arrivato della famiglia, che aveva ormai quattro anni, non aveva niente in comune con i fratelli maggiori: era biondissimo, gli occhi erano verdi come quelli della mamma e il viso paffuto e la carnagione chiarissima gli davano tutta l’aria di derivare da antiche civiltà nordiche. Camille Moreau era la mamma di Joëlle e César, di Hugo e moglie di Gérard. Giovane donna dall’incantevole bellezza, sempre con un sorriso che le illuminava il viso pallido e dai lineamenti delicati, la voce che risuonava così soave da sembrare quella di un angelo e non era mai di brutto carattere; ma sfortunatamente estremamente cagionevole di salute. Era sempre stata incline a prendersi qualsiasi tipo di malanno: influenze e allergie erano all’ordine del giorno e per questa ragione quasi sempre si trovava obbligata a letto a riposare.

Appena gli occhi verdi della donna si posarono sulle figure dei suoi bambini, il viso s’illuminò di emozione: pare che si riaccendesse in lei la vitalità che negli ultimi tempi andava via via esaurendosi. I gemelli si affiancarono al letto e Camille si prese qualche istante per osservarli meglio: Joëlle aveva un sorriso a trentadue denti e come al solito, dei due, era quella che rientrava a casa sempre con qualche livido o graffio da qualche parte, sporca di terra e di erba. Al contrario, César le rivolgeva un timido sorriso e non riportava né graffi, né lividi, rimanendo sempre leggermente indietro rispetto alla sorella.

«Allora, cosa avete fatto oggi di bello?» Domandò invitandoli a sistemarsi sul letto assieme al fratellino più piccolo. Appena si furono messi comodi iniziò il racconto della giornata appena trascorsa.

«… E poi ho messo al tappeto César! Ancora non riesce a batter–» Joëlle non riuscì a terminare il racconto che venne improvvisamente interrotta da un violento attacco di tosse della Signora Moreau. Joëlle era solo una bambina, sapeva ancora poche cose del mondo e a scuola della morte non se ne parlava mai, ma non era stupida: era un’abile osservatrice, dotata di ottima intuizione e intelligenza e si era accorta da tempo che la mamma non s’era presa una semplice influenza come al suo solito. L’assiduità con cui il Dottor Masson frequentava casa sua era aumentata considerevolmente nelle ultime settimane: si tratteneva in camera della mamma di Joëlle con maggiore persistenza e sempre frettolosamente si sottraeva a una rigenerante tazza di caffè che, in precedenza, non avrebbe mai neanche lontanamente rifiutato. In equivalenza con gli atteggiamenti sempre più sospetti del Dottor Masson, che rivolgeva sempre più spesso sguardi fugaci ai bambini e l’atteggiamento fortemente addolorato ogni qualvolta che faceva la sua comparsa dalla camera matrimoniale, la tosse della mamma era peggiorata; si era trasformata in qualcosa di più violento e feroce. Così tanto da toglierle il respiro. Joëlle aveva dieci anni e già portava sulle spalle il peso della consapevolezza di non avere molto tempo prima che la sua mamma se ne andasse per sempre.

 

Accadde in una pallida giornata d’autunno. Ai bambini era stato proibito da tempo di entrare in camera della mamma, dunque erano settimane che non riuscivano a vederla più; a esclusione di qualche brevissima sbirciata dalla finestra. Era stata un’idea di Joëlle, quella di percorrere tutto il perimetro della casa e una volta aver trovata la finestra che dava sulla stanza da letto, arrampicarsi e poter così dare un’occhiata alla mamma era una cosa da niente. Camille, che poteva udire i rumori e le chiacchiere dei suoi bambini, tentava sempre di sembrare il più serena possibile. Salutava e sorrideva ai suoi figli che preoccupati la guardavano dalla finestra. Ma poi successe che le condizioni fisiche di Camille peggiorarono ulteriormente e Gérard, che era al corrente delle visite clandestine dei tre bambini, coprì le finestre con una grossa tenda. Da quel momento i fratelli Moreau non videro più la mamma.

Solo Joëlle, testarda e preoccupata, colse l’occasione in cui suo padre e César erano fuori per intrufolarsi in camera da letto. Si alzò sulle punte, afferrò la maniglia della porta e l’abbassò lentamente. Quando la porta fu aperta, la bambina venne accolta dall’immagine di sua mamma come l’aveva sempre vista: appoggiata con la schiena alla testata del letto, i capelli biondi le arrivavano sotto le spalle, la pelle era estremamente pallida, sudata e le mani tenute in grembo erano secche e martoriate. Gli occhi chiusi, le occhiaie evidenti e le labbra screpolate poiché costretta a respirare dalla bocca. Ma agli occhi di Joëlle, sua mamma era bellissima.

«Mamma?» Chiamò la ragazzina, tenendosi discretamente nascosta dietro la porta socchiusa. Aveva paura, era terrorizzata a dire il vero e lo spavento si manifestò anche nella voce. Tuttavia, appena sua mamma aprì gli occhi e la vide, si sforzò di far apparire un discreto sorriso e aprì le braccia verso di lei.

«Joëlle… che cosa ci fa qui la mia bambina?»  La voce era debole, le corde vocali sembravano come consumate.

«Volevo vedere come stai.» Rispose rapidamente Joëlle, che piano piano avanzò, ritrovandosi dopo poco accanto alla donna malata. Quest’ultima le rivolse un sorriso gentile, spostando una mano per accarezzarle dolcemente la testa. «Sei diventata davvero bellissima. La mia bellissima bambina.»

Joëlle si precipitò repentinamente fra le braccia della mamma, circondandole il petto con le piccole braccia e nascondendo il viso contro suo petto. Poteva udire il debole battito del suo cuore e percepire le affaticate braccia stringerla forte a sé. Restarono immobili in quella posizione per dei minuti interi, finché la bimba non si sentì afferrare gentilmente per le spalle e sollevare, cosicché gli occhi color smeraldo della sua mamma potessero incontrare quelli color carbone dei suoi. Camille allungò una mano scheletrica e tremante ad accarezzare i capelli della bambina arruffati, districandole in quelle ciocche scure perennemente annodate trattenendo il palmo facendolo scivolare dolcemente sulla guancia morbida; indugiò sulla delicatezza di quel tocco, fissando sulla pelle ogni ricordo di quell’affettuosità. La reminiscenza raccapricciante che trapassò davanti alle pupille di Camille manifestandosi in un’immagine dissonante della figlia più che adolescente, riuscì a rassicurarla ma pure riuscì a farle nascere una malinconica sensazione che le soppesò sul cuore. Cullò a sé la bambina finché ella non s’addormentò tra le sue braccia, inconsapevole che quella sarebbe stata l’ultima volta che Joëlle avrebbe avuto la sua mamma così vicina.

 

 

 

 

Sembrava una mattina come le altre. Fuori, i grandi prati e i tetti delle case erano sotterrati dalla neve, con l’arrivo dell’inverno gelido fu sempre più difficile mantenere calde le abitazioni. I Moreau tuttavia potevano ritenersi fortunati: il capofamiglia discendeva da una umile ma diligente famiglia di panettieri, il pane in casa era l’unico cibo che non mancava mai nonostante il costo elevato delle materie prime. Essendo dunque Gérard Moreau un panettiere e svolgendo prevalentemente il suo lavoro in casa, il calore che fuoriusciva dal forno sembrava sufficiente a tenere tutti al caldo, anche se per poco. Joëlle si svegliò subito dopo che udì il rumore di una porta chiudersi. Immaginava che il padre e il fratello fossero usciti di casa per fare spesa, perciò si tolse le coperte di dosso e corse il più velocemente possibile in camera della mamma. Quando spalancò la porta, però, la scena che le si presentò davanti fu terrificante: suo padre era inginocchiato accanto alla donna, nel frattempo che tentava di soffocare il pianto nascondendo la faccia sul materasso. Il Dottor Masson era invece in piedi davanti al letto, immobile, con un’espressione addolorata e gli occhi abbassati sugli stivali. E poi c’era la mamma, Camille Moreau era distesa, inerme, il braccio sinistro abbandonato al lato del corpo e la testa piegata. Gli occhi aperti, inespressivi, spenti. «La mamma se n’è andata, Joëlle.»

 

 

 

La morte, raffinata e tanto elegante sfiora con la punta delle dita le corde più delicate dell’anima di chiunque, passa spesso inosservata e difficilmente ci si accorge della sua tacita presenza. Ma è lì, in attesa; la si può intravedere nei volti pallidi e smunti, riflessa negli occhi vitrei e velati di stanchezza, che si nutre, insaziabile e con estrema lentezza, di quei rimasugli di vitalità dalla pelle. Questa è la morte, brutale e violenta, non guarda in faccia a nessuno e assume i più svariati aspetti modellandosi agli occhi degli Umani come la rabbia più accecante e il dolore più straziante. Per i bambini la Morte è come un grosso animale le cui fauci restano aggrappate alla gola sanguinante della povera vittima: prosciugandola. Così aveva visto la Morte Joëlle; una bestia che agguantata ferocemente alla gola della sua mamma, la osservava fissa con i suoi occhi rossi e insaziabili. Quell’immagine le sarebbe apparsa in sogno tutte le notti, sottraendole lentamente, goccia dopo goccia, quel nettare prezioso della sua sensibilità.

   
 
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