Welcome
aboard
Kizaru-
Dignità passata, speranza futura
Copenaghen,
Danimarca, 20 aprile 1817
La
strada era deserta e
silenziosa, quella mattina, quando d’improvviso si udirono
delle grida
concitate provenire da una taverna vicina al porto.
La
porta si spalancò, e da essa un
uomo alto e slanciato sulla quarantina fu proiettato fuori con
violenza,
incespicando paurosamente e finendo con la faccia in una pozzanghera
fangosa.
“Non
farti più vedere straccione!”
sbraitò comparendo all’uscio un grasso oste dai
baffi appuntiti che indossava
un grembiule: “Non vogliamo perdigiorno come te! Prova a
rimettere il naso
nella MIA locanda e assaggerai di nuovo il MIO
bastone!”.
Frastornato,
l’uomo che era appena
stato espulso così bruscamente si alzò in piedi,
massaggiandosi il corpo
dolorante per le botte, si pulì come poté gli
occhiali e si guardò intorno.
Sconsolato
dall’ostilità che
l’ambiente circostante provava nei suoi confronti, prese a
percorrere la strada
lastricata da pietre irregolari a grande falcate.
La
tristezza e la malinconia lo
divoravano, ed erano anche aggravate dal ricordo che non era sempre
stato così,
che la sfortuna era purtroppo subentrata solo di recente e il disprezzo
al suo
seguito.
La
gente che camminava ai suoi
lati indaffarata in mille faccende si teneva a debita distanza, evitava
di
guardarlo e storceva il naso per l’odore non proprio pulito
che lo ammorbava:
certuni si facevano il segno della croce, altri sputavano per terra con
disgusto.
Eppure
tutti quelli fino a poco
tempo prima come minimo si sarebbero scoperti il capo, avrebbero
discusso con
lui di vari argomenti, gli avrebbero offerto un bicchiere, come si
conveniva a
un uomo della sua posizione.
Era
cominciato tutto tre mesi
prima.
All’epoca
Kizaru godeva di
prestigio e agiatezza; era un navigatore esperto che comandava una
bellissima e
solida nave, l’“Archangel”, e una ciurma
fidata di professionisti.
Per
anni aveva svolto con successo
il mestiere del baleniere, sfidando impavido uragani, ghiacci, guerre e
corsari, girando i sette mari e realizzando grandi guadagni.
Poi
venne quella dannata notte di
gennaio.
Faceva
freddo, molto freddo, e sul
vascello tutti erano rintanati sottocoperta, cercando di poltrire sulle
amache
e di scaldarsi con birra e coperte di lane.
Sul
ponte oscuro e coperto di
nevischio, vestito con una pesante cappa da marinaio, con il volto
seminascosto
da una sciarpa e il cappello a tricorno calato sin sugli occhi, solo
lui, il
comandante, resisteva stoico.
Si
era offerto di risparmiare ore
di fatica agli altri membri della ciurma pilotando lui stesso la nave,
e così
la baleniera proseguiva nelle infide acque diretta verso casa.
Era
una notte nerissima e quasi
senza luna e, sebbene Kizaru stesse molto attento scrutando guardingo
in tutte
le direzioni, a un certo punto udì uno schianto
terrificante: il veliero aveva
urtato contro uno scoglio sommerso, squarciandosi.
Inutili
furono i tentativi
disperati di salvare l’ “Archangel”
facendo forza sulle pompe; l’acqua entrava
irruente nell’enorme falla, così non si
poté che abbandonare la nave.
Mentre
le due scialuppe si
allontanavano sulle onde scure, i superstiti dell’equipaggio
fissavano attoniti
il battello che spariva negli abissi.
Undici
uomini, immersi in un
profondo sonno, non si accorsero della tragedia e morirono nelle loro
cabine,
senza soffrire; e da quel giorno tutto cambiò.
Oltre
a diventare oggetto di
livore per le famiglie delle vittime, secondo cui avrebbe abbandonato
quei
poveracci al loro destino, tutti presero a sospettare di lui.
Secondo
i più il fatto che il
vascello fosse affondato nelle familiari acque davanti a Copenaghen
proprio
mentre Kizaru era al timone non faceva che testimoniare la sua
incompetenza, di
cui
molti
rivali gelosi lo avevano già
accusato, mentre altri si spinsero addirittura a supporre che fosse
tutto parte
di un piano con cui egli mirava a intascare soldi
dall’armatore della nave.
Alcuni
sopravvissuti iniziarono
poi a instillare il dubbio che il loro capitano portasse sciagura ai
battelli
su cui si imbarcava, e citavano molti presunti esempi; per tutte queste
ragioni nessuno
ormai lo voleva più
assumere, neanche come mozzo o cuoco.
L’ex
baleniere ripensò a quegli
infelici mesi, in cui aveva tentato di annegare i dispiaceri
nell’alcool: gli
rimaneva solo poco denaro, e poi non avrebbe più saputo di
che vivere.
Chiunque
al suo posto avrebbe
venduto la bella giubba bianca con polsini e colletto dorati che
indossava
sulle spalle come un mantello, ma Kizaru gli era troppo affezionato:
era
l’unico ricordo di quando era un rispettabile capitano che
solcava infiniti
spazi azzurri reggendo un timone di legno.
Come
ogni giorno, decise di girare
per le banchine per il solito triste rituale di chiedere a qualcuno se
volesse
ingaggiarlo in qualsiasi ruolo, persino gratis: e anche quel giorno non
racimolò
che rifiuti da ben sei equipaggi, che si erano messi a imprecare
violentemente
vedendolo arrivare.
Restava
solo un ultimo vascello:
un trealberi dotato di molti pennoni, dalle fiancate affusolate e dalle
prua
appuntita dipinte di giallo, con lo scafo punteggiato da portelli di
cannoni.
Sembrava
un bel bastimento,
addirittura troppo bello per essere una baleniera, come denunciavano le
molte
scialuppe e le vele macchiate dal fumo dei forni in cui si ricavava
l’olio, ma
purtroppo era straniero; batteva infatti bandiera britannica.
Kizaru
parlava poco e male
l’inglese, imparato approssimativamente nei suoi viaggi e
nelle taverne, ma
decise di fare un ultimo tentativo: o quello o la miseria
più nera.
“Ehi,
della nave! Avete bisogno di
uomini?” chiese portandosi le mani alla bocca.
“Sicuro!”
rispose un marinaio
sporgendosi dalla murata. “Vieni pure e discutine con il
capitano!” aggiunse
facendo scendere la passerella fino al molo.
Salito,
al visitatore fu indicato
un uomo poco più vecchio di lui, persino più
alto, forse più di due metri, che
indossava sopra una camicia di lana un giubba bianca appoggiata sulle
spalle,
proprio come il danese, e una bandana che copriva radi capelli bruni;
sul viso
severo spiccavano due enormi baffi bianchi a forma di mezzaluna, mentre
il suo
rango era indicato dalla coppia di pistole e dalla spada che teneva
nella
cintura.
“Good morning” esordì
l’inglese stringendogli vigorosamente la mano.
“Il mio nome è Edward Newgate, ma molti mi
conoscono in tutto il mondo come
Barbabianca”.
“Piacere,
ex comandante Kizaru”.
In
un attimo l’interlocutore fece
un’espressione sbalordita e domandò:
“Kizaru? Il capitano dell’
“Archangel”! Ho
sentito parlare molto di voi! E’ un onore avervi
qui”.
“Come?
Non temete che io vi porti
sfortuna o affondi la vostra nave? Non avete sentito le storie sul mio
conto?”
chiese il danese, quasi scandalizzato.
“Stupide,
inutili fandonie! Un
uomo come voi non dovrebbe essere calunniato in quel modo! Tutti sanno
che
siete un marinaio esperto che conosce il mestiere. Ditemi, vi intendete
di
caccia alla balena? Siete mai stato nel Pacifico?”.
“Ho
fatto tre volte il giro del
mondo- rispose non senza un certo orgoglio- e non
c’è luogo dalla Groenlandia al
Madagascar dove non vi possa condurre, e le balene non hanno segreti
per me; so
dove trovarle, quando, come inseguirle, cosa ricavarne”.
“Eccellente!
Vi nomino primo
ufficiale, dato che il posto è vacante! Vi va bene uno
stipendio di dieci
sterline al mese?” domandò Newgate.
Kizaru
era stupefatto: lui si
sarebbe accontentato anche di pulire i ponti pur di salpare di nuovo,
ed ecco
che si trovava imbarcato come secondo del capitano retribuito con una
somma
principesca.
“Per
ricoprire questo ruolo avrete
bisogno di distinguervi dalla ciurmaglia. Prendete!”
soggiunse estraendo da una
cassa una sciabola dall’impugnatura dorata e porgendogliela;
il danese strinse
l’elsa imbambolato, anche perché non aveva un
fodero dove infilare l’arma.
“A
proposito, abbiamo bisogno di
reclutare marinai. Potreste condurmi in qualche taverna come guida e
interprete?” domandò ancora Barbabianca.
Il
primo ufficiale, sentendosi già
in cielo, assentì.