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Autore: Rubra Bovina    29/03/2023    0 recensioni
Alcuni mesi dopo la sconfitta di Xana, i ragazzi ora vivono una vita normale, come tutti gli altri allenatori, si sono potuti dedicare alle loro squadre a tempo pieno e coltivare interessi diversi dal semplice dedicare le loro vite a salvare il mondo. Nemmeno l'arrivo nel prestigioso di due nuovi studenti sembra alterare questo equilibrio.
Tutto cambierà con l'incontro con un raro Pokémon, che spingerà il gruppo a ricercare una persona data scomparsa per anni.
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ash, Serena
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Anime
Capitoli:
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Ancora segreti 



Mentre Odd era uscito con Lucinda, Jeremy si era diretto verso l’ufficio della professoressa Hertz. Ormai aveva imparato a conoscerla. Sapeva che ogni sera si chiudeva nel suo ufficio per correggere i compiti.

Jeremy non era mai entrato lì dentro prima di allora. Non ne aveva mai mai avuto bisogno.

Bussò alla porta, attendendo che la professoressa gli desse il permesso per entrare. 

«Entra pure.»

La professoressa di sicuro non si aspettava che ad entrare fosse Jeremy. Pensava piuttosto che si trattasse di un qualche suo collega.

Jeremy osservò affascinato l’ufficio della professoressa. Più che un ufficio ricordava un laboratorio scientifico. Alambicchi, provette ricolme di sostanze chimiche, becker, numerosissimi strumenti di misura elettronici e non.

Era estremamente difficile farsi strada in quel laboratorio, anche perché il pavimento era ricolmo di libri e riviste scientifiche, anche di livello internazionale. 

La donna, non molto alta, piuttosto magra, fece una pausa dal suo lavoro. Si sistemò i capelli, ricci e grigi, poi passò al camice di laboratorio. Come se volesse perdere tempo.

«Cosa ci fai qui, Jeremy? Sai benissimo che questa zona è off limits per gli studenti. Qualche problema con la ricerca? Mi sembra che tu l’abbia consegnata e che abbia fatto un ottimo lavoro. Hai scelto un Pokémon davvero raro e hai fatto una scoperta incredibilmente interessante, non lo metto in dubbio, ma…

La donna fece una pausa di silenzio quasi interminabile. 

«Non mi spiego cosa tu ci faccia qui. Non dovresti esserci. Posso chiudere un occhio perché sei te, solo a patto che tu mi risponda.»

«Vede, mentre sistemavo la mia camera, ho trovato un libro scritto da un certo Franz Hopper. Ho scoperto che ha lavorato qui in questa scuola molti anni fa.» 

«Sì, è vero. Era un genio dell’informatica. E su quell’argomento ha pubblicato numerosi libri. Ma non capisco perché ti possa interessare. Si. Lavorava qui, e quando è scomparso l’ho sostituito. O meglio sono passata dal ruolo di assistente del laboratorio di chimica al ruolo di professoressa di scienze, sostituendolo. Al massimo avevamo bevuto qualche caffè assieme. Basta.»

Jeremy era dubbioso. Come faceva la professoressa a sapere tutte quelle cose? E soprattutto lei si interessava davvero degli argomenti che trattava il Professore?

«A parte questo non so molto su di lui e non ho motivo di farlo. E poi, ti ripeto. Sono passati più di dieci anni da allora. Nessuno ha avuto più sue notizie.»

«Grazie. Arrivederci.»

Jeremy se ne andò. Non aveva ottenuto quello che voleva, ma aveva notato un’incoerenza da parte della professoressa. Stando agli archivi scolastici il ruolo della professoressa, a quel tempo, era un altro.

Il ragazzo, volontariamente, non chiuse del tutto la porta, come se si aspettasse che la professoressa, una volta sola, confessasse, sentendosi più al sicuro. La sua intuizione non si rivelò errata. 

Pochi istanti dopo, la donna tirò un grosso sospiro di sollievo. Poco dopo prese il suo telefono e compose, molto rapidamente un numero. 

Il suo interlocutore rispose dopo alcuni squilli. 

«Susanne… cosa succede? Se chiami a quest’ora deve essere importante.»

«Si tratta di Belpois.» 

«E cosa ha combinato? Non ha preso il suo solito dieci ma un nove?»

L’uomo soffocò una risata. 

«No, Jean. È una cosa seria. Mi ha chiesto di Hopper.»

«Hopper? Capisco. Vediamoci subito. Nel mio ufficio.»

 Appena sentì la porta aprirsi, il ragazzo corse, come mai aveva fatto prima. Non voleva che la professoressa sospettasse di essere stata spiata.

Odd era tornato dal suo appuntamento, sicuro di non essere stato scoperto. E non riusciva a non pensarci. Pensava sia all’appuntamento sia alle parole di quella ragazza. Che cozzavano con quelle dell’amico. Doveva essere se stesso oppure doveva essere più serio?

Provò a studiare, un'attività che detestava, ma che lo avrebbe probabilmente aiutato a distrarsi. Per il giorno seguente aveva un’interrogazione di letteratura. 

Ironia della sorte, per il giorno dopo, doveva studiare a memoria una poesia il cui tema principale era proprio il blu. Blu come i capelli e gli occhi di quella ragazza. 

Lanciò il libro per terra, non preoccupandosi del fatto che il suo Lillipup lo stesse mordicchiando.

Il ragazzo si accorse di qualcosa che non andava. Sentiva dei passi pesanti. Riconoscibilissimi. Erano quelli di Jim. E si stavano chiaramente dirigendo nella sua stanza.

«Cosa vorra?»

Sperava che il professore non lo avesse sentito. O sarebbe stato un disastro.

Ormai quell’omaccione era giunto di fronte alla sua stanza e aveva aperto la porta. Il ragazzo stava tremando. Forse si era sbagliato ed era stato scoperto.

«Della Robbia. Lo sai benissimo che è vietato allontanarsi dal perimetro del collegio! È la prima regola. Non devi scordartelo. Per nessuna ragione al mondo.»

«No, signore, io non sono uscito. Sono sempre rimasto qui.»

«Si, certo, come no. Quando mai dici la verità! Perdipiù posso dirti che non eri solo. Con te c’era anche una ragazza.» 

Odd iniziava a tremare. Erano stati scoperti. E aveva anche un’idea su chi potrebbe aver fatto la spia.

«Sissi.»

Disse sottovoce.

«Non importa chi sia stato o stata a dirmelo. Oppure non vorrai farle passare il doppio della tua punizione.»

Il ragazzo fece cenno di no con la testa. 

Si era reso conto di come il professore avesse un gigantesco peso anche nelle contrattazioni. Lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per non far incriminare Lucinda.

«E allora faremo una visitina al preside.»

Il ragazzo aveva l’espressione di un condannato al patibolo, mentre si dirigeva, scortato dal professore fino all’ufficio del dirigente.

«Disturbo?»

«Jim, non ti hanno insegnato a bussare?» 

«Oh, chiedo scusa. Signore.»

Odd, dal poco che vedeva da dietro l’omaccione, aveva notato come in quell’ufficio il preside non fosse solo. Era sul finire di una discussione con la professoressa Hertz.

Il ragazzo aveva sentito solamente la parte finale della conversazione dove sembrava che i due si fossero accordati su qualcosa, anche se non gli era chiaro di preciso quali fossero i termini dell’accordo.

Il ragazzo aveva anche notato un grosso faldone sulla scrivania del preside. La carta era ingiallita dal tempo, per cui doveva essere piuttosto vecchia.

Prima che l’uomo potesse nasconderlo nel suo cassetto, il ragazzo notò la scritta sul foglio superiore di quel faldone. 

Waldo Schaeffer.

Il ragazzo si ricordò che quello era il vero nome del Professore. Gli sembrava molto strano che il preside potesse possedere del materiale riguardante il Professore. Avrebbe tenuto a mente l’informazione.

Si era anche ricordato dell’intenzione di Jeremy di parlare con la Hertz. Possibile che ci fosse una correlazione tra questo e il fascicolo in mano al preside.

«E così è stato beccato fuori dal perimetro dell’istituto?»

«Esattamente. Me lo ha detto Sissi. E mi ha anche detto che era in compagnia di una ragazza.»

Odd se lo aspettava. La figlia del preside non sopportava di non essere al centro dell’attenzione. E si era mostrata estremamente gelosa nei confronti di Serena prima e di Lucinda poi. Era plausibile che volesse incastrare una delle due e che avrebbe sfruttato la fama da dongiovanni di Odd per farlo.

«Sai benissimo che è vietato allontanarsi dal perimetro dell’istituto. Ma devo ammettere che sei stato coraggioso a venire qui senza fare storie. Immagino che tu tenga a quella ragazza. Sei stato responsabile. Per questo non ti sospenderò.» 

Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo.

«Te la caverai con una settimana di isolamento. Dovrai stare nella tua stanza da dopo pranzo a ora di cena, e da dopo cena all’inizio delle lezioni.»

Jim. Assicurati che non rifugga.»

Il professore fece un cenno di approvazione.

Sapeva che non sarebbe stato pagato di più per quel lavoro da carceriere, ma di sicuro non poteva rifiutarsi.

Quella sera i genitori di Yumi e Hiroki erano a una cena di lavoro, lasciando i due fratelli soli a casa. Non era una novità. Anzi, capitava spesso e volentieri.

Hiroki era diventato allenatore da poco e aveva con sé solo il suo primo Pokémon. Un Fennekin maschio chiamato Omar.

Proprio in quel momento gli stava riempiendo la ciotola con la sua cena. Delle crocchette specifiche per Pokémon di tipo fuoco. Il piccolo Pokémon iniziò a mangiare.

«Piano! Non ti ingozzare!»

Lo rimproverò il ragazzo. 

Il piccolo Pokémon smise di mangiare e si mise a correre a perdifiato. Il ragazzo cercò invano di ricoverarlo nella Pokéball. il giovane, nel tentativo di recuperarlo, finì addosso alla sorella maggiore, facendole perdere l’equilibrio.

«Che ti prende? Sei diventato matto? Potevo farmi male!»

Il giovana raggiunse rapidamente la sorella maggiore.

«Omar è scappato!»

«Il tuo Fennekin? Beh, in quel caso mi dispiace ma sono affari tuoi. Un allenatore deve essere responsabile dei suoi Pokémon. Per cui io non muoverò un dito.»

Hiroki conosceva benissimo sua sorella. E sapeva che non si sarebbe mossa dalla sua posizione. Per quanto ci provasse. sapeva di non avere scelta. Se avesse voluto ritrovare il suo Pokémon, si sarebbe dovuto sbrigare.

Quella sera faceva piuttosto freddo. Era da poco iniziato l’autunno. L’allenatore principiante dovette indossare una giacca. Avrebbe ridotto di molto il rischio di prendersi un brutto raffreddore. O, forse, le cose sarebbero potute andare peggio.

Poteva ritenersi fortunato. Il loro quartiere era piuttosto tranquillo e ben illuminato. Nonostante non fosse molto tardi, era difficile trovare gente in giro. Anche per il giovane era strano aggirarsi per quel quartiere a quell’ora. E, nonostante potesse dire di conoscere la zona palmo a palmo, doveva ammettere che al buio la stessa aveva un aspetto totalmente diverso.

Concentrandosi era perfettamente in grado di udire i latrati del suo Pokémon.

Si mosse lentamente, per coglierlo di sorpresa. Temeva che se la fosse presa per quello che era successo qualche minuto prima. A un certo punto gli parve di vederlo. La voluminosa coda del piccolo Pokémon era perfettamente visibile da dietro un lampione. Il ragazzo si avvicinò a piccoli passi. Infilò la mano nella tasca e si accorse che mancava qualcosa.

«Diavolo! È sparita!»

Il piccolo Pokémon, sentendolo si mise a correre, andando chissà dove. Il ragazzo si mise a correre a sua volta. Durante la sua corsa incrociò lo sguardo con un uomo. Piuttosto alto e vestito con un impermeabile nero.

Sembrava essere interessato a una villa abbandonata poco lontana. Il ragazzo aveva visto quella villa diverse volte ma non aveva mai avuto il coraggio di entrarci. Aveva troppa paura.

Il ragazzo sentì i latrati del suo Pokémon proprio nel giardino di quella villa. Pochi istanti dopo, questi ultimi vennero coperti da degli ululati. Il ragazzo non li aveva mai sentiti in vita sua. Il ragazzo tremò come una foglia.

Ma se voleva recuperare il suo Pokémon, doveva farsi coraggio ed entrare nel giardino di quella villa. Appena entrato, si accorse di essere solo. Quell’uomo era scomparso. Per cui non correva pericoli. 

Tuttavia era preoccupato. Anche i latrati del suo Pokémon erano cessati. E quello non era affatto un buon segno.

Dopo alcuni passi, i suoi timori si erano avverati. Il suo Pokémon era riverso al suolo. E tremava. Era ferito. 

Il giovane prese in braccio il suo Pokémon, con quest'ultimo che non oppose alcuna resistenza.

Mentre il ragazzino si precipitava a riprendere il suo Pokémon, l’uomo era corso verso il suo pick-up, e salì a bordo, seguito a ruota dai suoi Houndoom.

«La prossima volta evitate di mettermi in questa situazione.»

Gli sgridò.

I suoi Pokémon emisero un guaito sommesso, facendo intendere al loro padrone che avevano capito le sue parole. L’espressione dell’uomo mutò. Diventando, per un momento meno malefica.

L’uomo aveva pesantemente modificato l’abitacolo di quel mezzo. Aveva ricavato un grosso portaoggetti sotto il cuscino del sedile del passeggero.

Voleva verificare i suoi sospetti. Quel ragazzino che aveva visto di sfuggita gli era apparso familiare.

Prese il suo computer portatile e fece una breve ricerca. I suoi dubbi divennero presto certezze.

Quel ragazzino era Hiroki Ishiyama. Il fratello minore di Yumi Ishiyama, una dei suoi osservati speciali. Aveva anche paura di essere stato riconosciuto. Dopotutto un uomo vestito di nero, con due Houndoom, non passa di sicuro inosservato.

Il ragazzo si precipitò a casa. La sorella lo aspettava proprio all’ingresso. 

Appena giunto a casa, lo sguardo della ragazza si posò prima sul Pokémon, poi sul fratello. 

«Cosa gli è successo? Portalo subito al centro medico!»

Nelle parole della ragazza la preoccupazione aveva preso il posto della rabbia. 

«Penso sia scappato per come l’ho rimproverato, gli ho detto di non ingozzarsi.»

Il ragazzino non aveva ancora smesso di tremare.

«Poi, come sai, è scappato. Ho cercato di inseguirlo, fino a una villa abbandonata qui vicino. Poi è entrato un uomo vestito di nero che poi è scappato, sono entrato e lo ho trovato ferito lì.»

«Adesso datti una calmata, e occupati di lui. Poi mi spieghi tutto con calma.»

«Ma io ho paura. Ho paura che quell’uomo possa tornare.»

«Se chiedessi a uno dei mei di farti da scorta…»

Il ragazzino non rispose. Come se sua sorella dovesse capire da sé la risposta. Questa, per tutta risposta, prese, dalla borsa che teneva nell’uomo morto, una delle sue Pokéball.

La ragazza ne fece scattare il meccanismo di apertura, e, dalla stessa uscì un fascio di luce bianca, che ben presto si trasformò in un Greninja.

«Te lo affido. In giro c’è un tipo pericoloso.»

Il Pokémon ninja fece un cenno di approvazione. Per la sua allenatrice avrebbe fatto qualsiasi cosa. Il loro legame era molto stretto. Il ragazzino, sentendosi al sicuro dalla presenza del Pokémon della sorella, si diresse verso il centro. Non era molto lontano, ma tremava comunque di paura.

Appena Hiroki si allontanò a sufficienza, Yumi prese il telefono, per mettersi in contatto con il suo ragazzo.

«Hiroki ne ha combinata una delle sue e uno dei suoi Pokémon è stato ferito.»

«E?»

«Ha detto di aver visto un tipo strano all’Hermitage. O meglio ha parlato di una villa abbandonata qui vicino, e da che ne sappiamo è la sola ad esserci»

Il ragazzo chiuse la telefonata senza salutare. Pensava di potersi riposare, ma si sbagliava. Si affrettò a indossare le scarpe e a vestirsi. 

«Dove vai?»

Gli chiese il compagno di stanza, con aria perplessa. Lo aveva sentito mentre rispondeva a una telefonata e ora si stava preparando per uscire, veloce come un fulmine.

«Si tratta di Yumi. È importante.»

«E mi lasci qui da solo?»

«Prossima volta stai più attento e ne riparliamo. E io che pensavo che fossi diventato più serio.»

Intanto il ragazzo si era sporto dalla stanza e aveva buttato uno sguardo tanto a destra quanto a sinistra. Non trovando nessuno.

«Via libera.»

Il ragazzo si mosse in punta di piedi. Stava andando nella direzione opposta rispetto a quella dei bagni, per cui non poteva usarlo come scusa. Per sua fortuna tutto andò per il meglio e non venne scoperto. O altro che la settimana presa dall’amico!

In breve tempo le sagome scure e imponenti del collegio erano alle sue spalle e si era addentrato nella zona residenziale del quartiere. Proprio a casa della sua ragazza.

Il ragazzo suonò il citofono e, in pochi istanti la sagoma della ragazza, alta e magra, apparve davanti a lui. Il ragazzo si stava togliendo le scarpe, sebbene la famiglia di Yumi vivesse lì da anni, aveva ancora mantenuto tutte le tradizioni.

«Eccomi, scusa se ci ho messo tanto, ma avevo paura di essere beccato da Jim.»

«Pensa se non avessi fatto in ritardo!»

Commentò la ragazza, in tono ironico, per poi tornare seria subito dopo.

«Ora Hiroki sta portando il suo Fennekin al centro medico. Dovrebbe tornare tra poco. Era molto spaventato e mi ha detto solo quello che poi ti ho detto al telefono. Un tipo vestito di nero che girava per l’Hermitage e crede che sia stato lui o uno dei suoi PK a ferirlo.

«Capisco. Probabilmente anche lui indagava su Hopper o cercava Aelita.»

«E lo dici così? Come se fosse la cosa più normale del mondo? Sai bene che se abbiamo anche solo il minimo dubbio, dobbiamo controllare. Avvisiamo subito gli altri.»

 I due si misero rapidamente in contatto con Jeremy e Aelita. 

I due stavano dormendo tranquillamente fino a quel momento. Avevano messo i loro telefoni con la vibrazione, per evitare di svegliare i rispettivi compagni di stanza.

Nonostante questo non ci volle molto prima che entrambi fossero pronti. Avevano fatto tutto nel silenzio più totale e apparentemente erano stati in grado di farlo senza svegliarli.

Hiroki arrivò a casa poco prima dell’arrivo di Jeremy e Aelita all’Hermitage. Scortato, come all’andata dal Greninja della sorella.

Notò immediatamente la presenza di Ulrich.

«E lui cosa ci fa qui?»

«Non ti importa. Piuttosto, come sta?»

La ragazza aveva notato come il ragazzo fosse tornato con il suo Pokémon in braccio, avvolto in una coperta. 

«L’infermiera mi ha detto che le sue ferite erano meno gravi del previsto. Le ha pulite e disinfettate. Mi ha dato una medicina da dargli due volte al giorno per una settimana.»

«Bene, noi andiamo, tu resta a casa a occuparti di lui.»

Il tono della sorella non ammetteva repliche di alcun tipo. 

In cinque minuti erano tutti e quattro nel giardino dell’Hermitage. Il giardino era male illuminato. Il lampione più vicino era mezzo fulminato, per cui, se volevano vederci chiaro, dovevano usare delle torce.

Sembrava tutto normale, e che quindi Hiroki si fosse sbagliato, quando Aelita notò qualcosa che non andava.

«Guardate quì!»

La ragazza si era inginocchiata nei pressi della porta del garage. 

«L’erba è bruciacchiata. Deve esserci stata una lotta o qualcosa di simile. Hiroki aveva ragione. Probabilmente il suo Fennekin ha cercato di difendersi da dei Pokémon molto più grossi di lui.»

Ulrich non era ancora molto convinto. Per quanto non conoscesse molto il Pokémon del ragazzo, non gli sembrava un attaccabrighe.

«Da soli? E perché mai avrebbero dovuto attaccare?»

«E se non fossero stati soli? Voglio dire, se il loro allenatore gli avesse ordinato di attaccare?»

Mentre Jeremy esponeva la sua tesi, stava illuminando il muro del garage. Era parzialmente ricoperto da muffa. Uno dei tanti segni dell’incuria in cui versava quella villa.

«Qui qualcuno l’ha scrostata. Probabilmente con degli scarponi. Due indizi fanno una prova. Hiroki aveva ragione. Dobbiamo evitare che scoprano il nostro segreto.»

Dopo aver continuato l’ispezione dell’esterno della villa, il gruppo si separò. Ulrich, Jeremy e Aelita tornano al Kadic, Yumi a casa sua.

Se avessero fatto in silenzio, non sarebbero stati scoperti, altrimenti sarebbero stati nei guai. Mancavano appena due ore alla sveglia. 

Mentre i tre cercavano di tornare nelle rispettive stanze, in un anonimo ufficio di Washington DC, la capitale degli Stati Uniti, era mezzanotte e mezzo. 

Quell’ufficio si trovava in un anonimo edificio, un palazzone in ferro e vetro, come tanti. Il luogo migliore dove lavorare inosservati anche ai progetti più importanti.

Era seduta sulla sua poltrona da ufficio, una grossa poltrona in pelle scura, mentre beveva l’ennesimo caffè. Il primo da quando era scattata la mezzanotte.

La donna buttò un occhio sui numerosi orologi che occupavano una delle pareti del suo ufficio. Ognuno indicava l’ora secondo un diverso fuso orario. 

Istintivamente si concentrò sull’orario di Parigi. L’orologio segnava le cinque e mezza del mattino. 

Per quella donna non era una novità lavorare sino a tardi, ma mai fino a così tardi. Non si sarebbe mai trattenuta fino a quell’ora, senza un valido motivo. E quella notte aveva un validissimo motivo. Un suo agente l’aveva informata su un grosso affare e le aveva promesso che, entro qualche ora avrebbe ricevuto ulteriori informazioni.

Per questo, si buttò sul telefono, non appena udì il primo squillo. 

«Signora. Ho una telefonata per lei.»

Per un istante la donna dovette dissimulare la sorpresa. Non si aspettava di sentire la voce della sua segretaria. 

«Me la passi.»

Mentre la segretaria commutava la telefonata, la donna attivò un dispositivo che proteggeva la telefonata dalle intercettazioni. Non poteva rischiare in alcun modo che qualcuno potesse sapere di quella telefonata.

La segretaria, intanto aveva commutato la telefonata.

«Signora?»

«Agente Lycanroc?»

La donna, finalmente sentì la voce che si aspettava. Una voce di un uomo. Del suo agente. Quello che l’aveva informata alcune ore prima.

«Signora. Le posso confermare che i nostri sospetti si sono rivelati reali. Quelli del reparto informatico ci hanno passato tutti i dati di cui avevamo bisogno.»

«Sai benissimo che il loro operato non è propriamente legale. Non possiamo basarci solo su di loro. A meno che non sia qualcosa di veramente importante.v

«Signora…»

«Vada avanti. Nessuno ci può intercettare, stiamo usando il massimo della tecnologia in fatto di protezione.»

«Come vuole. In questi giorni ci sono state moltissime ricerche, provenienti tutte dallo stesso posto. Riguardavano tutte il signor Franz Hopper, o Waldo Schaeffer, che dir si voglia.»

«Ancora lui?»

«Si Dido… ehm… Signora.»

«Sai che sono passati più di dieci anni da allora.»

La donna, nonostante fossero passati così tanti anni, la donna si ricordava benissimo di quel caso. Come se fossero passati dieci giorni, e non oltre dieci anni.»

«Signora. Devo dire un’ultima cosa.»

«Non tenermi sulle spine. Sai benissimo che questa è una situazione molto delicata. Ogni informazione in più è fondamentale.»

«Le ricerche provengono tutte dal collegio Kadic.»

La donna sbattè un pugno sul tavolo. Così forte da far saltare tutti gli oggetti sulla scrivania. Computer, portapenne, tastiera, la tazza di caffè che aveva appena finito di bere.

«La ringrazio. Sai benissimo come procedere. Intercetta tutte le comunicazioni del collegio. Ogni singola ricerca, messaggio, file scaricato…»

E fai lo stesso per le ricerche negli ultimi mesi prima delle vacanze estive.»

Mettimi a disposizione tutti i tuoi uomini. Dobbiamo essere pronti a tutto. Con un affare così grosso non ci possiamo permettere passi falsi. Lo abbiamo già fatto.»

«Agli ordini.»

«Potrebbe trattarsi di qualcuno che ha semplicemente sistemato gli archivi dell’istituto, e, incuriosito da quel nome, ha svolto delle ricerche, ma dobbiamo essere pronti a tutto.»

«Agli ordini.»

Dido riattaccò senza salutare. Per lei non era una semplice coincidenza. La storia della persona che si occupava degli archivi l’aveva usata per tentare di autoconvincersi. Senza successo.

Qualche ora dopo, Jeremy, Aelita, Yumi e Ulrich erano alle macchinette. Odd era ancora sotto scorta di Jim. Il professore aveva preso il suo lavoro fin troppo sul serio.

Stavano approfittando della ricreazione per chiacchierare sugli ultimi sviluppi sull’Hermitage.

«Non abbiamo scelta.»

Esordì il biondo.

«Dobbiamo metterlo sotto sorveglianza. Non possiamo rischiare che quell’uomo ritorni. Soprattutto se non sappiamo che intenzioni ha.v

«Dovremo fare i turni di guardia?»

«No, Ulrich, non servirà. Prima di coricarmi ho parlato con Yumi.»

«Esatto.»

Confermò la giapponese.

«Tra qualche ora, a casa dovrebbe arrivare tutto. Ho detto ai miei che sarebbe arrivato un pacco per un amico.»

«Interessante, di che si tratta?»

«Mi sembra ovvio!v

Lo riprese Jeremy.

«Telecamere a circuito chiuso, sensori di movimento, microfoni, insomma quelle cose lì.»

«E dopo che lo incastriamo? Non possiamo di certo mandare i filmati alla polizia! Ci farebbero tante di quelle domande…»

«Non ti preoccupare, di quello ce ne occuperemo dopo.»

Lo rassicurò Aelita. 

«Ad ogni modo è meglio che vada. Tra due minuti iniziano le lezioni.»

«A dopo!»

Yumi si separò dai suoi amici. Aveva un anno in più dei suoi amici, e questo aveva causato non pochi problemi quando 

lottavano contro Xana.

Quella lezione della professoressa Hertz fu atipica. Solitamente la donna usava il libro il minimo indispensabile, preferiva spiegare da sé le lezioni. 

Ma non quella volta. Altra anomalia riguardava il fatto che, in quella lezione, la professoressa si fosse concentrata su Nicholas. La professoressa era molto abitudinaria, e solitamente non usciva mai dal triangolo Jeremy-Aelita-Hervé. Tutti si erano accorti del suo strano comportamento, ma nessuno osò dire nulla. 

Perché, anche se lo avessero fatto, non sarebbe cambiato nulla. Dopotutto lei era la professoressa, per cui poteva fare quello che voleva.

Inoltre, la professoressa se ne andò senza salutare, non appena suonò la campanella.

La donna corse nel suo ufficio. 

Quella situazione non poteva andare a lungo per molto. Tutti i suoi alunni si erano accorti che qualcosa non andava, ma lei ci poteva fare poco. Non pensava ad altro sennonché a quell’incontro con Jeremy di qualche tempo prima.

Sapeva che il dossier del Professore era al sicuro, nel cassetto del signor Delmas, ma sapeva anche che quel ragazzo lo avrebbe ottenuto, a qualsiasi costo, senza preoccuparsi delle conseguenze.

A oltre mille chilometri dalla capitale francese, Primula era appena uscita dall’albergo. Si trovava a Berlino per chiudere gli ultimi accordi con uno sponsor. Il reparto marketing di quell’azienda era piuttosto lontano da lì. Avrebbe chiamato un taxi, ma sembrava che fossero tutti occupati.

A un certo punto si fermò, proprio davanti a lei, un taxi. Una grossa berlina della Mercedes. L’uomo alla guida, riconoscendola, accostò.

«Tu sei Primula? La famosa fantina di Rhyhorn?» 

«In persona! Lei è libero?»

«Oh, ma certo, ma prima, potrebbe farmi un autografo?»

L’uomo uscì dal taxi. Lasciando il motore acceso. Aveva in mano una foto della donna, mentre teneva in mano una coppa d’oro, una delle sue numerosissime vittorie. Le diede anche un pennarello indelebile nero. La donna posò la foto sul cofano della macchina.

«Come si chiama?»

La donna si girò di scatto, dopo che, per diversi secondi, non ricevette alcuna risposta. Non sapeva come, ma la donna si trovava con il volto premuto contro il lunotto del taxi.

«AIUTO!»

La donna cercò di chiedere aiuto, invano.

Sentendola, l’uomo le assestò un colpo sulla testa, facendole perdere i sensi. Non voleva arrivare a tanto, ma non aveva altra scelta. Non poteva rischiare di essere scoperto.

L’uomo prese dal portaoggetti del suo taxi, un dispositivo simile a un guanto di pelle. Sulla parte superiore di questo vi era un piccolo schermo a cristalli liquidi, un piccolo interruttore e dei cavi.

Sulla punta delle dita si trovavano dei piccoli elettrodi.

Da un altro portaoggetti prese un dispositivo simile a una scheda di memoria. Si comportava come se non avesse una donna svenuta appoggiata al cofano del suo taxi. 

Inserì la scheda nel guanto e tornò dalla donna. Ancora priva di sensi, ancora appoggiata sul cofano del taxi. 

L’uomo si guardò attorno. Alcune persone si erano avvicinate, incuriosite dalla situazione. In particolare un uomo della sicurezza dell’albergo. Un omaccione alto quasi due metri. 

«Stai fermo e non ti farò nulla.»

Il finto tassista prese una pistola dalla cintura, e la puntò contro quell’uomo. Per lui maneggiare un’arma non era una novità. Anzi. Si sentiva particolarmente a suo agio con questa.

«Stai fermo o sparo.»

L’addetto alla sicurezza non sapeva cosa fare. Doveva credere alle minacce di quell’uomo e lasciarlo fare o doveva tentare di disarmarlo?

In ogni caso, prima ancora che potesse decidere come agire, si ritrovò a terra. Colpito dal Neropulsar dell’ Hydreigon di  quel finto tassista. 

L’uomo era abituato a gestire situazioni del genere. Era perfettamente addestrato per situazioni del genere. Solo che quell'imprevisto gli era costato tempo. Ed era consapevole che, ben presto, sarebbero arrivate altre persone.

L’uomo finalmente poté indossare il guanto e dedicarsi al suo lavoro, non prima di aver premuto il piccolo interruttore che permetteva di attivare il dispositivo posizionato sul guanto.

L’uomo si avvicinò alla donna e le sfiorò le tempie con le dita. 

Un led verde e la scritta “inizio trasferimento” confermò che  tutto stava andando secondo previsioni. 

Nello stesso momento, a oltre mille chilometri di distanza, in una palazzina abbandonata, a poca distanza dal collegio Kadic, le apparecchiature del suo collega si misero in funzione. Risvegliate dal sonno dello standby. 

Una bambina dai grandi occhi blu e dai capelli color miele che dava da mangiare a un Rhyhorn, poi la stessa bambina, un pochino più grande, che cavalca lo stesso Rhyhorn, con una tutina rosa, come il casco. Poi le immagini iniziarono a scorrere sempre più rapidamente. Fino a diventare impossibili da decifrare.

«Serena?»

Jim fece irruzione in classe senza nemmeno bussare.

«Jim? Ti sembra questo il modo di entrare?»

«Chiedo scusa Chardin, ma è urgente. Devo accompagnare Serena dal signor Delmas.»

Gli sguardi di tutta la classe si posarono sulla performer. Tutti, sottovoce, si chiesero cosa aveva combinato quella ragazza, all’apparenza così innocente.

La performer, consapevole di non aver fatto niente di sbagliato, seguì il professore senza fare domande. Era chiaro che fosse qualcosa di serio, dato che l’espressione di quest’ultimo era molto tesa.

Arrivati di fronte all’ufficio del signor Delmas, il professore fece cenno alla ragazza di accomodarsi all’interno. La porta dell’ufficio era aperta, come se si aspettasse che qualcuno dovesse fargli visita.

La ragazza, ora meno sicura di sé, entrò nell’ufficio a piccoli passi. La stanza era enorme. E, per certi versi ricordava lo studio di un presidente, piuttosto che quello di un preside.

Una gigantesca scrivania di legno pregiato, un tappeto costosissimo, quadri d’autore e piante. Sulla scrivania un costosissimo computer e un portapenne ricolmo di penne stilografiche altrettanto costose.

La ragazza salutò l’uomo molto timidamente.

«Buongiorno signor preside.»

«Buongiorno a te. Non devi avere paura di me. Non in questo caso. Non hai fatto nulla di sbagliato.»

La ragazza tirò un sospiro di sollievo. Ora che sapeva di non aver fatto nulla di sbagliato, si sentiva molto meglio, solo che ancora non aveva idea del motivo per cui si trovava lì. E questo non la metteva a suo agio.

«Ho ricevuto una telefonata dalla Germania. Da Berlino per essere precisi.»

La ragazza scattò come una molla. Si era sentita con sua madre la sera prima, e lei si trovava proprio in quella città. Ergo le era successo qualcosa.

«Tua madre è stata aggredita da uno strano tipo. Proprio in quella città. Per fortuna sembra che non sia nulla di grave, dall’ospedale dicono che è solo un po’ confusa. Se vuoi possiamo accompagnarti da lei.»

La ragazza rimase in silenzio per alcuni istanti. Non ci voleva credere. Davvero le stavano dando quella possibilità? 

«La ringrazio. Accetto. Ma sa, sono comunque preoccupata per lei… Ash può venire con me?»

«Se questo può farti stare meglio, posso fare uno strappo alla regola.»

Un quarto d’ora dopo Serena, Ash e il suo inseparabile Pikachu si trovavano fuori dal palazzo amministrativo. In attesa di partire. Pochi istanti dopo, davanti ai loro occhi, si fermò una berlina gigantesca. Blu scuro. 

Ash era ipnotizzato da quell’auto che, ai suoi occhi, sembrava fosse uscita da un film di fantascienza o da qualche videogioco. Cofano lunghissimo, fari stondati e al contempo di forma romboidale, incorniciati da dei profili cromati, incastonati nei parafanghi bombati. Cromata era anche la calandra la cui forma ricordava uno scudo, che impreziosiva il cofano e ne accentuava la forma triangolare e metteva in risalto come lo stesso fosse rialzato, creando un effetto simile a quello di molte auto d’epoca. 

Essa si raccordava perfettamente con il paraurti, dipinto nella stessa colorazione della carrozzeria e impreziosito da dei profili cromati che partivano dal punto in cui lo stesso si raccordava alla carrozzeria e che impreziosivano le fiancate dell’auto.

Serena era invece più razionale del suo ragazzo. Quell’auto la conosceva bene. Era una Lancia Thesis. Non che lei se ne intendesse molto, ma le era rimasta impressa in quanto, nella versione allungata, era l’auto di Paloma, una produttrice e manager che le aveva proposto di stare sotto la sua ala protettrice.

Altra sostanziale differenza tra l’auto della manager e quella dell’istituto era il colore della pelle degli interni. Crema nel primo caso, rosso nel secondo.

Lei aveva rifiutato la sua proposta, e da allora quell’auto le dava sentimenti contrastanti. 

Alla guida dell'enorme berlina un volto noto. Jim Morales. Seduta sul sedile del passeggero la professoressa Hertz. Probabilmente i due insegnanti si sarebbero dati il cambio diverse volte, negli oltre mille chilometri di viaggio.

Ash aprì la porta alla ragazza, e aspettò che la stessa si sedesse. 

Pikachu si accomodò sulle gambe della ragazza, cercando, come del resto anche il suo allenatore, di rassicurarla e di farla sentire il più possibile a suo agio.

Il professore girò la chiave. Il rombo del V6 era appena udibile lì dentro. Isolato da chili e chili di isolamento acustico.

Dopo pochi metri l’auto si fermò. In maniera molto brusca. Ash, che non aveva fatto in tempo ad allacciare la cintura, rischiò di spiaccicarsi contro il sedile.

Evidentemente l’uomo non era abituato a guidare le auto con il cambio automatico.

«Jim, ma non avevi detto che in passato hai lavorato come autista di limousine?»

«Si, pensa che una volta ho anche avuto l’onore di servire il primo ministro.»

«Non mi dire! E come è andata?»

«Preferirei non parlarne.»

Questo piccolo siparietto, sia pure per un attimo, strappò un sorriso alla ragazza. 

Intanto il professore era ripartito, non prima di aver impostato il navigatore satellitare. Direzione Berlino. Il viaggio sarebbe stato piuttosto lungo. Oltre mille chilometri e mezza giornata di viaggio, attraverso Francia, Belgio e Germania.

Per fortuna quell’ammiraglia era comodissima. Le prime sei ore di viaggio, intervallate solamente da alcune soste per bisogni fisiologici e per il cambio autista, passarono in un battito di ciglia. 

Mentre i quattro erano fermi in un ristorante a metà strada, Sissi si era diretta all'ufficio di suo padre. Alquanto alterata.

Entrò senza bussare. Per fortuna l’ufficio era vuoto.

«Cosa ci fai qui?» 

La ragazza si sedette sulla scrivania.

«Quella Serena. È arrivata da due giorni e la tratti come una regina.» 

«La tratto come tutte le studentesse. Su, ora vai, o ti dovrò mettere in punizione.»

«Si, come no! E allora perché non mi accompagni mai a fare shopping con l’ammiraglia? E a lei si? E perdipiù è andata con il suo ragazzo? E la prossima volta cosa le fai?»

«Non so chi ti ha detto che stia andando a fare shopping. E se anche fosse stata accompagnata dal ragazzo? La cosa non ti riguarda.»

«E allora dove è andata? Sentiamo!»

«Se proprio ti interessa davvero, a quest’ora dovrebbe essere in Germania.»

«Ah, si? Davvero? E cosa ci fa lì?»

«Sua madre è stata aggredita. Ed è stata ricoverata in ospedale. Per questo le ho concesso di andare a trovarla. E ora, mi sa che è meglio che torni a studiare. Non pensare che questa volta la passerai liscia perché sei mia figlia.»

Dopo aver mangiato e fatto il secondo pieno all’ammiraglia, partirono per la seconda parte del viaggio, altre sei ore, che come le precedenti, trascorsero davvero rapidamente e dopo il terzo pieno giornaliero, arrivarono ai a Berlino.

Era praticamente ora di cena. 

Serena sarebbe andata a trovare la madre solo il giorno seguente, dato che gli orari di visita dell’ospedale prevedevano che non si potessero fare visite oltre le otto di sera.

Il giorno seguente i quattro giunsero all’ospedale centrale.

Un edificio enorme e modernissimo. Circondato da un gigantesco parcheggio sorvegliato. Contrariamente a molti altri ospedali non c’era del personale all’esterno intento a fumare o a far altro.

I quattro entrarono nella portineria dell’ospedale. A occupare il piccolo ufficio una donna di circa sessant’anni. Probabilmente erano i suoi ultimi giorni di lavoro prima della pensione.

«Cosa volete?»

Chiese, in tono scocciato. Probabilmente era stata interrotta durante la sua partita a solitario sul computer.

«Mia madre.»

Esordì Serena.

«Dovrebbero averla ricoverata qui.»

«Figliola, come si chiama tua madre? Così posso aiutarti.»

«Primula.»

«La famosa fantina? Ho sentito che ha una figlia performer e coordinatrice, ma non credevo che fossi te. Non vi assomigliate per niente. Lei ha i capelli castano scuro, te sei biond… se fossi venuta con tuo padre, suo marito, forse…

«Senta… non mi interessa di quello che pensa. E non sono di sicuro tenuta a venire accompagnata da una persona che non voglio nemmeno vedere. Che ci ha abbandonate quando avevo quattro anni. 

E poi se fossi venuta con i capelli tinti castani non mi avrebbe detto niente? Mi faccia capire. Perché nel caso proprio qui dietro c’è un parrucchiere, nel caso, torno tra un paio d’ore e forse così sarò più di suo gradimento.

La ragazza stava iniziando a perdere la calma. Prima che potesse farlo del tutto, sentì una mano sulla spalla. Quella della professoressa Hertz. 

«Capisco come tu ti senta. E davvero, mi dispiace per la tua situazione. Però lascia fare a me. Ci penso io.»

La ragazza fece alcuni passi indietro, per permettere alla professoressa di accomodarsi di fronte a quella donna.

«Mi scusi. Sono la professoressa che è loro responsabile.»

«E?»

Giunta di fronte al piccolo ufficio, la professoressa estrasse un distintivo dalla borsa, per poi mostrarlo alla donna. Era un distintivo dell’esercito americano. Generale Steinback. 

«Oh, mi scusi.»

La donna voleva evitare che una semplice visita si trasformasse in un caso diplomatico, non a pochi giorni dalla pensione. Non poteva dire di no a un generale dell’esercito americano.

«Dodicesimo piano. Stanza 8.»

Tutti i presenti guardarono la professoressa con aria sconvolta. Senza dire una parola, ma solo mostrando quel distintivo, la donna aveva ottenuto quel che voleva. 

Dopo pochi minuti, i quattro giunsero al dodicesimo piano. Proprio davanti alla stanza numero 8.

«Forse è meglio che tu vada da sola. Dopotutto è tua madre.»

La incoraggiò la professoressa. Jim, intanto, si era defilato. Si era diretto verso i distributori automatici. Aveva pensato che offrire qualcosa, sarebbe stata una cosa carina.

La ragazza intanto era entrata nella stanza. In quel momento la donna era sola.

«Ciao, mamma. Mi hanno detto quello che ti è successo e ho fatto il prima possibile…»

«Come? Non sei ancora pronta? Tra un paio d’ore dobbiamo partire e tu non sei pronta?»

«Partire?»

«Mi hanno offerto un posto in Giappone. Staremo lì per qualche tempo. Così potremo anche andare a trovare Aelita.»

«Aelita?»

«Forse non ti ricordi di lei, eri piccola, ma spesso lei ti faceva da babysitter. Mi ricordo che la chiamavi sorellona. Magari se te la descrivo, te la ricordi. Hai i capelli rosa e gli occhi verdi e…»

«Aelita?»

Serena, per alcuni istanti, rimase pietrificata. Si, conosceva una ragazza chiamata Aelita che corrispondeva a quella descrizione, ma quest’ultima aveva suppergiù la sua età. Non aveva in mente nessun’altra ragazza chiamata così.

«Si, la figlia del signor Hopper. Franz, mi pare si chiamasse. Ma forse, quando la incontrerai di nuovo, ti ricorderai di lei. Ora però sbrigati. Suzanne arriverà tra non molto.»

La ragazza uscì dalla stanza senza dire una parola. Senza salutare. Era sconvolta. 

«Tutto bene?»

Il tono di Ash lasciava trasparire tutta la sua preoccupazione. A Xana quelle cose non interessavano. Per cui decise di lasciarlo fare.

«No. Per niente. Mi ha parlato del fatto che avremmo dovuto fare un viaggio in Giappone. Per un suo lavoro. Non ho ben capito. Mi ha parlato di una ragazza chiamata Aelita che…»

«Beh, effettivamente tu sei stata in Giappone. Dal professor Oak. E lì mi hai detto che ci eravamo incontrati per la prima volta e…»

«Si, ma sono passati otto anni da allora, Ash. Otto anni! E da quando siamo tornate in Francia non ci abbiamo più messo piede. Ti rendi conto di cosa voglia dire?»

«Che tua madre è come se fosse tornata a otto anni fa.»

«Ti rendi conto di quanto sia grave? Potrebbe non tornare più in sé. Ho davvero paura. Ash.»

Il ragazzo, d'istinto, la abbracciò. Forte come mai aveva fatto prima. Pikachu salì sulla spalla della ragazza.

«Grazie.»

La ragazza non seppe dire altro.

Pochi istanti dopo, una giovane infermiera fece per entrare nella stanza.

«Ah, tu sei la figlia di Primula, giusto?»

Senza aspettare la risposta della ragazza, la giovane donna porse alla ragazza una sorta di piccola scheda di memoria. Realizzata quasi completamente in plastica nera.  

L'infermiera, abbassò notevolmente il tono di voce.

«Secondo alcuni testimoni oculari l’avrebbe persa l’uomo che l’ha aggredita. Secondo la polizia, invece, l'ha persa lei e non hanno voluto indagare.

Io non credo alla versione della polizia, ma non ho guardato cosa c’è dentro. Nemmeno loro l’hanno fatto.»

La ragazza non rispose. Si limitò a mettere la scheda nella borsa.

Xana, da dentro il corpo di Ash fremeva dalla voglia di vedere quella scheda. Poteva essere una perdita di tempo, ma, in caso contrario, sarebbe potuta essere una miniera d’oro.

Mentre i quattro stavano rientrando in Francia, Jeremy e gli altri si stavano occupando dell’impianto di videosorveglianza all’Hermitage.

Se qualcuno si aggirava per la villa, era necessario sapere di chi si trattasse e che cosa volesse. 

Il biondo stava sistemando gli ultimi dettagli. In particolare si stava occupando della telecamera che dava sul portoncino d’ingresso. Gli altri si stavano occupando di altre telecamere. Una volta concluso il lavoro, la villa sarebbe stata perfettamente coperta. 

Una volta finito il suo lavoro, il ragazzo scese lentamente la scala e si tolse con una mano il sudore dalla fronte. Non era abituato a fare lavori del genere.

Poco dopo anche Ulrich e Yumi terminarono il loro lavoro. Odd, che era con loro approfittando dell’assenza di Jim, invece ebbe alcuni problemi nell’installare la sua telecamera.

«Ehi! Geniaccio! Non funzionerà mai se cerchi di avvitare una vite a taglio con un cacciavite a stella!»

Lo riprese Ulrich.

«Dici? Non l'avevo notato. Comunque sia passami quel cacciavite che dici tu.»

Il ragazzo, in precario equilibrio su di una sedia, rischiò di perdere l’equilibrio e di cadere di schiena. Riuscendo a evitare la catastrofe con un balzo felino. 

L’amico lo sostituì nell’operazione. Finendo di sistemare l’ultima telecamera. Operazione che completò in pochi istanti.

«Einstein, sei sicuro che funzionino? Non è che abbiamo perso tempo… sai, avrei potuto avere un secondo appuntamento con Lucinda, e invece mi ritrovo qui a montare telecamere.»

«Oh, certo che funzionano. Sono in meglio che si può avere. Sono dotate di visione ad infrarossi, sensori di movimento tridimensionali, microfono direzionale e trasmettono il segnale al mio computer tramite una speciale codifica.»

«Einstein, di tutto quello che hai detto, avrò capito al massimo tre parole.»

Il ragazzo non rispose, limitandosi a sorridere.

Alcune ore dopo, mentre Jeremy terminava gli ultimi collaudi sul sistema di videosorveglianza, Aelita stava leggendo un libro che aveva trovato all’Hermitage. Si ricordava che suo padre lo aveva comprato quando avevano trascorso una brevissima vacanza in Sardegna. La ragazza adorava quel libro ed era affascinata da una terra così ricca di storia. 

Non stava prestando particolare attenzione al piccolo televisore appoggiato sulla scrivania.

Stavano dando un programma televisivo in cui veniva spiegato come venivano creati diversi oggetti della vita quotidiana.

Con il commentatore che, ogni tanto, si lasciava scappare delle battute piuttosto squallide. 

La ragazza venne colta di sorpresa da un improvviso cambio di luce. Durato solo alcuni istanti. Alzò lo sguardo, verso il piccolo schermo.

E, per un istante, le parve di vedere l’occhio di Xana sullo schermo.

Chiuse e riaprì gli occhi. Pensò di aver visto male. Di averlo immaginato.

Venne immediatamente riportata alla realtà dall’ esplosione del televisore.

 Numerosissime schegge di vetro si riversarono sul pavimento della stanza.

Per sua fortuna, la sua compagna di stanza non era lì in quel momento. Era a oltre mille chilometri di distanza, nella capitale tedesca, oppure sarebbe potuta essere ferita. Forse anche in modo grave.

La ragazza cercò di essere il più razionale possibile. Non poteva essere Xana. Lo avevano sconfitto tempo addietro. Altrimenti si sarebbe immediatamente precipitata al telefono per contattare gli altri e partire per una missione nel mondo virtuale.

Conosceva a memoria il modus operandi di Xana. Attivare una torre nel mondo virtuale, lanciare uno spettro polimorfo nel mondo reale. Lei si sarebbe precipitata nel mondo virtuale. 

Era raro che tutti e quattro si trovassero contemporaneamente nel mondo virtuale. A turno Ulrich, Odd e Yumi restavano sulla Terra per tentare, insieme ai loro Pokémon, di limitare i danni degli attacchi di Xana, mentre lei e gli altri sconfiggevano i mostri comandati dalla spietata intelligenza artificiale, per permetterle, alla fine, di entrare all’interno della Torre e di inserire il Codice Lyoko, per poter fermare l’attacco e permettere a Jeremy di lanciare il ritorno al passato.

Ma ormai quei tempi erano passati e quella era una semplice coincidenza. Magari uno sbalzo di tensione, magari un difetto del televisore…

Solo che nemmeno lei fu in grado di convincersi della cosa. Era sicura al cento per cento di aver visto quel simbolo. Giurò a se stessa che ne avrebbe parlato solamente se anche a qualcuno degli altri fosse successa una cosa simile.

A furia di osservare quelle telecamere, che inquadravano sempre le stesse cose, qualche Pokémon selvatico, alcune auto che passavano sulla strada, e alcune persone che camminavano, limitandosi a ignorare quella villa, disabitata da anni, Jeremy cadde in un sonno profondo, senza nemmeno accorgersene. Aveva, senza neppure accorgersene, cambiato i DVD ogni due ore circa. Allertato dal segnale acustico che avvisava di come lo spazio nel DVD si stesse esaurendo.

Il giorno seguente Ash e Serena erano tornati, e con loro la Hertz e Jim. Era pomeriggio inoltrato, quasi sera. Eppure nessuno di loro sembrava particolarmente provato dal lungo viaggio.

Eccetto Serena. Aelita non poté fare a meno di notarlo. La sua compagna di stanza appariva estremamente preoccupata.

Immaginava fosse per sua madre. I notiziari avevano parlato spesso e volentieri dell’aggressione subita da Primula, ma avevano parlato di ferite non gravi e di come la donna avrebbe facilmente recuperato. Evidentemente le cose non erano proprio così.

Ora che Jim era tornato Odd non poteva più permettersi di fuggire dalla sua prigionia. Almeno per un altro paio di giorni. Per questo motivo, sia pure contro il suo volere, gli era stato affidato l’ingrato compito di visionare i filmati dell’Hermitage.

Il ragazzo accettò controvoglia. Era geloso.  Gli altri erano all’Hermitage al centro dell’azione. Dopo che Jeremy si era addormentato era chiaro che andare di persona fosse la scelta migliore. Lui, invece, era chiuso nella sua stanza. Costretto a vedere quelle registrazioni. Registrazioni talmente monotone da ricordare una partita di calcio, talmente noiose da far addormentare Jeremy. Cosa ne avrebbe cavato lui?

Dall’altra parte della sua testa, in contrapposizione a questo, si manifestò un pensiero che lo spinse a guardare quei filmati. Istante per istante. Se avesse notato qualcosa che “Einstein” non aveva notato, si sarebbe potuto vantare per secoli.

Il primo dvd, riuscì a guardarlo senza addormentarsi, ma già alla conclusione dello stesso, iniziò a dare i primi segni di cedimento. Crollò totalmente arrivato a meno di un quarto del secondo.

Non seppe quantificare il tempo trascorso da quando si era addormentato a quel momento. Tutto iniziò con una mano, che, delicatamente si posò sulla sua spalla. 

Il ragazzo si girò e rimase ipnotizzato. Gli occhi blu scuro della ragazza brillavano, riflettendo la debole luce della bajour, che il ragazzo aveva acceso senza nemmeno pensarci. La ragazza indossava un semplice pigiama rosa e aveva i capelli sciolti.

«Stavi dormendo?»

Gli chiese in tono gentile.

Odd non sapeva che risponderle. Doveva dirle la verità o inventarsi una scusa. 

«Mi ero solo appisolato un attimo. Non stavo proprio dormendo.»

«Sai, ora che sono sola, in camera mia è una noia, e visto che l’altro giorno siamo usciti insieme, ho pensato di passare da te. Ho provato a bussare, ma non mi hai risposto.

Quindi ho provato ad aprire la porta ed eccomi qui.»

«Ti capisco, dover stare soli quando si è abituati a condividere la stanza è davvero brutto.»

Il ragazzo gettò uno sguardo sul letto del compagno di stanza. Era perfettamente rifatto. Sembrava non ci avesse dormito nessuno da chissà quanto tempo. Invece era semplicemente l'ossessiva precisione del compagno di stanza, di origine tedesca. Quella era solo la prima notte che trascorreva da solo.  

Solo che non poteva dirlo così, o avrebbe rischiato una severa punizione.

«Come mai sei da solo? Come me hai litigato con il tuo compagno di stanza o…»

Litigato?” 

Pensò il ragazzo. A quella domanda, ben presto se ne aggiunse un’altra. Sua diretta conseguenza.

Chi mai potrebbe litigare con una ragazza come lei?”

«No. Nulla di così grave. Semplicemente è dovuto rientrare dalla sua famiglia. Dovrebbe tornare domani. Ecco tutto.»

Insieme il tempo trascorreva più velocemente. E  se qualcuno anche solo accennava ad addormentarsi, poteva essere rapidamente riportato alla realtà.

Avevano ordinato delle pizze e se le erano letteralmente divorate. Se dovevano stare svegli tutte quelle ore dovevano avere energie.

Non sapevano se avrebbero o meno incontrato quel tipo, ma nel caso sarebbero dovuti essere pronti. A turni di mezz’ora uno di loro  guarda le registrazioni, mentre gli altri guardavano la TV.

Fino a quel momento non era successo nulla. Calma piatta.

Calma non era la situazione di Odd. Era stato con tante ragazze, ma con lei era diverso. Non che non si sentisse a suo agio, anzi, tutto il contrario. Stavano parlando delle loro passioni, si stavano scambiando consigli sulle gare e sulle lotte, quando a un certo punto la conversazione si spostò sulla fotografia. 

In Giappone, Lucinda aveva spesso posato per numerose riviste e quindi poteva vantare una discreta esperienza in fatto di fotografia. Gli aveva anche parlato dei vari metodi utilizzati per mettere in risalto questa o quella cosa. E gli mostrò anche degli esempi pratici, sfruttando il portatile del ragazzo.

«Forse ora è meglio che torni in camera. Ma sai, mi sono trovata bene con te. Teniamoci in contatto. Hai il mio numero?»

Non notando alcuna risposta da parte del ragazzo, Lucinda prese l’iniziativa.

 Estrasse un pennarello dalla tasca e scrisse, il numero sulla mano del ragazzo. Molto delicatamente. La punta del pennarello faceva il solletico, ma il ragazzo cercò in ogni modo di trattenere le risate.

Odd era come ipnotizzato dal modo di fare di quella ragazza. Per diverso tempo non sembrava stesse prestando attenzione alle immagini di videosorveglianza.

La ragazza, inaspettatamente, gli diede un bacio. Sulla bocca. 

Facendolo finire completamente in corto.

Non seppe quantificare il tempo impiegato a riprendersi, almeno in parte. Ma quello che scoprì, gli diede il colpo di grazia.

Radunate un secondo le idee, rimosse il DVD dal lettore e lo inserì nel suo computer portatile. 

Fece partire il video attraverso un programma che permetteva di modificare i video e lo fece andare avanti rapidamente, fino a raggiungere il momento incriminato. 

In quel momento iniziò a giocare con le regolazioni presenti sul programma. Inizialmente combinò un vero e proprio pasticcio, rendendo quasi completamente invisibile il video.

Ragionandoci su, comprese il funzionamento dei vari comandi che regolavano il contrasto, la luminosità, la saturazione e altri parametri che prima di allora non aveva mai sentito.

Ora che aveva un’idea di come lavorare, non doveva fare altro che mettersi al lavoro. 

Dopo alcuni inciampi, che avevano portato a dei risultati comparabili a certe opere di arte moderna. Non molto utile quando quello che serve è un’immagine chiara e cristallina, riuscì finalmente nel suo scopo.

Ora l’immagine era più chiara. Non chiarissima ma comprensibile.

Era la sagoma di un uomo alto e dalle spalle larghe. Sembrava che ci fosse qualcosa ai suoi piedi, ma non era ben chiaro di cosa si trattasse.

Quell’immagine poteva comunque essere molto importante, per cui ne salvò una copia. 

Fece un’operazione analoga alcuni frame dopo. In questo caso l’uomo era di profilo, e sembrava avesse un grosso zaino e accanto a lui c’erano due sagome enormi, che non promettevano nulla di buono.

Il ragazzo, pensandoci bene, ricondusse le due sagome erano degli Houndoom, ed erano gli stessi che avevano ferito il Pokémon di Hiroki, per cui era davvero pericoloso. Un secondo pensiero lo raggiunse immediatamente. Se quell’uomo poteva cancellare le sue immagini dalle telecamere, era dotato di grandi risorse.

Il ragazzo si precipitò immediatamente al telefono. Se non poteva andare di persona, almeno li avrebbe avvisati via telefono.

«Ehi! Cosa è successo alla telecamera?»

In quel momento era il turno di Yumi ad osservare le telecamere. Improvvisamente lo schermo era diventato completamente bianco. 

Tutti si avvicinarono allo schermo del portatile. 

Fuori dall’abitazione, Nicolapolus stava ispezionando la villa. Aveva installato delle microspie, e grazie alle stesse aveva scoperto che quei ragazzi bazzicavano spesso per quelle zone. 

Grazie a dei sofisticati sensori di temperatura, aveva notato che all'interno dell’abitazione erano presenti quattro persone. Non l’ideale per agire. Certo era armato e poteva contare sui suoi Houndoom, ma degli spari a quell’ora avrebbero allertato tutto il vicinato. E, per quanto i suoi due Houndoom fossero forti, non lo erano abbastanza da affrontare ventiquattro Pokémon, nella peggiore delle ipotesi.

«Vado a vedere. Ho un brutto presentimento.»

Ulrich sentì una mano sulla spalla e che qualcuno lo  stava tirando indietro. Il ragazzo si voltò.

«Perché non dovrei andare?»

«Ulrich. Non essere impulsivo. Potrebbe essere molto pericoloso. So che tu e la tua squadra siete molto forti, ma cosa ti garantisce che fuori non ci sia qualcuno armato e pericoloso?»

«Oh, si. Hai decisamente ragione.»

Il suo tono era sommesso, ma la sua ragazza aveva ragione. Agire senza pensare sarebbe potuto essere fatale.

Niente. Per quanto tentasse di contattarli, nessuno gli rispondeva. Ogni volta che cercava di mettersi in contatto con i suoi amici, una risposta automatica diceva che il numero chiamato era “spento o irraggiungibile".

Doveva cercare di non farsi prendere dal panico. L’ipotesi più probabile era che fosse caduta la linea, ma lui riusciva a fare le telefonate, quindi era un’ipotesi da scartare.

Lui era in punizione e non poteva uscire. Uscire poteva voler dire solo una cosa. Rischiare di essere espulso. Poteva mettersi in contatto con Lucinda e chiederle di fare da tramite, ma non voleva metterla in pericolo. Non tanto per Jim, quanto per quel tipo che si aggirava per l’Hermitage.

E poi le avrebbe dovuto fornire una spiegazione razionale sul perché avrebbe dovuto raggiungere una villa abbandonata, mettersi in contatto con delle persone che conosce appena e riferire di un tizio che si aggira attorno a quella proprietà per chissà quale motivo…

Troppo complicato. Non che sperare che i suoi amici fossero al sicuro fosse più facile. 

Non potendo uscire a vedere, Ulrich si avvicinò a una delle finestre, per poter osservare meglio. Ben presto si rese conto di non aver fatto un’ottima scelta. La strada era completamente priva di illuminazione, come se qualcuno l’avesse sabotata. 

Probabilmente per passare inosservato.

«Guardate, ora le telecamere hanno ripreso a funzionare!»

Yumi aveva appena concluso il suo turno e Jeremy le stava dando il cambio. 

«Non credo che sia stato un guasto momentaneo. Probabilmente qualcuno lo avrà sabotato»

«Che sia lo stesso che ha attaccato il Pokémon di Hiroki?»

Yumi era piuttosto preoccupata.

«Non ne ho idea. Ma è certo che sa di essere osservato e sta adottando tutte le misure del caso. Come per esempio mandare in tilt le telecamere e mi chiedo di cos’altro sia capace.»

Lo squillo di un telefono fermò lo scambio di parole tra i due. Era Odd. Ulrich si precipitò a rispondere. 

«Ehi! Ma dov’eri che non mi hai mai risposto! Ti avrò chiamato venti volte e mi dava sempre che eri irraggiungibile!»

«Come? Non ho visto nessuna chiamata. Vabbè poco importa.»

«Ho delle novità da dirti!»

I due lo dissero praticamente insieme. 

«Su, vai te!»

Lo invitò il biondo.

«Siamo all’Hermitage e qualcuno è riuscito a sabotare le telecamere e a spegnere l’illuminazione pubblica. Crediamo che sappia di essere osservato. E credo anche che sapesse della nostra presenza.»

«Stavo per dirti la stessa cosa. Riguardando i filmati di sorveglianza ho notato una sagoma di un uomo. Solo che sembrava si fosse cancellato da solo dal filmato. Aveva un grosso zaino sulle spalle.»

«Molto bene. Mi chiedo cosa cerchi.»

«Forse il fascicolo. Ma non è all’Hermitage.»

«Fascicolo? »

«Quando Jim mi ha accompagnato dal preside, ho visto che il signor Delmas stava maneggiando un fascicolo con scritto Waldo Schaeffer.»

«E lo dici solo adesso?»

«Non pensavo fosse importante. Magari erano semplicemente le informazioni che  già abbiamo, stampate su carta.

«Anche se fosse? Se trovi indizi devi sempre dirlo. Per questa volta passi. Ma devi trovare un modo di procurarcelo.»

Il ragazzo chiuse la telefonata senza salutare.

«Odd voleva avvisarci di come quel tipo possa rimuoversi dai filmati. Quindi potrebbe essere stato lui ad aver sabotato la videosorveglianza. Potrebbe essere passato anche stanotte, ma deve aver rinunciato, essendosi accorto di noi. E secondo lui cercherebbe un fascicolo sul Professore.»

Tutti lo guardarono come se fosse un alieno. 

«Fascicolo?»

Gli chiesero tutti, all’unisono.

«Esatto. Infatti mi chiedo perché non ne abbia parlato fino ad ora. Quando è stato mandato dal preside, lo ha visto mentre lo sfogliava. Pensa che lo tenga ancora nel suo ufficio.»

Il giorno seguente i ragazzi si erano dati appuntamento in mensa, per il pranzo. Dovevano decidere come operare per ottenere quel dossier. Poteva essere la svolta. Oppure poteva complicare ulteriormente le cose.

«Ci ho pensato tutta la notte. E forse ho avuto un’idea.»

«Vai avanti. Sono tutto orecchie.»

In realtà Ulrich aveva un po’ di paura. I piani del suo amico non erano mai stati particolarmente brillanti. Ma, dato che gli aveva detto di pensarci lui, doveva fidarsi.

«Se dobbiamo andare nell’ufficio del preside e lui non deve esserci, dobbiamo distrarlo.

«E fino a qui ci siamo.»

«Per cui dovrai parlare con Sissi per chiedere di distrarlo. Vedrai, non sarà difficile. Le chiedi di distrarre suo padre e… quando lo avrà fatto entrerò nel suo ufficio e il gioco sarà fatto. Soprattutto ora che aspettano il fabbro, dato che la serratura dell’ufficio è rotta.»

«La fai facile! E poi cosa le dico? Sentiamo! Hai pensato anche a questo?»

«Oh, beh, si. Pare sia particolarmente gelosa di Serena. Sai, per la gara di lotta in cui ha perso malamente e poi per il fatto che l'hanno accompagnata fino a Berlino.»

«Sì, ma lì era per sua madre.»

«La conosciamo benissimo. Sappiamo che fa sempre così.»

Commentò Aelita, rimasta in silenzio per tutto quel tempo. 

«Quindi che vuoi fare?»

«Inizia parlando con Sissi. Poi ci regoliamo in base a cosa vuole. Oh eccola che arriva.»

Proprio dietro di loro, quasi dal nulla, apparve una ragazza dai lunghi capelli neri. Indossava un top rosa con un cuore giallo disegnato, una gonna bordeaux e delle scarpe sportive. Indossava a tracolla una piccola borsetta. Accanto a lei i suoi tirapiedi, Nicholas e Hervé.

«Mi stavate cercando?»

«Si.»

La ragazza rimase per un attimo senza parole. Ulrich le stava mentendo o aveva davvero bisogno di lei?

«Bene, allora dimmi tutto.»

«Sarebbe meglio se ne parliamo in privato, lontano da orecchie indiscrete.»

La ragazza, sentendosi importante, accettò senza fare storie. In breve si trovarono fuori, vicino alle macchinette. Avevano appena finito di mangiare, per cui il ragazzo decise di offrire un caffè. Il caffè delle macchinette non era il massimo, ma poteva essere un modo per iniziare una conversazione.

«Grazie. Ma adesso dimmi cosa desideri. Mi stai facendo preoccupare.»

«Come vuoi. È una cosa un po’ strana. Vedi ho avuto un piccolo problema con un prof, non importa.»

«E?»

«E mi vorrei vendicare. E per farlo ho bisogno del tuo aiuto. Dovrai distrarre tuo padre, mentre beh, qualcuno si occuperà di… fare il lavoro sporco.»

«Oh, beh. Se lo dici tu. Ma ovviamente chiedo qualcosa in cambio.»

«Dimmi tutto.»

La ragazza rimase in silenzio a pensare. Si. Da una parte era ancora attratta da lui, ma si stava anche frequentando con un altro ragazzo. E se fosse uscita con lui, probabilmente ci sarebbero stati problemi. E poi non ci avrebbe guadagnato in altri sensi. Sapeva che Yumi non avrebbe mosso un dito se gli avesse visti insieme. Sapeva che se era con lei era per ottenere qualche tipo di favore.

Doveva chiedere qualcosa di più materiale. 

«Non so se ti ricordi, ma qualche tempo fa ho perso malamente con quella nuova arrivata. E la cosa mi fa molto male ancora oggi. Tu pensa, io, la regina indiscussa delle gare, sconfitta dalla nuova arrivata…»

«È terribile!»

Commentò il ragazzo, cercando di assecondarla. Non aveva ancora idea di cosa volesse.

«In ogni caso… se vuoi che ti aiuti… devi trovare una persona che possa aiutarmi.»

«Aiutarti? E con cosa?»

«Dovresti trovare una coordinatrice che mi possa aiutare a sconfiggerla. Ma che dico sconfiggerla. Umiliarla. Davanti a  tutti. Pensi di potermi aiutare?

Il ragazzo ci pensò un attimo. Sarebbe potuta andare davvero molto peggio.

«Dammi un secondo. Forse so chi ti può aiutare.»

Il ragazzo tornò in mensa. Era sicuro di trovare il suo amico, ancora lì, a divorare la terza porzione di dolce.

«Odd. Ho bisogno di un grosso favore. Grossissimo.»

«Di che tipo?»

«Avresti il numero di Lucinda?»

«Non me la vorrai rubare?»

Il ragazzo sapeva di poter scherzare su queste cose. Infatti aveva già preso il telefono dalla tasca e cercato nella rubrica il numero della ragazza.

«Ecco qui! Ma puoi dirmi a cosa ti serve?»

«A cosa mi servirà mai? Per il tuo piano malefico!»

Intanto Ulrich aveva finito di salvare il numero della ragazza. Senza dire una parola era già corso da Sissi, che lo stava ancora aspettando davanti alle macchinette. Aveva appena finito di bere il suo caffè.

«Allora?»

«Dammi solo un attimo.»

Il ragazzo prese il telefono e si mise in contatto con Lucinda. La ragazza era salita in camera sua, per riportare i suoi Pokémon. Aveva sentito il telefono squillare e, rispose, senza nemmeno guardare il numero.

Xana sapeva benissimo che quello era il numero di telefono di Ulrich Stern. Ma non poteva permettersi di venir scoperto sin da subito. O il suo piano sarebbe crollato come un castello di carte.

«Pronto? Chi parla?»

«Sono Ulrich, il compagno di stanza di Odd, il ragazzo con cui sei uscita l’altro giorno… »

«Si, ho capito. Il tuo amico è davvero fantastico.»

«Poi, quando lo conoscerai bene cambierai idea…»

Il ragazzo cercò di non ridere.

«Sto scherzando… posso assicurarti che è un bravissimo ragazzo!»

«Vedo. Comunque come mai mi hai chiamato?»

«Vedi, tu sei una super coordinatrice di fama internazionale e una mia amica…»

«Amica…»

Sissi era era felice di esser considerata in quel modo dal ragazzo.

«Una mia amica che  ha un po’ di timore reverenziale nei tuoi confronti, mi ha chiesto di fare da tramite. Vorrebbe che le insegnassi i trucchetti del mestiere… diciamo.»

«Certo, non c’è problema. Dimmi dove sei che ti raggiungo.»

Xana aveva sentito i suoi nemici parlare di un dossier di Waldo Schaeffer, e se loro ne fossero venuti in possesso, anche lui avrebbe potuto visionarlo. E decidere come agire, a seconda del caso.

«Vicino ai distributori automatici. Ah, dimenticavo, non andarci troppo pesante!»

«Arrivo.»

«Ha detto che sta arrivando.»

Ulrich prese il telefono e scrisse un messaggio all’amico. “Ho fatto il mio. Ora dobbiamo aspettare. Quando sarà fuori potrai agire”.

Alcuni minuti dopo, la ragazza dai capelli blu raggiunse i due ai distributori automatici. La ragazza guardò Sissi per un tempo che sembrava infinito.

«Sarebbe lei la tua… amica?»

«Si. »

«Quando vuoi cominciare? Da quanto ho capito vuoi conoscere i trucchetti del mestiere. No?»

«Si, esatto, però aspetta un attimo. Quanto a te…»

La ragazza si stava rivolgendo a Ulrich.

«Farai compagnia a mio padre.»

Sissi prese il suo telefono e chiamò il padre. Mentre la stessa stava effettuando la chiamata, Ulrich scrisse un secondo messaggio all’amico. “Io sarò occupato. Appena sarà occupato anche lui ti avviso”

Il messaggio era piuttosto sintetico, ma abbastanza comprensibile. O almeno sperava che lo fosse.

«Ha detto che ci sarà. Arriverà tra poco. Purtroppo ha del lavoro da fare, quindi ci sarà solo per un’ora. Spero che basti al tuo “agente segreto”.»

«Se non basta, vedremo di farla bastare.»

Sissi aveva mantenuto la promessa. Suo padre il signor Delmas l’aveva raggiunta. Ulrich era un po’ intimorito dalla sua presenza. Non tanto dal suo aspetto, un uomo tarchiato, spessi occhiali rettangolari, vestito elegante, ma per quello che rappresentava. 

«Bene, andiamo. Vediamo cosa sai fare.»

Lucinda si mise in testa al gruppo. Camminava a passo veloce, il signor Delmas faticava a tenere il passo. Questo per Xana rappresentava un piccolo imprevisto, ma non avrebbe cambiato le cose più di tanto.

Alla fine tutti e quattro raggiunsero i campi lotta, che per fortuna non erano molto distanti dai distributori. Erano, invece, piuttosto lontani dalla palazzina amministrativa. 

Il preside, come da tradizione, si accomodò nel trono a lui assegnato. Da quel punto si aveva una vista perfetta sul campo.

Ulrich scrisse l’ultimo messaggio all’amico. “Via libera”.

Nel mentre Lucinda aveva mandato in campo Buneary, e Sissi la sua Clefable.

Per sua fortuna l’amico aveva sempre il telefono sottomano. E, appena letto il messaggio, si mise immediatamente a lavoro.

Giunto nei pressi del palazzo amministrativo, si accorse di come lo stesso fosse completamente deserto. Per fortuna.

La serratura era ancora rotta. Il fabbro sarebbe arrivato solo il giorno dopo.

Il ragazzo aprì la porta e poi la richiuse immediatamente.

L’ufficio del preside era enorme, ma ordinato. Più del solito. Sulla scrivania solo il portapenne e il computer fisso. Su di un muro era appeso un grosso gancio, dove a loro volta erano appese tutte le chiavi dell'istituto. Il preside era un tipo previdente. Voleva assicurarsi di avere il pieno controllo di tutto l’istituto.

Posato su una delle pareti della stanza, un gigantesco archivio metallico. Ovviamente era chiuso a chiave. E, con tutta probabilità, sarebbe stato aperto da una di quelle chiavi.

Nessuna di esse presentava un’etichetta o qualcosa di simile, per poterle identificare. 

«Usa la testa, Odd! Usa la testa!»

Guardando le chiavi e la serratura, si accorse di come potesse escludere, in un colpo solo, una buona parte di quel mazzo. Ora non gli restava che trovare la chiave che aprisse lo sportello in cui, presumibilmente, era contenuto quel documento. Perse altri preziosi secondi nel provare la chiave che aprisse quel cassetto, segnato dalle lettere P-Z. 

Sapeva che nell’istituto, che fossero alunni o professori, tutti venivano archiviati con il cognome.

Ma niente. Per quanto controllasse, il fascicolo del professor Schaeffer non c’era. 

Eppure lui era sicuro di averlo visto.

Sentiva scorrere il tempo in maniera frenetica. Non sapeva quanto tempo avesse. Poi ebbe l’illuminazione.

Quando, qualche tempo prima era stato costretto ad entrare nel suo ufficio, per quell’uscita con Lucinda, lo aveva visto mentre lo sistemava da qualche parte alla sua destra.

Da qui l’illuminazione. 

Si inginocchiò al lato destro della scrivania. E aveva trovato quel che cercava. Dei cassetti. Certo. Erano chiusi a chiave, ma era un buon inizio.

Ben presto si accorse di come tutte le chiavi di cui disponeva, erano troppo grandi per quella serratura. Sicuramente quella chiave si trovava da qualche parte in quell’ufficio, ma dove?

Guardò sotto il piano della scrivania, nella speranza di trovare la chiave appesa la sotto, o, nella peggiore delle ipotesi nastrata.

Ma niente. La chiave non era lì.

La sua ultima speranza era il piano della scrivania, occupato dal portapenne e dal computer. 

Guardò con attenzione il portapenne.  Sembrava che l’interno fosse più alto dell’esterno.

 Come se avesse un doppio fondo. Il ragazzo lo prese e svitò la base. Al suo interno un piccolo mazzo di chiavi. 

Prese il mazzo e aprì il primo cassetto.

Al suo interno una cartellina gialla con su scritto, con un pennarello nero Waldo Schaeffer. Se lo infilò sotto la maglietta, richiuse il cassetto e risistemò le chiavi e il portapenne.

Infine corse fino a camera sua, dove depositò la refurtiva e scrisse un messaggio all’amico. “Fatto. Davvero difficile”.

Quel pomeriggio, i ragazzi si radunarono nella stanza di Ulrich e Odd.

Il dossier era sulla scrivania dei due ragazzi. Ancora non era stato aperto. 

«A te l’onore.

Aelita si alzò dal letto e rimosse l’elastico che teneva chiuso il dossier. Provava uno strano mix di emozioni. Dopotutto quel faldone conteneva delle informazioni riguardo suo padre.

La ragazza aprì il dossier. Al suo interno un’ulteriore busta chiusa. Di colore simile al rivestimento esterno. Su di esso una scritta. “Grazie per aver accettato di conservarlo, Jean”.

«Aspetta un attimo!»

«Questa è la scrittura della Hertz!»

Yumi completò la frase del suo ragazzo.

«Come immaginavo. Ha mentito. Ora dobbiamo capire in che modo.»

Le fece eco Jeremy.

«Ad ogni modo…»

Aggiunse poco dopo.

«Vediamo che segreti nasconde.»

Molto delicatamente, il ragazzo ruppe i sigilli del fascicolo. Una volta fatto questo, estrasse una grossa pila di fogli.

«Sembrano i piani di costruzione del Supercomputer. Mi chiedo cosa se ne facesse la Hertz. E poi…»

«Che quello fosse il Supercomputer me ne sono accorto. Non sarò un genio come te, ma il Supercomputer lo so riconoscere. Piuttosto quel messaggio in codice…»

Lo interruppe Odd, mentre indicava diversi bozzetti del Supercomputer, visto da diverse angolazioni.

«Calmati. Ci stavo arrivando. Non è un messaggio in codice. È Hoppix. Il linguaggio di programmazione in cui è stato creato Lyoko. Solo che non ho idea di cosa possa fare.»

«E allora perché non lo provi?»

Lo provocò Odd

«Il Supercomputer resterà spento in ogni caso. A mano che non sia strettamente necessario. E poi non abbiamo la minima idea di cosa faccia. Potrebbe anche causarne l’autodistruzione.»

«Ma non è quello che voleva il Professore? Ahia!»

Odd si beccò una gomitata nelle coste da Ulrich.

«Non dimenticare cosa dobbiamo fare PRIMA! È la cosa più importante.»

«Certo, hai ragione! Ma la prossima volta non essere così violento.»

Mentre sfoglia i diversi fogli, il ragazzo fece, involontariamente, cadere un piccolo foglietto di carta, una sorta di post it.

«E quello cos’è?»

Aelita aveva notato quel piccolo foglietto di carta. E lo aveva raccolto.

«Guardate, un indirizzo di…»

«Bruxelles»

Yumi concluse la frase dell’amica.

«E sembra che sia stato scritto dalla Hertz. E questo vuol dire solo una cosa. Ha a che fare con il Professore. Riesci a procurarmi due biglietti per venerdì o sabato?»

«Due?»

Ulrich si sentì preso in causa.

«Pensavi andassi da sola? E poi, che vuoi che siano un paio d’ore di treno?»

«Ok. Ci metto due minuti a procurarvi i biglietti, ma mi chiedo cosa ci possa essere in un altro Stato.»

«Non saprei. Ma se va bene anche solo la metà di come è andata la scorsa volta…»

«Va bene.» 

Un rumore non ben definibile riempì la stanza. Due biglietti Parigi-Bruxelles e altrettanti Bruxelles-Parigi erano appena usciti dalla stampante.

Qualche ora dopo, si trovarono tutti nelle rispettive stanze. Andare all’Hermitage era inutile. Quel tizio poteva essere pericoloso e sembrava che non agisse in loro presenza. E, in ogni caso era capace di eliminare la sua presenza dall’impianto di videosorveglianza.

«Posso usare il computer?»

«Ma certo! Ci mancherebbe! Accomodati pure. La prossima volta usalo pure senza chiedere.»

Serena si sedette sulla sedia e accese il computer. Il pulsante di accensione si illuminò di una luce blu, mentre sul monitor apparve la schermata di caricamento del sistema operativo.

Dopo una trentina di secondi, il computer era pronto per essere utilizzato.

La ragazza selezionò il motore di ricerca e si bloccò. Rimase imbambolata a fissare lo schermo, che mostrava la homepage del motore di ricerca.

«Hai detto che ti chiami Aelita, non è vero?»

«Esatto. Lo so. Non è un nome molto comune. È un nome di origine russa, quindi puoi immaginare il motivo.»

«Si, immagino. Avresti potuto dire lo stesso per me.» 

«Ora che ci penso sei la prima ragazza che conosco a chiamarsi Serena.» 

«Sai, io ho origini italiane. Da parte dei miei nonni paterni, e io mi chiamo proprio come mia nonna, ma non so quanto possa essere interessante.»

«Se parlarne ti fa stare meglio, vai pure.»

«Stare meglio?»

«Credi che non me ne sia accorta? È da quando sei tornata dalla Germania che ti vedo strana. Preoccupata, ecco.»

«Non ti si può nascondere nulla. La verità è che mia madre è stata aggredita da un finto tassista e mi è stato permesso di andare a visitarla. Quando sono andata a trovarla è come se fosse tornata ad otto anni fa. Almeno. E mi ha parlato di una ragazza che si chiama Aelita e, come te, aveva i capelli rosa e gli occhi verdi.

Mi diceva che mi faceva da babysitter quando avevo tre o quattro anni. So che non puoi essere te, abbiamo più o meno la stessa età… ma per il resto corrispondi perfettamente alla sua descrizione.»

«Sarà per l’aggressione che ha subito. Oppure si tratta di una semplice coincidenza. E poi, oggi dovrebbe avere almeno venticinque anni. Ma secondo me, se cerchi potresti trovarla e metterti in contatto con lei. Magari si ricorda di te.»

Nemmeno lei credeva alle sue parole. Ma non poteva di sicuro raccontarle la verità sulla sua identità. 

Serena, intanto, si era fatta coraggio e aveva iniziato a digitare le prime lettere sul motore di ricerca. “Aelita H…”

La sua compagna di stanza, per un attimo sentì mancare l’aria nei polmoni. Sperava di non esser stata notata.

Intanto, Serena aveva finito di digitare e aveva avviato la ricerca e stava iniziando a scorrere tra i risultati.

«Studentessa di tredici anni e suo padre scomparsi nel nulla.» 

L’articolo era datato sette giugno millenovecentonovantaquattro.

La ragazza cliccò sul link, che, nonostante avesse oltre dodici anni, funzionava perfettamente. Un pop-up indicava che l’articolo proveniva dall'archivio del sito e che sarebbe stato impossibile interagire.

«Aelita Hopper, studentessa di tredici anni del collegio Kadic, e suo padre Franz Hopper, professore di scienze presso lo stesso istituto, sono scomparsi nel nulla.

Le autorità hanno diffuso una foto dei due. Nel caso li incontraste, mettetevi in contatto con la più vicina stazione della gendarmeria.»

La ragazza cercò la fotografia. Invano. Probabilmente era stata rimossa quando l’articolo era stato archiviato.

La ragazza provò a cercare in tanti altri siti, senza trovare nulla di utile. Solo un articolo, datato alcuni mesi dopo, attirò la sua attenzione.

«Caso Hopper archiviato per mancanza di prove.»

La ragazza era perplessa. Come potevano padre e figlia scomparire nel nulla e non lasciare nemmeno un minuscolo indizio, una minima prova, niente di niente. 

Ben presto la sua preoccupazione divenne un’altra. Se davvero Aelita e suo padre Franz Hopper sono vissuti realmente, perché sua madre era convinta che fossero ancora in vita, anni dopo la loro scomparsa? Poteva essere per colpa dell’aggressione o c’era qualcosa di più?

Senza dire una parola corse fuori dalla stanza con il telefono in mano.

Compose rapidamente il numero della madre e fece partire la telefonata. Nel farlo scordò che sua madre si trovasse ancora a Berlino, ricoverata in ospedale e che, quindi, avrebbe speso un patrimonio per quella telefonata. Ma in quel momento i soldi non erano di sicuro la sua preoccupazione.

Non sapendo se sua madre si fosse ripresa o meno, doveva anche scegliere come approcciarsi. Alla fine scelse un approccio diretto. Le avrebbe fatto la domanda direttamente.

La donna rispose dopo alcuni squilli.

«Ciao Serena, dove sei? Non sei pronta? Dobbiamo partire. Potrai rivedere Aelita dopo tutti questi anni!»

«Mamma! Aelita è scomparsa alcuni anni fa. Insieme a suo padre. Sono grande, puoi dirmi la verità. Non mi metterò a piangere.»

«Come vuoi. Dobbiamo partire lontano dalla Francia perché delle persone molto pericolose ci cercano. Proprio per via del padre di Ae…»

Attaccò prima che la madre finisse la frase. E tornò in camera. E effettuò una nuova ricerca. Questa volta cercò solo il nome di Franz Hopper. Dopo alcune decine di risultati simili, finalmente la ragazza trovò quello che cercava.

«Attentato terroristico al collegio Kadic. Rivendicato da terroristi internazionali. Dateci Franz Hopper o ci prenderemo le vostre famiglie.»

La ragazza aprì l'articolo. Era datato circa quattro anni dopo quelli che parlavano della scomparsa del signor Hopper. 

«Una Peugeot 605 imbottita con una tonnellata di esplosivo ad alto potenziale è stata fatta saltare in aria presso il palazzo amministrativo del collegio, causando ingenti danni, all’edificio ma nessun ferito. 

L’attentato è stato rivendicato da un ben noto gruppo terroristico come minaccia all’amministrazione. La loro richiesta è stata quella di consegnar loro il professor Hopper, scomparso nel nulla insieme alla figlia circa quattro anni fa. I terroristi si dichiarano pronti a ritorsioni contro chiunque abbia collaborato con lui.

Le autorità francesi provvederanno a proteggerle al meglio delle loro possibilità.»

La ragazza, che non si era accorta del fatto che la sua compagna di stanza le si era avvicinata e di come anche lei stesse leggendo silenziosamente quell’articolo.

Era troppo occupata a chiedersi cos’altro avesse a che fare la sua famiglia con quell’uomo, se il solo collegamento tra la sua famiglia e il professore era che a volte sua figlia le facesse da babysitter. 

Probabilmente c’era dietro qualcos’altro. Ma cosa? Di sicuro non poteva mettersi di nuovo in contatto con la madre. L'aveva chiamata poco prima e non l’aveva nemmeno salutata. Doveva cavarsela da sola.

Forse la soluzione era quella scheda di memoria, ma voleva vederla da sola. E di sicuro non poteva chiedere alla legittima proprietaria della stanza di allontanarsi. Poteva, invece, aspettare che si addormentasse. Dopotutto le aveva dato il permesso di usarlo senza chiederle ogni volta il permesso.

Si era impostata la sveglia per le tre di notte. Solo vibrazione. Non voleva svegliare la sua compagna di stanza. Non aveva motivo di controllare che dormisse. Perché farlo? A quell’ora, Aelita, doveva essere totalmente tra le braccia di Morfeo.

Accese il computer, che per fortuna era piuttosto silenzioso, emetteva un ronzio appena percettibile, attese il caricamento del sistema operativo e inserì la scheda nel lettore.

Aprì la sola cartella contenuta nella scheda di memoria, che a sua volta, conteneva un solo filmato.

Sembrava il punto di vista di una persona, ma non aveva idea di chi potesse essere. Cliccò su play e il filmato partì. Il video partì con una bellissima donna dai lunghi capelli rosa e gli occhi verdi. Indossava un semplice camice da laboratorio. Più guardava quel video, che, per il momento, era una semplice immagine statica e silenziosa, più domande aveva.

Chi è quella donna?

Pensò.

Cosa vorranno da lei? Cosa le stanno facendo? Perché è legata a quella sedia? E se fosse…?

E tante altre domande che si susseguivano in maniera estremamente veloce. Talmente veloci da essere incomprensibili.

Ora il filmato mostrava un giornale locale, datato due maggio millenovecentonovantaquattro. La ragazza ci pensò un attimo. Era poco più di un mese prima della scomparsa del signor Hopper. 

Lo sguardo tornò sulla donna. Aveva iniziato a piangere. 

Tra le lacrime iniziò a parlare. La sua voce era attutita dal vetro che separava la stanza dov’era prigioniera dal luogo in cui si trovava chi riprendeva la scena.

«Waldo, non pensare a me.»

La ragazza mise in pausa il video. Il volume era più alto del previsto. Sperava che la sua compagna di stanza non si fosse svegliata. Non sentendo alcuna lamentela, prese un paio di cuffie, inserì lo spinotto e regolò di nuovo il volume.

«Mi tengono prigioniera, ma sto bene.» 

Dopo una lunga pausa di silenzio, la donna riprese a parlare.

«Come Sta Aelita? Sono anni che non la vedo… ormai sarà grande… sarà diventata un’allenatrice e…»

Mise nuovamente in pausa il video.

«Aelita?»

Sperava di averlo detto sottovoce.

 Ma, indossando le cuffie, era difficile capirlo.

 Probabilmente quella donna era la madre di quella ragazza di cui sua madre le aveva parlato e… sua madre aveva parlato solo del padre della ragazza. Ma non le tornava una cosa. Il padre della ragazza si chiamava Franz. Poteva essere una semplice coincidenza.

Appena fece ripartire il video, venne gelata da una voce maschile.

«Di tutto quello che sai. Non ci interessa di tuo marito o di tua figlia.»

La donna rimase in silenzio per alcuni istanti.

«Vogliono che ti dica di continuare a lavorare per completare il progetto Cartagine.

 In cambio mi libereranno e noi tre potremo vivere di nuovo come una famiglia.»

La donna rimase di nuovo in silenzio. Come se dovesse trovare le parole giuste.

«Tu non ascoltarli. Non mi libereranno mai e vogliono ucciderti. Tu scappa. Il più lontano possibile.»

A questo punto, sembrò come che l’osservatore venisse tirato violentemente. Le immagini si fecero confuse e incomprensibili.

Quando ripresero a essere comprensibili, l’osservatore inquadrava una scrivania in legno pregiato. Vuota. Seduto alla scrivania un uomo dalla carnagione scura. Vestito completamente di blu. Camicia, cravatta, giacca, cappello, pantaloni, scarpe…

«Per cosa sei venuta qui?»

La ragazza si tolse il primo dubbio. L’osservatore era una donna. Sarebbe quindi più corretto definirla come l’osservatirice.

«Per lo sponsor.»

«E chi ti ha mandato qui?»

«Mio marito. Lavora per lei e mi ha detto che era disposto a finanziarmi in cambio di pubblicità.»

L’uomo accese un sigaro. In breve tempo la stanza venne riempita da un fumo denso e puzzolente.

«E così tu saresti Primula? Sei persino più bella di come ti hanno descritta.»

Alla ragazza si gelò il sangue nelle vene. Era sua madre? E se sì, cosa ci faceva lì? Di che sponsor parlava? Cosa c’entrava suo padre? Sua madre conosceva quella donna? 

Forse avrebbe trovato una risposta guardando gli ultimi istanti del video. 

Lo fece ripartire.

L’uomo posò sulla scrivania due enormi mazzi di banconote di cinquecento dollari. Erano entrambe alte almeno mezzo metro. 

«Prendi questi e fingi di non aver visto niente. Per lo sponsor, vedremo più avanti.»

«Non posso accettare. Non dirò nulla. Ma non posso accettare.» 

«Prendili come anticipo per quella sponsorizzazione. Se non li prendi qui, li avrai comunque, in un modo o in un altro.»

Il video era finito. Di punto in bianco.

«Non capisco. Cosa volevano da mia madre? Chi è quell’uomo?»

Stesso errore. Forse non aveva ben regolato il tono di voce. Si girò verso il letto della compagna di stanza. Era vuoto.

Sarà in bagno.

Pensò.

No. Non era in bagno. 

Non aveva esattamente idea di dove si trovasse. Sembrava una stanza conosciuta. Un mobile sormontato da una tv a tubo catodico, un divano di pelle e una piccola porta di accesso.

Pensandoci bene, comprese dove si trovava. Era la stanza segreta dell’Hermitage. Quella che avevano trovato qualche tempo prima. Dopo quel viaggio a Marsiglia. 

Aveva avuto un attacco di sonnambulismo e, dalla sua stanza era giunta all’Hermitage, attraverso uno dei passaggi segreti. Solo che… come diavolo aveva fatto a  non svegliare la sua compagna di stanza. Probabilmente aveva il sonno pesante o, più semplicemente, poteva pensare che fosse andata al bagno.

Avendo recuperato un minimo la ragione, diede uno sguardo più ravvicinato alla stanza. Si trovava davanti a un muro e aveva iniziato a graffiarlo durante il sonno. 

Si guardò le mani. Erano insanguinate. Si chiese come mai fare una cosa del genere. Provò a bussare in diversi punti della parete.

Suonava come se fosse vuota. Come se…

Non aveva Pokémon con sé. Li aveva lasciati in camera. Doveva inventarsi qualcos’altro.

Si mise alla disperata ricerca di qualcosa che potesse aprire un varco in quella parete. Esplorando i sotterranei, alla fine trovò quel che cercava. Un vecchio piccone. Mezzo arrugginito. 

Lo trascinò fino alla stanzetta e, dopo essersi assicurata che il divano e il mobiletto non si rovinassero, colpì il muro con il piccone. Usò una forza che nemmeno credeva di avere. La parete di cartongesso cedette di schianto. 

Come se chiunque l’abbia costruita volesse che venisse demolita.

La sua caduta fece sollevare un nuvolo di polvere che fece tossire fragorosamente la ragazza. 

Uscì dalla stanza, aspettando che la polvere si depositasse. Nel frattempo rifletté sulle parole di quell’uomo che avevano incontrato a Marsiglia. 

Aveva parlato di una piccola sezione della villa. Non di una stanza. 

Era così facile, eppure solo un attacco di sonnambulismo le aveva fornito la soluzione. 

Voleva mettersi in contatto con Jeremy, ma ben presto si rese conto di non avere alcun modo di farlo. Il telefono era nella sua camera da letto. 

E poi, dal momento che il ragazzo condivideva la stanza, svegliarlo senza allertare il compagno di stanza, non era cosa 

facile. Ma ci doveva provare.

Corse verso il collegio. Giunta di fronte alla stanza del ragazzo, aprì la porta, molto delicatamente. Era a tanto così da schiacciare la coda del Pikachu di Ash. Scivolato dal letto del ragazzo chissà quando.

Scosse il ragazzo, nella speranza che si svegliasse.

«Che succede?»

«Non importa, vieni con me.»

La ragazza era strana. Sembrava avesse visto un fantasma. 

Senza dire una parola, il ragazzo la seguì, facendo attenzione a essere il più silenzioso possibile.

Alla fine raggiunsero la stanza segreta scoperta qualche tempo prima. La polvere si era depositata e l’aria era tornata respirabile.

Il centro della stanza era occupato da uno scanner. Più vecchio di quelli della fabbrica, ma probabilmente dal funzionamento simile.

Accanto allo scanner un terminale di controllo. Simile a quello della vecchia fabbrica, ma anche in questo caso più antiquato.

«Mi chiedo cosa ci faccia qui? Perché mettere un altro accesso a Lyoko?»

«Non sono sicuro che sia un accesso diretto a Lyoko. Non avrebbe molto senso.»

Sappiamo che tuo padre faceva le cose sempre con una ragione precisa.»

«E allora dobbiamo scoprire a cosa serve.»

«Non sarebbe meglio avvisare gli altri?»

«Domani Ulrich e Yumi partiranno per il Belgio, non so quanta voglia abbiano di essere disturbati nel cuore della notte. E poi, ricorda che Xana non c’è più. Non corro pericolo.»

«Hai vinto.»

In pochi istanti la ragazza entrò nel dispositivo e si trovò materializzata nel mondo virtuale. Non era Lyoko, anche se il suo aspetto era quello che aveva nel mondo virtuale. una tuta futuristica di tue tonalità di rosa, una chiara e una scura,una gonnellina e delle spalline trasparenti, e un braccialetto a forma di stella che, all'occorrenza, può far comparire sulla sua schiena.

Un po ’rimpiangeva il suo aspetto originale, da elfa, vestita rosa e verde, ma con il nuovo outfit era molto più forte e, questo non era un male, quando dovevano combattere Xana.

La ragazza si guardò attorno. Per quanto si sforzasse, non riconosceva quel posto. Ricordava la foresta di Lyoko, ma era anche contemporaneamente molto diverso.

Davanti a lei tre grossi alberi, simili a querce. Poco lontana, isolata, un’altra quercia. Del tutto simile alle altre, tranne per l’assenza di cartelli.

«Voglio proprio vedere cosa nascondi.»

«Fai attenzione.»

La ragazza era già entrata al suo interno.

Come il titolo di un film, apparve la scritta “non ti scordar di loro”

La ragazza si trovò catapultata in un luogo familiare. l’Hermitage. Quando ancora viveva con suo padre. La villa era perfettamente ordinata e pulita. 

Decise di visitare l’abitazione. Quel messaggio doveva avere un qualche significato, dopotutto. A chi si riferiva? Di chi non doveva dimenticarsi e soprattutto perché?

Esplorando l’abitazione, non trovò nessuno. Aveva visitato tutte le stanze meno una. Il salotto.

Aveva un bruttissimo presentimento quando aprì la porta della stanza, per questo lo fece molto lentamente. Come se farlo piano, cambiasse qualcosa.

Quando fu dentro, per poco non ebbe un mancamento. Jeremy, pur se non poteva vederla, riuscì a sentirla.

«Tutto bene?»

«No.»

«Come no?»

«Non so come spiegartelo, ma mi sono trovata all’Hermitage com’era quando vivevo con mio padre e ho visto la me del passato. Per quanto sia incredibile.»

«Potrebbe essere una sorta di diario. Te la senti di restare o vuoi tornare?»

«No. Resto. Sembra un posto sicuro. Solo che non mi spiego che cosa intendesse con la frase “non ti scordare di loro”.» 

«“Non ti scordare di loro”?»

«Si, è apparsa quando sono entrata qui dentro. Ora che ci sono voglio vedere di che si tratta.»

Mentre Aelita finì la frase, qualcuno suonò il campanello. 

L’Aelita del passato si alzò dal divano e andò a vedere chi suonava. 

L’Aelita del presente la seguì con lo sguardo. Temeva di essere vista, ma, apparentemente, venne ignorata. All’ingresso vi era suo padre e un altro uomo Poco più alto di lui, completamente pelato. Occhi chiari. Teneva in braccio una bambina di tre o quattro anni. Lunghi capelli color miele e occhi blu. Aelita sentì di nuovo quella sensazione. Quei capelli, quegli occhi… 

No. Non poteva essere lei.

Doveva scacciare quel pensiero ad ogni costo. 

Per sua fortuna, Jeremy non si accorse di nulla.

L’uomo senza capelli si inginocchiò per depositare la bambina.

«Aelita? Ti puoi occupare di Serena per questo pomeriggio? Primula è fuori città e io e Jean dobbiamo andare a lavoro. Sai di cosa si tratta. Non serve che ti spieghi, vero?»

«Certo, il progetto. Non ti preoccupare. Come sempre la tratterò come se fosse la mia sorellina.» 

La ragazza del passato sorrise alla bambina, che sorrise a sua volta.

L’uomo senza capelli prese il portafoglio e diede alla ragazza due banconote da cinquecento franchi. 

«Per la settimana scorsa. Sei stata bravissima. Serena non vedeva l’ora di tornare da te.»

I due se ne andarono. Diretti, con tutta probabilità, alla vecchia fabbrica.

«Sovellona, mi leggi una stovia?»

«Certo. Cosa vuoi che ti legga?»

«Novamalas.»

l’Aelita del passato fece un'espressione facilmente traducibile come “sarà la decima volta che te la leggo”. 

Ad ogni modo, aiutò la bambina a sistemarsi sul divano e prese il libro.

l’Aelita del presente guardò quel libro. Si, era molto più nuovo, ma era lo stesso libro che stava leggendo quando era esploso il televisore. E, ironia della sorte, era proprio la storia che stava leggendo.

Era, per l'appunto, un racconto popolare della Sardegna, scritto con l’intenzione di trasmettere il messaggio di essere generosi e condividere il poco che si ha con gli altri. 

Questo modo di comportarsi verrà attuato da uno dei due protagonisti della storia, due fratelli. 

Uno dei due uomini era povero e doveva badare ad una famiglia numerosa, il secondo era ricco e senza figli. Il fratello povero, durante il viaggio si mostrò generoso con le persone che aveva incontrato durante il viaggio ed era stato premiato. Il fratello ricco, mostrandosi avaro e menefreghista, verrà punito.

In seguito l’Aelita del passato aveva fatto fare merenda alla bambina e le aveva mostrato i suoi Pokémon, che, beh per la ragazza del presente non erano di sicuro una novità, dal momento che la sua squadra non aveva subito variazioni. Lucario, Togekiss, Gardevoir. L’aveva vista raccontare alla bambina cosa si provasse ad essere un’allenatrice e del fatto che, un giorno, se avesse voluto, anche lei lo sarebbe stata.

Per il resto del pomeriggio non accadde nulla di eclatante, fino al ritorno dei due uomini. 

«Mi chiedo come sia andato il Gran Premio. Vediamo un po’.»

Il Professore si sedette sul divano, e fece cenno all’uomo di fare altrettanto. In quel momento la TV era spenta e la piccola Serena stava colorando un disegno di un grosso album da colorare.

Il professore accese l’apparecchio e lo sintonizzò sul canale di notizie.

Sullo schermo televisivo inquadrarono una giornalista, vestita elegante, seduta dietro a una scrivania bianca. Il pavimento dello studio era costituito da enormi pannelli lucidi blu.

Dietro la donna una sagoma a forma di Francia colorata coi colori della bandiera nazionale e diversi monitor che trasmettevano le anteprime dei servizi. 

«E ora una notizia dell’ultima ora.»

Il tono della giornalista era tremante. Sembrava sul punto di piangere. Cosa inconsueta per una giornalista di quel livello.

«Una notizia che mai avremmo voluto dare. Dopo il bruttissimo incidente avuto da Rubens Barrichello nelle prove libere, l’incidente in cui ha perso la vita il pilota austriaco Roland Ratzenberger, di cui vi avevamo comunicato nella serata di ieri, altri due incidenti hanno funestato il Gran Premio di San Marino.»

L’Aelita del presente, finalmente ebbe un riferimento temporale. Era il primo maggio del millenovecentonovantaquattro. Poco più di un mese prima della fuga.

E, in quei giorni, apparentemente, la loro vita era ancora “normale”.

«Alla partenza vi è stato un contatto tra la Lotus di Pedro Lamy e la Benetton di JJ Lehto. I piloti non hanno riportato ferite, mentre nove spettatori sono stati feriti, di cui uno gravemente.

La gara è stata immediatamente neutralizzata con una bandiera rossa. 

Alla ripartenza, Ayrton Senna ha mantenuto la testa della gara. 

Al settimo giro, la Williams del tre volte campione del mondo, ha avuto un problema di natura non chiara, mentre affrontava in piena velocità la ben nota curva del Tamburello. 

L’impatto, a oltre duecento chilometri orari è apparso fin da subito molto grave. Rapidissimo l’intervento dei medici, arrivati in meno di due minuti, che, accortisi delle gravissime condizioni, hanno allertato immediatamente l’elisoccorso.

Alle diciotto e quaranta minuti la notizia che nessuno di noi avrebbe mai voluto dare. Ayrton Senna è morto.»

Gli occhi di suo padre erano lucidi, era sul punto di piangere. Senna era l’idolo di suo padre.

Tuttavia, non poté pensare molto a questo. In quel mondo fermo a dodici anni prima, le cose continuavano, inesorabilmente ad accadere. 

«Pevché movto?»

Il tono della piccola Serena era innocente. Era una bambina di poco più di tre anni. Era normale che facesse così.

Il comportamento dell’Aeilta del passato e di quella del presente fu sorprendentemente simile. Entrambe rimasero diverso tempo a pensare. Faticavano a trovare un modo per spiegare qualcosa di tanto complesso a una bambina così piccola. Pensarci, forse le sarebbe anche stato d’aiuto per un compito di letteratura, che aveva proprio quello come compito. Parlare di come la morte venisse trattata da alcuni autori, dai media e come la tratti come affronti la perdita di qualcuno vicino.

Dopo una lunga pausa di silenzio, la ragazza aveva trovato delle parole che, probabilmente riteneva adatte a una bambina così piccola. 

«Perché qualcuno di molto cattivo ha voluto così.» 

«E ova?»

«E ora non potrà mai più rivedere i suoi amici e la sua famiglia.»

«Triste. Io non voglio Movta.»

«Nemmeno io.»

Qualsiasi cosa fosse, era finita. Tutto attorno a lei si era sciolto come se fosse stato versato dell’acido.

 E, un sistema automatico chiedeva alla ragazza se volesse rivivere tutto da zero o volesse uscire.

La ragazza scelse la seconda opzione.

Non poteva saperlo, ma la sua compagna di stanza, che si era accorta della sua assenza, e che, ben aveva compreso che no. Non poteva essere semplicemente andata in bagno. Era passato troppo tempo. Non riuscendo a prendere sonno, decise di mettersi a lavoro sul compito di letteratura. 

Era soddisfatta delle prime due parti. La terza parte non l’aveva nemmeno iniziata, ma, proprio in quel momento, le venne l’illuminazione.

Se penso alle parole che mi disse una ragazza molti anni fa e che non mi so spiegare come, mi sono venute in mente proprio adesso, posso dire di averla affrontata.

Una persona, dopo la sua morte, non può più vedere i suoi amici e la sua famiglia”. Questa frase, se ci pensiamo, non solo descrive quello che accade a una persona che perde la vita, ma vale anche al contrario. 

Secondo questo ragionamento, suo padre era morto. Ma a lei non importava.

Perché chiunque, in un certo senso, anche le persone ancora in vita, non possono più vedere un loro familiare, un loro amico, o che sia. 

Quindi, in un certo senso, ogni volta che perdiamo una persona cara, una parte di noi, perde la vita”

Mentre la ragazza scriveva, di getto quelle parole, Aelita aveva raggiunto le tre grosse querce di prima. Notò

«Posso tenere per me quello che ho visto prima? Per me e per una persona che non dovrei aver dimenticato?»

«Come vuoi. Poi lo diremo anche agli altri.»

La ragazza entrò nella prima delle tre querce. Il cartello, davanti ad essa, recitava “Fine del progetto Cartagine". Anno 1985”

Come fatto in precedenza, la ragazza entrò all’interno della quercia.

Chiaramente non si trovava all’Hermitage, ma in un grande laboratorio. Sembrava totalmente deserto e privo di finestre.

La maggior parte dello spazio era occupato da enormi tavoli in metallo, a loro volta occupati da computer, microscopi e strumenti che mai aveva visto fino ad allora.

Di colpo la stanza venne illuminata da una serie di luci al neon, che illuminarono il laboratorio di un triste bianco freddo, che lo faceva somigliare a un obitorio.

In quel laboratorio entrarono due persone, che la ragazza ben conosceva. I suoi genitori. Erano intenti a lavorare a qualcosa di cui non aveva idea. Probabilmente proprio il “Progetto Cartagine”.

La ragazza soppresse l’istinto di andare ad abbracciarli. Aveva già provato e compreso che quello non era altro una simulazione. Gli avrebbe attraversati come fantasmi.

«Se mio padre ha deciso di mostrarmi questo, che c’è un motivo. Mi chiedo quale.»

«Non so che dirti.»

Le rispose il ragazzo.

«Probabilmente voleva che tu scoprissi la sua storia. Ti consiglio di stare attenta e di guardare con attenzione.»

La ragazza non rispose. Si limitò a osservare quello che accadeva attorno a lei.

«Sono così stanco.»

Aelita guardò suo padre. Sebbene indossasse il tipico camice da laboratorio bianco, che gli dava un aspetto quasi autoritario, era ben evidente come l’uomo non dormisse da tempo.

«Quanto tempo serve ancora?» 

Aelita rabbrividì. Erano anni che non sentiva la voce di sua madre. Ma non poteva pensarci troppo. Suo padre le aveva risposto immediatamente.

«Al massimo due mesi. Tre, nella peggiore delle ipotesi. E finalmente finiremo questa storia di Cartagine. E quello sarà un grande giorno per tutti.»

Anthea si accorse immediatamente di come nemmeno il marito credeva a quelle parole.

«Cosa c’è che non va?»

Il tono della donna era estremamente preoccupato.

«Ho trovato quei documenti di cui avevamo parlato. È stato difficile.»

«E?»

«Purtroppo i nostri sospetti erano fondati. Salvare il mondo? Credevi davvero che quello fosse l'obiettivo del progetto? Anzi. Potrebbe essere la sua rovina. All’interno della Prima Città, è stata inserita, una zona oscura. Che noi non possiamo controllare. Nemmeno volendo. Temo che questa potrebbe essere usata per trasformare Cartagine in un'arma di distruzione.»

Similarmente al luogo precedentemente visitato, tutto attorno a lei si sciolse. Ma nessun sistema le chiedeva se voleva rivivere tutto da capo. Come se mancasse ancora qualcosa.

E in effetti era così.

Ora la ragazza si trovava in una stanza semplice ma accogliente. Un piccolo salotto con all’interno un divano e un tappeto. Le pareti della stanza erano ricolme di librerie ricolme.

I suoi erano seduti sul divano. 

Dando uno sguardo alla stanza, vide se stessa, quando ancora era una bambina di tre anni. Stava giocando con un pupazzo a forma di elfo. L’aveva riconosciuta. Era la sua bambola preferita. Sapeva di averla avuta da quando era molto piccola, ma non pensava così tanto.

I suoi genitori avevano iniziato a discutere. L’argomento era il medesimo di poco prima. Il progetto Cartagine.

«No, non me la sento. Sai benissimo che per questo progetto abbiamo sacrificato tutto. Aelita è nata qui, in una base militare. Sono mesi che non vediamo nessuno, al di fuori di militari e colleghi.

E per cosa? Per creare un’arma di distruzione? No. Non lo permetterò.»

La donna cercò di calmarlo.

«Attento. Potrebbero sentirci. E sai cosa significa. Non siamo sicuri di niente.»

«Non me ne importa!»

L’uomo alzò non poco il tono di voce.

«Anche se mi sentissero… devono sapere la verità.Non abbiamo costruito Cartagine per questo. Non posso permettere che venga usata come arma.

Dovevamo controllare le comunicazioni elettriche per aiutare tutte le persone che si trovano in difficoltà economiche. Non mi importa dove vivano o cose del genere. Io non voglio che venga usata come arma di controllo per una guerra. Solo il pensiero di vedere il mio nome tra chi ha progettato un’arma che porterà alla morte di umani e Pokémon, mi fa ribrezzo.»

La donna lo strinse in un forte abbraccio.

«Sono d’accordo con te. Ma ora è troppo tardi. Saranno in grado di concludere il progetto senza il nostro aiuto. E poi? Sai benissimo che ormai siamo una famiglia. Non puoi non pensare ad Aelita. Sai meglio di me che esporsi è sempre un grosso rischio.»

I due stettero in silenzio per un tempo enorme, mentre fissavano la piccola Aelita, intenta a giocare con quella bambola.

Finalmente l’uomo trovò la forza di parlare di nuovo.

«Possiamo comunque scappare. Non so ancora come, ma un modo per farlo, lo troveremo. Prima di fuggire distruggeremo tutto. Ci prenderemo quel che ci serve e scapperemo con Aelita.

Faremo in modo che il nostro lavoro non venga perduto, costruiremo la nostra Cartagine e la utilizzeremo solo a fin di bene.

Non resta che trovarle un nome.»

Solo in quel momento la ragazza vide il sistema che le chiedeva se volesse uscire o rivedere tutto da capo.

La ragazza scelse la prima opzione e, come per magia, si ritrovò davanti alle tre querce.

Entrò in quella al centro.

Sul cartello la scritta “Una vita in incognito. Anni 1985-1988”

Ora la ragazza si trovava all’esterno di una base militare. Nonostante fosse una ricostruzione, riusciva perfettamente a percepire il freddo di quel giorno. Era caduta tanta neve, e il cielo ne prometteva altra.

L’ambiente era illuminato, in maniera alternata da diversi enormi fari, per sopprimere ogni tentativo di fuga.

Ovunque uomini giravano per la base, scortati da esemplari di Houndoom.

In cielo volavano numerosi elicotteri, che producevano un gran fracasso.

Tutto in quell’ambiente sembrava mettere pressione. Era una sensazione difficile da spiegare. Ma non ci si poté dedicare a lungo. Ben presto la sua attenzione venne attratta da due sagome. Un uomo e una donna, che correvano verso una delle Jeep.

La ragazza fece altrettanto, accovacciandosi nel sedile posteriore.

Guardano meglio i due, si accorse di come entrambi indossassero dei pesanti cappotti e un passamontagna. In particolare, la sua attenzione venne attratta dall’uomo. Indossava un cappotto enorme. 

Saliti a bordo, la donna si tolse il passamontagna. L’uomo no. Come se dovesse proteggere la sua identità ad ogni costo.

La ragazza poté finalmente vedere in viso la donna. E, non sapeva spiegarsi come, ma le sembrava un volto familiare.

«Professore. Lasci fare a me. Stia tranquillo.»

L’uomo non rispose.

Abbassò leggermente la zip del giubbotto e, rivolgendosi al suo interno disse solo cinque parole.

«Sta buona. Presto finirà tutto.»

Ora tutto era coperto dal rumore del motore della Jeep. un suono basso e ripetitivo.

Il mezzo attraversò il cortile della base, fino al confine della stessa, protetto da diverse guardie armate. Sembravano tutte uguali. Abiti mimetici e mitra a tracolla.

Una di esse puntò l’arma contro i due. L’altro si limitò ad avvicinarsi alla conducente.

«Buonasera Maggiore Steinback.»

«Riposo, Soldato. Piuttosto. Aprite la porta. Ho fretta.»

«Mi spiace comunicarle che a causa di una violazione nella sicurezza, per questa sera sono vietati ingressi e uscite.»

«Senta.  È un ordine del colonnello in persona. Pensa che quell’uomo sia vestito in quel modo perché ha freddo?  O mi fa passare o sa dove glielo metto quel mitra?»

«Sissignara. Provvedo immediatamente.»

L’uomo, intimorito dal tono di quella donna, fece immediatamente alzare la sbarra.

La Jeep corse a gran velocità, lontano dalla base.

Quando furono abbastanza lontani, finalmente il professore poté togliersi il passamontagna.

«Non posso non essere preoccupato. Io e Aelita siamo al sicuro, ma Anthea…»

«Non si preoccupi.»

La donna cercò di essere il più gentile possibile.

«Ci siamo già messi al lavoro per ritrovarla. Stiamo indagando su chi l’ha rapita e sul motivo per cui l’abbia fatto. Siamo appena all’inizio, ma glielo prometto. La troveremo. Intanto lei è in salvo e siamo riusciti ad avere quel che le serviva. È già qualcosa.»

Questa volta la transizione fu più delicata. La ragazza si trovò, di punto in un prato. Le bastò alzare lo sguardo, per riconoscere quel luogo. L’Hermitage.

Allora quella villa, di inizio secolo, di tre piani, con un basso garage appoggiato sul lato destro, aveva tutto un altro aspetto. 

Probabilmente era stata ristrutturata da poco.

Era sempre inverno, ma dovevano essere passati degli anni. Forse era proprio il momento in cui lei e suo padre si erano trasferiti lì. La sua ipotesi era rafforzata dalla presenza di un cartello con scritto “venduto”. 

Aveva visto suo padre e quella donna scendere dal furgone dei traslochi, appena arrivato sul posto. 

L’uomo aiutò la figlia a scendere dal furgone. Sembrava che avesse paura di cadere dal sedile, ora che la porta era aperta.

L’argomento della conversazione dei due, a distanza di tanto tempo non era cambiato. 

«Credo che potrete stare qui per un po’.»

Esordì la donna, questa volta vestita in borghese.

Non fece in tempo a scendere che corse immediatamente ad aprire il vano di carico e a iniziare a scaricare gli scatoloni.

«Penso sia positivo per Aelita, è il terzo trasloco in pochi anni. Penso che un po’ di stabilità le faccia bene ma…

«So cosa stai per dire.»

Lo anticipò la donna.

«Non l’abbiamo ancora trovata. Sappiamo che è stata rapita da un soldato chiamato Mark James Hollemback. Allora era un militare che lavorava nella base. Al momento del rapimento aveva ventun’ anni e serviva nell’esercito da tre. Eravamo sulle sue tracce, ma…»

«Ma?»

Chiese il professore. 

«Ma… ha cambiato identità e si è unito a un’organizzazione terroristica e ha fatto perdere le sue tracce.»

Aelita non sapeva che fare. Da una parte sapeva chi aveva rapito sua madre. Sapeva almeno come si chiamava. E sapeva che faceva parte di un’organizzazione terroristica. Quindi non era pensabile agire senza avere le idee chiare.

«Ho anche una buona notizia per il tuo progetto. Mi sono messa in contatto con il proprietario di un edificio poco lontano da qui. Una ex fabbrica della Renault.

Potremo sfruttare i piani sotterranei come laboratorio. Non voglio darti false speranze, ma il proprietario sembra molto interessato al progetto.»

«Bene. Ma ti prego. Non smettere di cercarla.»

L’uomo estrasse il pendente da sotto il maglione.

Era lo stesso pendente che Aelita aveva trovato nel mobiletto. Che suo padre aveva voluto che lei trovasse.

«So che è viva e che sta bene. Me lo dice questo pendente.»

«Certo. La ritroveremo ad ogni costo.»

A questo punto riapparve la schermata che chiedeva alla ragazza se voleva rivivere tutto o uscire. Lei scelse di uscire.

E si ritrovò, di nuovo, di fronte alle tre querce.

Si avvicinò alla terza. E ne lesse il cartello.

«Entra qui solo se sei veramente pronta.»

La ragazza rimase a pensare alcuni istanti.

«Sono pronta.»

La ragazza fece per entrare, mentre, nel mondo reale, il ragazzo guardò l’ora nel suo telefono.

«Sono le cinque del mattino. Tra un paio d’ore Ulrich e Yumi dovranno andare alla stazione. Forse è meglio tornare alla base. O potrebbero insospettirsi. Ormai i prof ci conoscono. Se loro sono fuori, è meglio per noi restare dentro. E poi lo scanner mica scappa.»

«Hai ragione. Meglio evitare di attirare troppo l’attenzione.»

Jeremy avviò le procedure di rientro e, nel mondo virtuale, il corpo della ragazza iniziò a smaterializzarsi, per poi riapparire nel mondo reale.

L’espressione della ragazza diceva tutto. Era stanca perché aveva dormito poco e sconvolta per tutto quello che aveva scoperto.

«Hai ragione, ho già molto da metabolizzare. Ma d’altra parte ti ringrazio per avermi permesso di farlo.»

I due, facendo la massima attenzione a non fare rumore, tornarono al collegio e quindi nelle rispettive stanze. Jeremy non ebbe problemi, non con Ash, che dormiva. Xana si era accorto della sua assenza, ma dai suoi calcoli aveva la certezza matematica che la sua assenza aveva avuto a che fare con qualcosa di suo interesse, per cui la cosa migliore da fare era lasciare che continuasse.

«Ma dov’eri? Mi hai fatto preoccupare.»

Aelita comprese subito di non esser stata altrettanto fortunata. Non poteva di sicuro raccontarle la verità. Ma non poteva nemmeno dirle di essere andata in bagno. Era una scusa che non reggeva.

«Mi sono alzata per andare in bagno e non ti ho trovata nel letto. E non sono più riuscita ad addormentarmi. Mi hai fatto preoccupare tantissimo.»

«Ho avuto un attacco di sonnambulismo.»

Capì che la scelta migliore era quella di raccontare almeno parte della verità.

«E quando mi sono svegliata, dopo aver capito quel che era successo, ho deciso di rimanere 

dov’ero per evitare di svegliarti.»

«Insomma. Ci siamo preoccupate l’una per l’altra, possiamo fingere che non sia successo nulla, ma… dov’è che sei andata che sei così messa male?»

Aelita non si era ancora vista. Aveva gli occhi rossi ed era tutta impolverata.

«Nella soffitta. Non chiedermi come ci sono arrivata, ma…»

«Ok, capisco. Ma adesso riposati.»

Aelita si sdraiò sul letto. Non riusciva a dormire, nonostante la stanchezza. Non vedeva più la compagna di stanza, che,proprio il giorno prima, aveva chiesto se potesse essere permanentemente la sua compagna di stanza, con gli stessi occhi. Ma non era una cosà così facile da dire.





Beh, che dire. Abbastanza inaspettata come cosa, no? Beh, ovviamente mica è finita qui. Solo che, beh, si può finalmente intuire perché abbia dovuto per forza di cose far sì che Serena e Ash stessero insieme. O anche perché far sì che a essere posseduta da Xana fosse Lucinda. 

La sola alternativa a Serena sarebbe stata Lilya (con Chloe esclusa a priori) ma purtroppo non avrebbe avuto vita facile per due motivi. Il primo è che non avrei trovato alcuna giustificazione per non fare in modo che Odd uscisse con lei. Sarà banale ma è così. Il secondo è che sarebbe stato difficile giustificare delle cose che vedremo più avanti.

Alternative a Lucinda? Alla fine della fiera solo una, e non serve che vi dica chi, ma sempre per qualcosa che avverrà più avanti, non sarebbe stata adatta quanto lei.  




   
 
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