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Autore: Elisa_Pintusiana_Snape    11/04/2023    1 recensioni
Questa è la storia di un cameriere e del suo signore, di un uomo dedito al servizio per natura e di uno destinato al potere. La storia di Massimo ed Evaristo, prima dell'arrivo in casa Fritzenwalden
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Maximo Augusto Calderon De La Hoya
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mio signore

“Io sono semplicemente il suo cameriere, figlio e nipote di camerieri”

In tutti questi anni ho sempre servito la famiglia reale con dedizione, con la massima cura. Sono stato istruito a dovere per adempiere a questo ruolo; la mia famiglia è al servizio della nobile stirpe dei Calderon De La Hoya da generazioni. Siamo sempre stati il cuore pulsante di quel palazzo.
Sempre attenti, sempre informati, sempre pronti.
Mi hanno insegnato che avrei dovuto imparare a capire le esigenze dei miei signori, ancora prima che essi potessero esprimere una richiesta.
Dopo gli studi avevo preso immediatamente servizio presso il palazzo reale, ma successivamente i miei servigi erano stati richiesti presso la dimora del conte Adalberto e della contessa Anna.
Il loro unico erede, il conte Massimo, in quel periodo stava studiando in Europa per perfezionare la sua conoscenza delle lingue straniere. Non lo conobbi per diversi anni, tutto ciò che sapevo di lui erano informazioni che avevo appreso da altri membri della servitù. Solo alcune foto incorniciate mi davano un’idea di come fosse l’aspetto di quel ragazzo, e la prima volta che vidi un suo ritratto sorrisi pensando che avevamo lo stesso colore di capelli.
Poi improvvisamente, un pomeriggio di inizio estate, la contessa Anna cominciò a correre nell’ampio giardino in direzione del marito, mai nessuno di noi l’aveva vista comportarsi in modo così entusiasta, una donna fine e sempre posata come lei che correva sull’erba con una lettera in mano gridando il nome del marito.
Il giovane conte stava per tornare a casa, i suoi studi erano conclusi ed era tempo di fare ritorno a Kricoragan dai suoi cari. Sebbene il conte Adalberto fosse un uomo piuttosto serio non poté non gioire di quella splendida notizia, dopotutto parlavamo del suo unico figlio.
Il palazzo cadde in preda ad un dolce e frenetico delirio: ovunque ci si girasse c’erano decine di persone impegnate in una qualche attività, la contessa aveva fatto chiamare un catering per il piccolo ricevimento che avrebbe accolto il figlio ed io, in quanto maggiordomo, ero incaricato di fare in modo che tutto andasse per il verso giusto, senza intoppi. Avevo solo un paio d’anni di esperienza, ma era noto a tutti quanto fossi capace di amministrare il personale e quanto fossi portato per questo tipo di lavoro.
E un pomeriggio il giovane conte arrivò.
Il personale domestico era disposto in fila lungo la gradinata dell’ingresso, tutti rigorosamente in attesa, composti e ordinati come su mio preciso ordine. La limousine si fermò proprio di fronte a noi e ne uscì un giovane di bell’aspetto, gli occhi cerulei e un ciuffo di capelli mori che gli cadeva sul viso in modo scomposto.
Abbracciò i suoi genitori e iniziò la festa che era stata preparata in onore del suo arrivo.


Era un ragazzo singolare, aveva pochi anni meno di me, eppure in tanti atteggiamenti pareva un bambino. Se c’era una cosa, però, che avevo imparato lavorando a stretto contatto con i nobili, era che l’agio e la ricchezza fanno crescere le persone più tardi, tanti di loro non crescono mai.
Ma il conte Massimo non mi era mai parso colmo di quella boriosa aria di superiorità e noia che avvolge quelli del suo rango, né certamente possedeva il rigore del padre o i vizi della madre. Era un ragazzo pieno di luce negli occhi, assetato di vita, in cerca di avventure, ma dopo aver viaggiato per tutto il mondo era evidente che quel palazzo gli andasse stretto.

Non ci avevo mai parlato, giusto qualche parola scambiata solo perché ero il maggiordomo della casa, sempre che quelli si possano considerare dei dialoghi.
Ma una sera lo trovai seduto nell’ampia veranda, era poggiato distrattamente al tavolo e torturava i petali di un fiore, fu istintivo per me avvicinarmi e domandare se andasse tutto bene.
Non avevo mai visto i suoi occhi così tristi.
“Siediti Evaristo” mi rispose e io, più per deformazione professionale che per altro, acconsentii.
Rimasti stupito per un attimo che ricordasse il mio nome.
“Desiderava qualcosa, mio signore?”
Lui mi sorrise “Volevo solo parlare con qualcuno, qua mi sento terribilmente solo”.
Cominciò a raccontarmi centinaia di dettagli della sua vita, parlò per ore, desideroso di sfogarsi e tirar fuori ogni turbamento dal suo cuore. Io ascoltai, di tanto in tanto mi permettevo di elargire un umile consiglio.
“Grazie di tutto” disse alla fine
“E’ stato un piacere esserle d’aiuto”
Ricordo che era molto tardi, gli chiesi di rincasare, ma lui non ne aveva intenzione.
“Si copra, o rischierà di ammalarsi” gli dissi posando una coperta vicino a lui.
Il primo vero gesto disinteressato nei suoi confronti.
Il primo di molti.

Avevamo un bel rapporto, complice, per quanto il mio rigido ruolo me lo permettesse. Lui mi trattava con gentilezza, ma una gentilezza diversa da quella che mi riservavano i suoi genitori o gli altri nobili: la gentilezza di chi davvero è interessato a te.
Un giorno mi raccontò che avrebbe desiderato mettersi in viaggio di nuovo, che sarebbe voluto andare in Argentina e chiese espressamente a me di seguirlo.
“Ti farà bene cambiare aria, vivere fuori dai confini del Krikoragan!” mi aveva detto
Accettai. E lo feci perché sapevo che difficilmente avrei sopportato di vivere tra quelle spesse mura senza di lui, ora che avevo scoperto quanto dolce poteva essere la sua compagnia.

In Argentina eravamo solo io e lui, non aveva voluto assumere un personale di servizio fisso, c’erano degli addetti che si recavano presso la villa per qualche ora al giorno, quando veniva loro richiesto, e poi se ne andavano. Massimo aveva vissuto anni circondato dalle persone, decine e decine di estranei che lo squadravano ogni giorno. Conosceva meglio il viso delle cameriere che quello dei suoi genitori.
Ma in Argentina aveva deciso che tutto sarebbe stato diverso: non aveva di certo rinunciato al lusso del dolce far niente, ma non voleva più vivere circondato da persone che non conosceva davvero.
Io ero l’unico che avesse il permesso di vivere lì.
Ero il suo maggiordomo, il suo consigliere, la sua unica compagnia sincera.
Quante volte lo avevo salvato dalla persecuzione di qualcuna delle sue amanti, e altrettante volte avevo dovuto escogitare qualche scusa per evitare che i mariti di queste donne lo venissero a cercare.
Lo rimproveravo sempre per questo atteggiamento sconsiderato, ma lui scuoteva la testa e rideva.
Parole sprecate al vento, ma per lui le sprecavo volentieri.

Nessuno dei due avrebbe mai sospettato che la vita di Massimo, e di conseguenza anche la mia, sarebbero cambiate così tanto. Dopo l’incidente di Federico Fritzenwalden il conte si era ritrovato a gestire un’intera famiglia. Lui, uno scapolo felice e timoroso dell’amore, aveva da quel momento la responsabilità di sei ragazzini, i fratelli di quell’uomo che gli aveva salvato la vita.
Ed era dovuto piombare lì come un estraneo, a imporsi in una casa che non conosceva, con persone che non avevano nulla a che vedere con lui; lui che si era allontanato dai rumori e dal caos di un’abitazione piena di estranei ora vi si ritrovava catapultato nuovamente.
Gli stavo vicino in quel momento, come mai prima di allora.
Perché Massimo era un uomo intelligente, capace, ma nessuno gli aveva insegnato come si ama davvero. E come poteva impararlo così velocemente? Come avrebbe potuto sanare il cuore distrutto di quei ragazzi orfani, provati di nuovo dall’ennesima tragedia?
Era un compito troppo arduo ed io lo osservavo passeggiare per quella casa col timore che sarebbe crollato da un momento all’altro, mentre qualcuno dei fratelli lo trattava come un usurpatore.
Usurpatore di cosa poi? Di un ruolo che non aveva chiesto?
Poi, piano piano, le cose erano andate sempre meglio. Entrambi avevamo cominciato ad abituarci a quella caotica famiglia, a Greta, a Florencia, ai pasti con una decina di commensali, alle favole della buonanotte, agli zaini preparati per la scuola.
Ci eravamo abituati ed avevamo finito entrambi per innamorarci di quella stupenda famiglia.
Ma il mio signore si era innamorato un po’ più di quanto avessi fatto io: per la prima volta avevo visto in lui lo sguardo che solo un uomo innamorato può avere dipinto in volto.
E il motivo era Florencia, quella ragazza confusionaria e colorata.
Lei che era tutto il contrario di me: rigore contro sregolatezza, trasparenza contro sotterfugi, passività contro combattività. Lei aveva rubato il cuore del mio signore ed io, tra mille vicissitudini, osservavo il loro amore sbocciare, anche se ero molto timoroso. Massimo aveva spezzato tanti cuori, ma adesso il suo giaceva nelle mani di Florencia, e che sarebbe successo se lei glielo avesse spezzato? Come ne avrei raccolto tutti i cocci?

Un giorno la signorina Delfina, presa da un moto di incontrollabile rabbia, mi sputò in faccia una verità che da anni temevo di sentire pronunciata ad alta voce: io non ero che un valletto, troppo focalizzato sulla vita di Massimo per occuparmi della mia, troppo preso da lui, dalle esigenze di chiunque in quella casa, fatta eccezione per le mie. Ero un maestro nel mio lavoro, ma probabilmente mi rifugiavo in esso per timore di vivere davvero, avevo scelto di essere coprotagonista della mia stessa vita.
La consapevolezza di ciò che aveva detto la signorina Delfina mi giunse definitivamente quando Florencia partorì i suoi figli.
Che ruolo potevo mai avere in quel contesto che pure mi creava tantissima gioia?
Ero un valletto, un cameriere, un dipendente.
E la gioia che sentivo non avrebbe dovuto essere la mia, ma quella della loro famiglia, una famiglia a cui non appartenevo.
Io ero solo un cameriere, figlio e nipote di camerieri.
Ed erano proprio queste le esatte parole con cui mi rivolsi nei confronti di Massimo quando mi chiese di entrare nella stanza dell’ospedale a conoscere i suoi figli.
Avevo sempre tenuto a Massimo con una dedizione tale da sembrare sempre la caricatura di me stesso. Fino a quel momento le mie premure avevano avuto un senso: eravamo solo io e lui. Per quanto potesse sembrare distaccato nei miei confronti agli occhi degli altri, tra noi c’era un rapporto quasi fraterno. Ma temevo che da quel momento si sarebbe spaccato: aveva una moglie, dei figli, per non parlare di tutti i ragazzi Fritzenwalden.
Dove poteva essere, nel suo cuore, il posto per un umile cameriere?
Ma poi Massimo mi illuminò cacciando via tutti i pensieri negativi che mi attanagliavano la mente, tutte le malvagie parole che Delfina aveva speso nei miei confronti.
“Evaristo, tu puoi andare dove vuoi e lavorare dove desideri. Sei una persona libera. E’ da tempo che non sei più il mio maggiordomo, sei il padrino di uno dei miei figli e questo è molto più importante. Sto cercando di dirti che voglio che rimani qui con tutti noi, come parte di questa famiglia”
E mai regalo più grande mi fu fatto nella vita: la consapevolezza che tutto l’amore speso negli anni era stato accolto e ricambiato.


 

  
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