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Autore: RLandH    20/04/2023    1 recensioni
Future!Fic| Spoiler post-Croocked Kingdom e Rules of Wolf| Kaz & Inej
“Ho appena ucciso un uomo Inej, io sono questo” le aveva detto, alzandosi dal letto e recuperando il bastone, certo che le sue gambe non lo avrebbero sostenuto. “Nessuno ti ha mai chiesto di essere diverso, Kaz” aveva replicato lei, calma, “Quello che intendo dire è che sono il genere di uomo che pensa che il modo corretto di proteggere suo figlio sia quello di uccidere un uomo” aveva detto.
La notte che Inej mette al mondo una vita, Kaz ne prende una ...
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inej Ghafa, Kaz Brekker, Nuovo personaggio
Note: Kidfic, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Indovinate chi ha due pollici opponibili e non sa scrivere Kaz Brekker? Sì, io.

J O R D A N

 

Kaz si era arrampicato utilizzando l’impalcatura in legno dipinto di bianco con cui erano sistemati le Succulenti per poter creare una parete vegetale.

Ed il bastone, il becco della testa di corvo era stata rimodellata perché potesse scalfire meglio la pietra, il mattone e le ossa.

La gamba era un dolore atroce, ma Kaz Brekker non avrebbe permesso alla sua gamba, alla sua agonia, di vincere quella sfida.

Aveva raggiunto la prima finestra, del piano superiore, trovandola aperta – un’imprudenza piuttosto sciocca per il padrone di casa, specie per quella stagione, quando il freddo dell’inverno cominciava a gelare le carni e le ossa. Ketterdam era umida, era fredda e l’inverno nelle strade aveva ucciso più uomini della Piaga della Regina.

Ma Kaz aveva visto la trappola ed era salito fino al piano superiore, con fatica, con un dolore così lancinante da desiderare quasi che la carne si sfilacciasse e l’osso si spezzasse, ma ancora una volta, Kaz Brekker non avrebbe permesso a nulla di fermarlo.

Aveva raggiunto le imposte della finestra del secondo piano, trovandole blindate e si era fermato, sedendosi con fatica sul cornicione.

Non era facile, ma non impossibile ed aveva forzato l’apertura con i grimaldelli ed aveva ricordato quasi nostalgico la prima volta che si era introdotto in quella casa, gustandosi quello che avrebbe rubato e la gloria dell’averlo fatto, ma non quella volta.

Aveva aperto le imposte e con grazia le aveva fatte scorrere, permettendo un’apertura, si era assicurato di aprire lo sportello, cercando di non fare rumore ed era scivolato dentro, piano, felino.
“Sorprendentemente silenzioso” lo aveva preso in giro una voce, il secondo dopo il rassicurante buio in cui era avvolto si era assopito in un chiarore rassicurante; una lampada ad olio.

“Ciao Inej” aveva detto lui, forzando calma che non aveva.

“Ciao Kaz” lo aveva preso in giro lei, c’era un tono frizzante nella sua voce, felice.

Ghezen, Kaz aveva amato la risata di Inej prima, ma poi, poi, dopo che aveva preso il mare la prima volta, aveva pensato fosse il suono più bello e sublime.

Un suono così dolce, così felice, da aver sciolto anche il suo marcio, marcio, cuore.

“Jesper ti aveva lasciato finestra aperta al piano di sotto” aveva considerato Inej, mentre Kaz si era avvicinato a lei, la vedeva nella penombra della lampada, semi-distesa sul letto grande.
“Non era al piano di sotto che volevo andare” aveva risposto con ovvietà lui, sedendosi all’angolo del letto, non lontano da dove vedeva il bozzolo dei piedi della donna.

“Volevo lasciare aperta questa finestra, ma Marya ha detto che era meglio di no” aveva sospirato lei, la sua voce era ancora gentile. “Non è una serratura che avrebbe potuto fermarmi” aveva ammesso lui calmo, “Avresti potuto suonare alla porta, passare da quella. So non fa parte del tuo fascino” era stata spietata Inej, ma anche dolce. “Wylan ha detto che non attraverserò mai il suo uscio” aveva risposto placido lui, “Forse questa volta te lo avrebbe permesso” aveva considerato Inej.

Forse sì.

“Mi dispiace di non essere arrivato prima” aveva detto calmo lui, cercandola nella luce leggera della lampada ad olio, sulla superficie liscia del comodino. “Ah, ti dispiace? Davvero, Kaz?” aveva chiesto

Inej, c’era gioco nella sua voce, ma era anche subdola, una piccola accusa.
“Dovevo fare una cosa, Inej, era importante” si era giustificato. Perché lo era.

“Sono poche le cose che mi sembrano più importanti di questa” era stata spietata quella volta, una Inej fredda e cruda, un ibrido della ragazzina del Serraglio e del terribile spettro della vendetta. “Dovevo uccidere un uomo e dovevo essere sicuro fosse morto entro questa sera” aveva chiarito, “Il bastone è ancora sporco di sangue, vedo, sì, ed anche la camicia” aveva considerato lei, pratica. “Ho cambiato la giacca” si era giustificato, non aveva avuto tempo di tornare alla Stecca o altrove, sapeva che Inej non mentiva, era importante.

“L’hai rovesciata solamente” lo aveva stuzzicato lei, “Era più pratico” aveva considerato. A Kaz piaceva vestirsi da mercante, metteva più inquietudine che il suo aspetto fosse ripulito, dritto, come uno di loro e non come uno dei signori del barile, colorati, variopinti, stravaganti. Kaz Brekker metteva a disagio i signori per bene di Ketterdam, perché urlava in ogni sul freddo e calcolato atteggiamento non io-sono-come-voi ma voi-non-siete-diversi-da-me.

Ma sapeva che nessuno dei ben pensati dei quartieri alti aveva una giacca doppia faccia che potesse essere girata all’occorrenza, quando mancava il tempo per lavare il sangue o cambiarsi d’abito.

“Chi era l’uomo, Kaz?” aveva chiesto Inej con una punta di innocenza, con gli occhi scuri come il caffè ma scintillanti sì, caldi. Un tempo lo avrebbe saputo, perché era il suo spettro, la sua ombra, la sua santa protettrice dai tetti, ma non era più nessuna di quelle cose.
Era ancora sua in un certo senso, era la sua Inej, come lui era il suo Kaz.

Senza armature, il più delle volte – ma non abbastanza.

Come quella sera, quella sera aveva messo i guanti e non era ancora pronto a toglierli.
Doveva però

“Non è importante, non più” aveva risposto calmo lui.

Hai detto che era importante” aveva ribadito lei, Inej affilata come le sue lame, “Era importante che morisse, che morisse questa notte non che lui fosse importante” aveva replicato Kaz. Inej lo aveva guardato con un cipiglio, un cipiglio giudicante e poco comprensivo. “Jonathan Boreg” aveva detto calmo, cugino del più celebre Nathen.

“Boreg è ad Hellsgate” aveva considerato Inej, “Mi sono assicurata di accompagnarlo personalmente lì” aveva detto, cinque mesi prima. “Boreg era ad Hellsgate, fino a ieri … Il giudice ha valutato che fosse un caso di no-luogo-a-procedere” aveva detto diplomatico, anche arrabbiato.
Inej aveva sospirato, carica di dolore ed insofferenza, ma non aveva pianto, differentemente dalla prima volta che Kaz le aveva detto che uno dei ricchi uomini che aveva costruito la sua fortuna sulla carne e le lacrime di povere anime in pena. ‘Che senso ha per me prenderli se possono pagarsi l’uscita?’ ma era stato solo la prima volta, poi non aveva più permesso che questo la oscurasse.
“Aveva giurato che mi avrebbe sventrato come un pesce” aveva valutato Inej, la sua voce era calma e piatta, con lo sguardo scuro distante.

Doveva morire, Inej” aveva stabilito, “Posso difendermi, Kaz Brekker” aveva considerato lei. La prima volta Kaz le aveva dato una lama e le aveva detto che non avrebbe potuto difenderla sempre, ma Inej non ne aveva bisogno. “Lo so, ma lui doveva morire. Stasera, non domani, non tra un mese. So che preferisci la giustizia, ma questo non è un rischio che sono disposto a correre, non da oggi” aveva replicato letale lui. “Stai pensando ad Alby Rollins, vero?” aveva chiesto lei, con una punta di acredine che non le stava bene, Kaz aveva annuito, “Sì, pensavo ad Alby Rollins ma non nel modo in cui pensi tu” aveva ammesso.

“Leggi nella mente?” aveva domandato Inej, ma la sua voce raschiava dolcezza, “Oserei dire che mi sei divenuta comprensibile” aveva detto, allusivo, “Nina direbbe che non è qualcosa che si dice ad una donna” aveva considerato lei, “Nina è dall’altra parte del mare per poter dire qualcosa al momento” aveva risposto di getto, “Mi dispiace che non fosse qui” aveva considerato.
“Immagino che essere la regina consorte di Fjerda possa risultare un impedimento accettabile” aveva accettato Inej, “Dovevo uccidere Boreg, Inej, non potevo delegare” si era giustificato Kaz.
Non poteva affidare il lavoro a nessuno, non perché non ne fossero capaci, i suoi scarti lo sarebbero stati, ma perché doveva essere lui. Doveva essere chiaro.

“Doveva essere un messaggio sì” aveva riconosciuto Inej, “Doveva essere noto a tutti che nessuno può usare il cuore di Kaz Brekker contro Kaz Brekker” lo aveva scimmiottato un po’.

Kaz le aveva sorriso stanco, “Su questo temo, Inej, non concorderemmo mai. L’amore è debolezza, lo è per me, come lo era per Pekka Rollins, allora devo assicurarmi che la gente comprenda che la mia debolezza è qualcosa di molto più pericoloso della mia calma” aveva detto chiaro.
Lo aveva provato ad insegnare a Jan Van Eck, quando aveva preso Inej e lui aveva preso Alys ed il bambino non ancora nato, “Io voglio che il mondo sappia che un Kaz Brekker disperato è qualcosa che non dovrebbero mai augurarsi” aveva aggiunto.

“Io-io-io-io” aveva replicato offesa Inej.

Kaz lo aveva guardato con un principio di rabbia, in un altro tempo avrebbe lasciato cadere la conversazione, avrebbe lasciato che Inej traesse le sue conclusioni, le più cattive che potesse pensare e Kaz avrebbe accettato, perché era parte del suo personaggio, della sua armatura.

‘O senza la tua armatura o non ti avrò affatto.’

E Kaz aveva bisogno di appartenerle.

“Non è perché non voglio che vi usino per ferirmi, ma perché non voglio che vi feriscano” aveva detto chiaro, “Non voglio pensare che un ragazzino come ero io pensi che per sconfiggermi possa rapirvi, torturarvi, uccidervi” aveva stabilito.

Kaz aveva bisogno di essere così spaventoso, così mostruoso, così potente, che neanche un disperato ragazzino affamato di vendetta come era stato lui avrebbe potuto pensare di mettere in piedi un numero come quello che aveva fatto con il giovane Alby Rollins. Avrebbe mentito se non avesse detto che Pekka Rollins non era stato solo un nemico da abbattere, un sistema, ma anche un modello, da eguagliare, da superare, da incenerire.

Pekka Rollins era stato il re del Barile e Kaz aveva strappato quel titolo dalla sua fuga, dal cadavere spirituale dei suoi leoni e non avrebbe permesso a nessuno di farlo scappare da quella città, di ferire chi amava. Kaz Brekker era nato a Ketterdam, le acque del mare erano stati il suo liquido amniotico, la chiatta del mietitore la carne del ventre che lo aveva generato e le vie della città l’abbraccio freddo di una madre crudele. Ketterdam era sua e sarebbe stata di Inej, quando avrebbe gettato l’ancora per l’ultima volta.

E maledetto l’uomo che avrebbe pensato di ferirla, così doveva essere ovvio. I soldi dei Boreg potevano pagare la giustizia del popolo, ma non quella di Kaz Brekker.
E Boreg aveva pianto, offerto oro, pregato e supplicato.

Inej aveva sorriso, calma, “Io lo so, ma sono lo stesso arrabbiata” aveva detto, “Poteva essere fatto domani, dovevi essere qui” lo aveva rimproverato.

Probabilmente sì, ma Kaz non avrebbe poi potuto pensare a nient’altro che a quello che avrebbe dovuto fare.

“Tua madre e tuo padre?” aveva chiesto poi, quasi disperato, per cambiare argomento, “Nella stanza accanto, mia madre voleva dormire qui, ma le ho detto che saresti venuto tu a farmi compagnia” aveva ammesso lei. “Credo sia molto arrabbiata con me” aveva valutato Kaz, Inej aveva riso, “Sì, penso che per un po’ non potrai godere della sua cucina” aveva confermato prima di fermarsi per un’altra risata, “Tranquillo Kaz, mia madre crede che tu possa camminare sulle acque” aveva ammesso.
Se Inej lo avesse voluto, Kaz avrebbe imparato a fare anche quello.

Inej aveva allungato una mano verso di lui, invitandolo a prenderla, ad avvicinarsi e Kaz l’aveva assecondata. Quando era stato alla sua portata, Inej ne aveva approfittato per sfilare uno dei guanti di cuoio neri, Kaz non aveva avuto nessuna maligna reazione, “Grazie” aveva detto, porgendole l’altro polso, così che lei sfilasse anche il secondo.

Non era sicuro che sarebbe stato capace di sfilarsi i guanti da solo. Inej aveva stretto la sua mano, aveva pigiato il pollice sul suo palmo aperto e i polpastrelli delle altre quattro dita sul dorso, una stretta sicura, piacevole, che aveva regalato brividi di calore sulla pelle di Kaz. Aveva chiuso le dita sul pollice, per bearsi della stretta. “Hai … hai fatto qualcosa di incredibile oggi” aveva ammesso lui.
Mentre Kaz pestava a morte un uomo, Inej faceva un miracolo, un miracolo anche per il cuore arido del suo petto.

“Aspetta di vederlo, Kaz, prima” aveva considerato Inej.

“Vederlo?” aveva inquisito lui, “Oh, sì, dovremmo dire a quella indovina Suli a Zentsbridge che ha decisamente sbagliato” aveva stabilito Inej, “Ti avevo detto fossero solo stronzate, se qualcuno potesse vedere davvero il futuro, regnerebbe su tutti gli uomini” aveva replicato.
Si poteva indovinare, si poteva osservare e analizzare, ma nessuno, neanche la più capace sensitiva poteva prevedere così chiaramente il futuro. O sarebbe stato Re di tutti Re, anche la Regina Drago di Ravka avrebbe dovuto chinare il capo a chi prediceva ogni sua azione.

“Kaz” lo aveva richiamato Inej, con fermezza, lui l’aveva guardata e lei aveva continuato: “Vuoi conoscere tuo figlio?”

 

La culla era ai margini del letto, dal lato opposto all’angolo su cui si era seduto Kaz, non lo aveva fatto a posta, ma era sembrato ovvio che avesse agito inconsciamente, per mettere distanza. Nel buio della stanza la culla quasi spariva, ma quando Inej l’aveva illuminato con la lampada ad olio, i contorni si erano palesato.

Un pacchiano tulle bianco avvolgeva la conca, degna di un piccolo erede della Geldstraat. “Opera di Wylan?” aveva chiesto, “L’assenza di fiocchi è opera di Wylan, perché quella che aveva fatto Jesper era molto, molto, più imbarazzante” aveva stabilito Inej calma come la bonaccia, “Sicuramente è meglio del nero che avresti scelto tu” aveva stabilito.

Kaz aveva cercato di ricordare se ricordasse o meno la sua culla, non aveva veri ricordi, era piccolo quando aveva cominciato a dormire nel letto con Jordie e suo padre aveva venduto al culla – meglio darla a qualcuno che la userà che al fuoco, no? Aveva detto – ma ricorda un automa con un messaggio musicale, una litania stupida, ma non riusciva a ricordarla.

Avrebbe dovuto.

Avrebbe dovuto avere un automa meccanico, non un cane a molla, ma qualcosa, forse un pupazzo, non avrebbe dovuto?

Aveva guanti, un cappello a falde larghe, con una piuma nera ed un bastone con la testa di corvo in ferro grisha, sporco di sangue.

“Kaz vuoi conoscere tuo figlio?” aveva chiesto di nuovo Inej. Si era voltato verso di lei, con un brivido di preoccupazioni, ancora le loro mani congiunte.

No. Si. Non lo so.

Ne avevano già parlato, quando le vele nere dello spettro si erano palesate a quinto porto prima del tempo – solo tre mesi in mare dall’ultima volta – ed Inej li aveva detto la novella.

Un piccolo bastardo, figlio di un bastardo.

Kaz ricordava la prima volta che l’aveva baciata, che c’era riuscito e ricordava la prima volta che avevano fatto l’amore, o che ci avevano provato. Quando Kaz aveva potuto toccare Inej era stata lei che si era ritratta.

Ti avrò senza la tua armatura o non ti avrò per niente, così aveva detto Inej.

‘Io ti voglio’ aveva ripetuto Kaz, come dopo la Corte di Ghiaccio, senza aggiungere quello che voleva veramente, ti voglio anche con la tua armatura, perché Inej non ne sarebbe stata felice.
E ricordava la prima volta che le loro pelli, nude, erano state così a contatto, ribollenti. Aveva sentito il dolore, il nervosismo ed altro a cui non sapeva esprimere.

“Ne abbiamo già parlato” aveva ricordato Inej, trascinando le sue memorie ad una sera fredda dell’autunno, ‘Forse non è il momento giusto e forse non è quello che volevo, ora, ma a me va bene Kaz’ aveva detto calma, pratica.

‘Avevo otto anni quando è morto mio padre, Inej, non so come si fa il genitore’ aveva ammesso calmo, perché aveva bisogno di sopprimere ogni altra emozione che roborava dentro di lui, ‘Jes è stato un ottimo esercizio’ aveva stemperato le cose lei.

“Ho appena ucciso un uomo Inej, io sono questo” le aveva detto, alzandosi dal letto e recuperando il bastone, certo che le sue gambe non lo avrebbero sostenuto. “Nessuno ti ha mai chiesto di essere diverso, Kaz” aveva replicato lei, calma, “Quello che intendo dire è che sono il genere di uomo che pensa che il modo corretto di proteggere suo figlio sia quello di uccidere un uomo” aveva detto.
“Va bene, così nessuno penserà mai di seppellire nostro figlio in un cimitero” aveva risposto Inej, non c’era scherno, non c’era rimprovero. Inej era un’anima buona sì, ma era anche uno spirito della vendetta.
“Quello che voglio dire è che forse potrei essere un protettore silenzioso, nelle ombre, che …” aveva ricominciato a parlare con voce secca, forse un po’ troppo frenetico, “… Che non dovrebbe avere legami con lui, sarà più protetto senza di me” aveva considerato lui.

Kaz non avrebbe chiuso suo figlio in una villa in campagna, sperando che nessuno scoprisse di lui, “Nostro figlio merita di camminare per le strade di Ketterdam, senza preoccuparsi che qualcuno voglia ucciderlo, che possa avere di più dalla vita che un padre criminale” aveva considerato lui.
Inej aveva un sopracciglio nero sollevato, “No” aveva stabilito lei, “Nostro figlio avrà bisogno di un padre, avrà bisogno di un padre che lo protegga sì, perché erediterà anche i miei nemici Kaz, ed io non ho intenzione di essere un protettore misterioso, ho intenzione di essere sua madre, ho intenzione di insegnarli a camminare per terra, sulla corda, a parlare, il kerchiano, la mia lingua, a legare i nodi per le vele, ad arrampicarsi, a pregare, orientarsi con le stelle …” aveva stabilito lei netta chiara, “E l’unico motivo per cui ora non mi sto alzando a prenderti a calci in culo è solo perché ho partorito” aveva stabilito.

La risposta che Kaz avrebbe dato era stata interrotta da un pianto bisognoso, che aveva fatto sbocciare sulle labbra di Inej un sorriso, “Credo che tuo figlio abbia fame” aveva detto.
Kaz aveva annuito, “Se non me lo porti subito, si sveglierà tutta la casa e, fidati, da quando è diventato il Signor Van Eck, Wylan ha bisogno di almeno dieci ore di sonno ininterrotte” aveva raccontato.
Kaz aveva guardato la culla, aveva avuto un brivido. “Devo prenderlo?” aveva chiesto, calmo, osservando la culla. “Sì, Kaz, devi prendere tuo figlio e passarmelo” aveva replicato Inej.
“Non voglio contaminarlo” aveva ammesso, “Come disse una volta mia zia Anahid a mio cugino Kamal: essere un genitore implica che molto di quello che vuoi perde importanza” aveva detto calma, “Ora, Kaz Brekker, portami nostro figlio.”



Suo figlio era stato l’essere vivente più piccolo, più morbido e delicato che avesse mai preso tra le sue mani. Era stato certo che quando la pelle nuda, senza guanti – senza guanti perché Inej li aveva tolti – avrebbe toccato la pelle del suo bambino Kaz non sarebbe riuscito a prenderlo.
Aveva ancora difficoltà con i contatti umani, riusciva a toccare Inej, profondamente, in ogni pollice del suo corpo, riusciva a stringere la mano di Wylan, per gli accordi informali e tal volte di abbracciare anche Jesper. Riusciva a stare senza guanti per molte, molte ore e non fuggire quando Sarika Ghafa gli strizzava le guance materna.

Ma aveva ancora i suoi limiti, i suoi frustranti limiti, ma quello era suo figlio.
Non era solo il bambino di Inej, era anche suo, metà di se, che sarebbe sopravvissuto a tutto. Kaz aveva la sua famiglia, sparsa per il vasto mare, ma non aveva avuto più nessuno che condividesse il suo sangue da Jordie, dalla chiatta del Mietitore, dalla Piaga della Regina, da quando era giunto a Ketterdam.
E non era più così, ora esisteva quel bambino.

Le sue mani avevano tremato, quando le dita si erano fermate morbide sul contorno, “Io non so come prenderlo, come non fargli male” aveva ammesso.
“Fingi che sia un oggetto di cristallo molto delicato” lo aveva preso in gira Inej, “Non metterlo sotto l’ascella o non tirarlo su per i piedi” lo aveva rimproverato, “Per il collo, come un gatto?” aveva proposto lui, retorico.
Aveva preso il bambino, meno leggero di tante cose che aveva rubato, ma terribilmente, terribilmente, più delicato. Una creatura piccola, dalle guance paffute, la pelle tanè, con occhi stretti ed umidi di lacrime ed il pianto gracidante di una rana, in cerca di cibo.

Orribile, come lo erano tutti i bambi eppure bellissimo.

“Oserei dire che Kaz Brekker si è innamorato” lo aveva stuzzicato Inej, quasi divertita, “Irrimediabilmente” aveva risposto sarcastico lui, “Non hai nessun verso dei salmi da consigliarmi?” aveva chiesto retorico. “Quando mio figlio smetterà di piangere” aveva replicato lei, con un sorriso stanco sulle labbra.

Kaz aveva fatto quei pochi passi che lo separavano da Inej, cercando di tenere quel piccolo tesoro tra le mani con un tremore che non gli si addiceva, quasi spaventato che anche la sua gamba dolorante, cedesse.
Se la sua debolezza si fosse manifestata in quel momento, se fosse caduto ed avesse portato con sé suo bambino. Inej le era venuto incontro, al limite delle sue possibilità, stendendo le braccia, allungando il busto senza alzarsi, con una smorfia che aveva inghiottito sul viso bello.
Il bambino aveva arrestato il suo pianto per un momento, quando aveva sentito le dita rassicuranti di sua madre su di sé. Sembrava più naturale, più sicura di quanto sarebbe mai stato Kaz.
Mene yaram, mejo” aveva sussurrato dolce lei, ‘Non ti preoccupare, mio figlio[1].’
Non era stato facile imparare la lingua di Inej, molto più complicato del ravkiano, del fjerdiano ed anche dello Shu. Il suli aveva un suono dolce, era una lingua musicale, basata sulle melodie, sulle aperture, con una struttura antica, mai del tutto chiara, parole simili opposte e significati vicini lontani. Diverso come diverso era il suo popolo[2]. Il suli come il suo popolo cambiava e mutava come le increspature della superficie dell’acqua.

Inej aveva portato il suo bambino al petto, con una mano lo sorreggeva e con l’altra aveva fatto scivolare lo scollo slabbrato della sua sottoveste più giù per liberare un seno piccoli, ma pieno. Il bambino si attaccato senza indugio, provocando una smorfia di dolore appena accennato.
Ma l’amore superava il dolore, superava il terrore. Kaz aveva visto Inej farsi rigida quando una mano indugiava troppo a lungo sul suo seno, ricordava la rigidezza quando aveva provato a baciarla lì – ‘No’ era tutto quello che aveva detto; eppure l’amore superava anche quello. Suo figlio, vecchio di neanche un giorno, riusciva ad infiltrarsi in tutte le fessure, le crepe, dell’armatura di Inej.
Kaz l’aveva raggiunta, “Per fortuna che non ha i denti, altrimenti sarebbe come una serrasalmidae” aveva scherzato lei, calma.

“Una cosa?” aveva chiesto Kaz, sedendosi sul letto, non nello stesso punto di prima, più vicino a lei, a loro, tremendamente più vicino, da sentire il calore del respiro di Inej, da ispirare il loro profumo buono e distinguere ogni ciocca di capelli anche nella penombra della stanza. “Sono pesci d’acqua dolce, si trovano nei grandi fiumi navigabili nelle colonie del sud, hanno denti orribili e mangiano la carne” aveva risposto lei, osservando il bambino. “Oh, la ferita sul polpaccio” aveva considerato lui, ricordando quando dopo uno dei viaggi, Inej avesse guadagnando una cicatrice in più.
Kaz l’aveva baciata, interrogandosi quale arma, quale essere, quale bestia, avesse pensato di ferirla e come Kaz avrebbe dovuto vendicarsi, “Sono stata fortunata, di solito girano in branco, ma … ho invaso il suo territorio” aveva rivelato lei, “Probabilmente anche tu morderesti un gigante che entra nella tua casa” lo aveva preso in giro.

“No, Inej, lo mangerei vivo, pezzo a pezzo” aveva risposto lui, guardandola, “Assicurandosi che soffra” lo aveva preso in giro, prima di abbandonarsi ad una smorfia leggermente risentita, “Per me o per il bambino” aveva chiesto lui. “Per tutti e due, che i Sankti ci proteggano da Kaz Brekker e da suo figlio” aveva mormorato, ma le labbra piene erano aperte in un sorriso raggiante, così come gli occhi scuri luccicavano di pura gioia. “La Serrasalmidae del Barile … potrebbe funzionare” aveva scherzato.
Sperava di no, non voleva che suo figlio fosse stupido o tronfio, un bersaglio per i gatti affamati di Ketterdam, ma voleva che potesse camminare per le vie, vicino ai canali senza doversi mai preoccupare di guardarsi le spalle.

Senza una preoccupazione che fosse una.

Senza preoccuparsi di dover morire di fame nel vicolo di una strada, di dover rubare, ingannare, ferire. Voleva che fosse consapevole, sì, ma voleva che avesse qualcosa di meglio.
“I bambini sono più leggeri di quanto avessi pensato” aveva detto circostanziale, “Pensi spesso a quanto pesano i bambini?” aveva domandato Inej, “In realtà sia la mamma sia il dottore hanno detto che è ha un peso molto buono” aveva raccontato, “Secondo Alys, Juliana[3] era due volte più grande” aveva aggiunto.

“Alys Van Eck?” aveva domandato, “È venuta qui?” aveva aggiunto. “Adem è venuto qui, Alys lo ha solo seguito” aveva spiegato lei, “Certo il musicista Suli che si intrattiene con la seconda signora Van Eck, il reietto” aveva ricordato. Inej aveva annuito, “Sta ancora percorrendo il Cammino dell’Espiazione, aspetta ancora che io richiami la mia maledizione” aveva raccontato.
Kaz non conosceva un concetto come il perdono, ma anche Inej non vi era famigliare. “Pensi che lo perdonerai mai?” aveva chiesto Kaz, “Non ne ho idea, ieri ti avrei detto no, oggi non lo so, domani può darsi” aveva risposto.

“…E quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro a qualcuno, perdonate” aveva ripetuto sacrale Inej, “Così scriveva Sankt Lubov” aveva ricordato. “Ho conosciuto una santa, Inej, sono molto meno saggi di quanto credono” aveva considerato lui, “Non parlare male di Sankta Zoya, Kaz, ha fatto tanto per i suli” aveva detto lei sulla difensiva, lui aveva annuito, disinteressato.
Zoya e Nikolai erano al di là della sua comprensione, poteva prevedere il comportamento degli uomini mortali, con i loro desideri e le loro paure, ma draghi e mostri fatti d’ombra erano oltre il suo controllo. “Anche io ho conosciuto una sankta, oltre la Regina Drago, intendo” aveva spiegato lei, mentre distoglieva lo sguardo da lui e osservava con dolcezza il suo bambino.
“Non mi ha detto che lo era, ma lo ho capito. L’ho conosciuta in un luogo dimenticato dai Santi, ma non era la prima volta che la vedevo” aveva ammesso nostalgica, “Vorrei che benedicesse nostro figlio, non ridere” aveva detto.

“A Zoya possiamo scrivere se vuoi, me ne deve qualcuna lei ed anche quella volpe di suo marito” aveva considerato lui, senza usare quei termini arzigogolati, “Sai che la regina è incinta? I nostri bambini potrebbero essere amici, fa ridere, no? Il figlio di una trapezista, ex schiava, nomade suli ed il figlio di una regina?” aveva considerato Inej, “Direi che il figlio di un’eroina popolare in tutto il Mare Vero e di un Regina sia più vicino alla realtà” aveva detto lui, “O il figlio di un bastardo con il figlio di un bastardo” aveva proposto lui.

‘Tu e il Re Nikolai vi somigliate, sai? Due bastardi con un feticcio per i guanti ed una passione per donne suli che potrebbero farvi il culo a strisce’ lo aveva preso in giro una volta Jesper, vittima di troppi bicchierini di Whisky.

Una cosa stupida, ma anche vera.

 

Il bambino aveva smesso di bere, apparentemente soddisfatto, ma Inej non aveva dato cenno di volersene separare, c’era una certa stanchezza nel suo viso, ma non sembrava intenzionata a dormire.
Kaz avrebbe dovuto dirle di andare a dormire che sarebbe rimasto lui di guardia, ma era un momento così bello, così intimo. “Hai già scelto il nome?” aveva chiesto Kaz.
Era un argomento difficile, era un argomento complicato, perché la parte più egoista – la maggior parte di lui – voleva un nome, ma non aveva il coraggio di chiederlo.
Fino a che non era nato non avevano saputo neanche il sesso, nonostante la sciamana-sciacallo avesse spergiurato fosse una bambina, sicura di quello che i Sankti le avevano donato; ma non avevano neanche discusso di nomi. Sarika aveva dichiarato fosse di malaugurio parlarne prima della nascita ed Inej era sembrata osservante dello stesso credo di sua madre.
Jesper di rimando aveva cominciato a suggerire nomi da quando lo aveva saputo, la metà di essi erano varianti del suo nome. “Quasi mi dispiace che non sia femmina per non poterla chiamare Jesperyn” aveva scherzato Inej.

Kaz aveva fatto roteare gli occhi, decisamente stanco di quello stupido gioco di Jesper.
“Vorrei che lo scegliessimo insieme, come due persone normali, Kaz” aveva ripreso a parlare Inej, “Anche se c’è un nome che mi piacerebbe” aveva ammesso, “Yarden, che scorre” aveva detto calma, “Un inno all’avanzare, al non fermarsi mai, ma lasciare alle spalle il passato, con la sua angoscia ed il dolore. Qualcosa che in cui e te non siamo molto bravi, ma che spero nostro figlio possa fare.”
“Suona bene” aveva considerato lui, “Forse un po’ troppo suli, non che mi dispiaccia, ma per un ragazzo che vivrà a Ketterdam, forse ci vuole un nome kerchiano, per quanto orribili siano” aveva considerato Inej, con un sorriso dolce, “Yarden ha delle traduzioni in altre lingue, pensa in kerchiano anche più di una” aveva spiegato.

Kaz aveva aggrottato le sopracciglia.

“Uno di questi è Jordan” aveva spiegato, allungando una mano per accarezzare la guancia di Kaz, lui si aveva inseguito quel contatto quasi con gioia.

“Jordan, Jordan, si” aveva ammesso, con troppa euforia nel cuore di quanto riuscisse a comprendere. Troppo.
Jordie.

Di nuovo Jordie, ma non lo stesso Jordie.

E quella volta sarebbe andato tutto bene, Kaz se ne sarebbe assicurato, quella volta avrebbe fatto le cose per bene e, forse, forse, avrebbe potuto perdonarsi.

Forse non erano le ragioni migliori per aver un figlio, ma era più di quanto avesse mai avuto prima.
“Jordan Brekker, allora, o Jordan Ghafa … immagino che a questo penseremo dopo” aveva concesso lei.
Lui le aveva sorriso, trovando, quasi, dolore in quell’azione, così poco abitudinaria: “Forse anche Jordan Rietveld.”

Forse quel bambino meritava di più di Kaz Brekker, il Signore del Barile, forse meritava Kaz Rietveld, che era ancora capace di amare …

“Sai che questa è la prima volta che sento il tuo cognome?” lo aveva preso in giro Inej.


[1] La prima parte della frase è tratta dai libri, mentre quel Mejo è un’invenzione, cercando di basarmi sul Meja dei libri – mia figlia – che aveva come ispirazione da Mi hijia.

[2] L’Italiano è una lingua intensiva, il latino è musicale (perché si basa sulle lunghezze delle vocali che sulle intensità). Comunque ho deciso che il suli non ha senso, perché all’inizio la Bardougo si rifaceva al Serbo-Croato-Bosniaco ed inseguito al Romani (con chiare accezioni latine).  Anche Non ti preoccupare nei libri ha due diverse traduzioni: ne brinite e mene yaram, probabilmente questo è dovuto al fatto che pur essendo un solo popolo etnico, sono divisi in gruppi culturali diversificati – avevo pensato di inserire questa considerazione nel testo, ma mi sembrava troppo specifico e troppo pesante.

[3] Juliana è il nome che ho scelto per la sorellastra di Wylan, so che il nome non sembra molto ‘olandese’ ma lo ho preso da quello di Juliana Louise Emma Marie Wilhelmina, regina (regnante) dei Paesi Bassi dal 1948 al 1980.

Ehm … tecnicamente questa storia si svolge nell’universo di SKAZKI OB ISTINNOM MORE, ma chiaramente non è necessario averla letta (sono solo io che mi faccio pubblicità).

   
 
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