Indovinate
chi ha due pollici opponibili e non sa
scrivere Kaz Brekker? Sì, io.
J
O R D A N
Kaz
si era arrampicato utilizzando l’impalcatura in legno dipinto
di bianco con cui
erano sistemati le Succulenti per poter creare una parete vegetale.
Ed
il bastone, il becco della testa di corvo era stata rimodellata
perché potesse
scalfire meglio la pietra, il mattone e le ossa.
La
gamba era un dolore atroce, ma Kaz Brekker non avrebbe permesso alla
sua gamba,
alla sua agonia, di vincere quella sfida.
Aveva
raggiunto la prima finestra, del piano superiore, trovandola aperta
– un’imprudenza
piuttosto sciocca per il padrone di casa, specie per quella stagione,
quando il
freddo dell’inverno cominciava a gelare le carni e le ossa.
Ketterdam era
umida, era fredda e l’inverno nelle strade aveva ucciso
più uomini della Piaga
della Regina.
Ma
Kaz aveva visto la trappola ed era salito fino al piano superiore, con
fatica,
con un dolore così lancinante da desiderare quasi che la
carne si sfilacciasse
e l’osso si spezzasse, ma ancora una volta, Kaz Brekker non
avrebbe permesso a
nulla di fermarlo.
Aveva
raggiunto le imposte della finestra del secondo piano, trovandole
blindate e si
era fermato, sedendosi con fatica sul cornicione.
Non
era facile, ma non impossibile ed aveva forzato l’apertura
con i grimaldelli ed
aveva ricordato quasi nostalgico la prima volta che si era introdotto
in quella
casa, gustandosi quello che avrebbe rubato e la gloria
dell’averlo fatto, ma
non quella volta.
Aveva
aperto le imposte e con grazia le aveva fatte scorrere, permettendo
un’apertura,
si era assicurato di aprire lo sportello, cercando di non fare rumore
ed era scivolato
dentro, piano, felino.
“Sorprendentemente silenzioso” lo aveva preso in
giro una voce, il secondo dopo
il rassicurante buio in cui era avvolto si era assopito in un chiarore
rassicurante; una lampada ad olio.
“Ciao
Inej” aveva detto lui, forzando calma che non aveva.
“Ciao
Kaz” lo aveva preso in giro lei, c’era un tono
frizzante nella sua voce, felice.
Ghezen,
Kaz aveva amato la risata di Inej prima, ma poi, poi, dopo che aveva
preso il
mare la prima volta, aveva pensato fosse il suono più bello
e sublime.
Un
suono così dolce, così felice, da aver sciolto
anche il suo marcio, marcio,
cuore.
“Jesper
ti aveva lasciato finestra aperta al piano di sotto” aveva
considerato Inej,
mentre Kaz si era avvicinato a lei, la vedeva nella penombra della
lampada, semi-distesa
sul letto grande.
“Non era al piano di sotto che volevo andare” aveva
risposto con ovvietà lui,
sedendosi all’angolo del letto, non lontano da dove vedeva il
bozzolo dei piedi
della donna.
“Volevo
lasciare aperta questa finestra, ma Marya ha detto che era meglio di
no” aveva
sospirato lei, la sua voce era ancora gentile. “Non
è una serratura che avrebbe
potuto fermarmi” aveva ammesso lui calmo, “Avresti
potuto suonare alla porta,
passare da quella. So non fa parte del tuo fascino” era stata
spietata Inej, ma
anche dolce. “Wylan ha detto che non attraverserò
mai il suo uscio” aveva
risposto placido lui, “Forse questa volta te lo avrebbe
permesso” aveva
considerato Inej.
Forse
sì.
“Mi
dispiace di non essere arrivato prima” aveva detto calmo lui,
cercandola nella
luce leggera della lampada ad olio, sulla superficie liscia del
comodino. “Ah,
ti dispiace? Davvero, Kaz?” aveva chiesto
Inej,
c’era gioco nella sua voce, ma era anche subdola, una piccola
accusa.
“Dovevo fare una cosa, Inej, era importante” si era
giustificato. Perché lo
era.
“Sono
poche le cose che mi sembrano più importanti di
questa” era stata spietata
quella volta, una Inej fredda e cruda, un ibrido della ragazzina del
Serraglio
e del terribile spettro della vendetta. “Dovevo uccidere un
uomo e dovevo
essere sicuro fosse morto entro questa sera” aveva chiarito,
“Il bastone è
ancora sporco di sangue, vedo, sì, ed anche la
camicia” aveva considerato lei,
pratica. “Ho cambiato la giacca” si era
giustificato, non aveva avuto tempo di
tornare alla Stecca o altrove, sapeva che Inej non mentiva, era
importante.
“L’hai
rovesciata solamente” lo aveva stuzzicato lei, “Era
più pratico” aveva
considerato. A Kaz piaceva vestirsi da mercante, metteva più
inquietudine che
il suo aspetto fosse ripulito, dritto, come uno di loro e non come uno
dei
signori del barile, colorati, variopinti, stravaganti. Kaz Brekker
metteva a disagio
i signori per bene di Ketterdam, perché urlava in ogni sul
freddo e calcolato
atteggiamento non io-sono-come-voi ma voi-non-siete-diversi-da-me.
Ma
sapeva che nessuno dei ben pensati dei quartieri alti aveva una giacca
doppia
faccia che potesse essere girata all’occorrenza, quando
mancava il tempo per
lavare il sangue o cambiarsi d’abito.
“Chi
era l’uomo, Kaz?” aveva chiesto Inej con una punta
di innocenza, con gli occhi
scuri come il caffè ma scintillanti sì, caldi. Un
tempo lo avrebbe saputo, perché
era il suo spettro, la sua ombra, la sua santa protettrice dai tetti,
ma non
era più nessuna di quelle cose.
Era ancora sua in un certo senso, era la sua Inej, come lui era il suo
Kaz.
Senza
armature, il più delle volte – ma non abbastanza.
Come
quella sera, quella sera aveva messo i guanti e non era ancora pronto a
toglierli.
Doveva però …
“Non
è importante, non più” aveva risposto
calmo lui.
“Hai
detto che era importante” aveva ribadito lei, Inej
affilata come le sue lame,
“Era importante che morisse, che morisse questa notte non che
lui fosse
importante” aveva replicato Kaz. Inej lo aveva guardato con
un cipiglio, un
cipiglio giudicante e poco comprensivo. “Jonathan
Boreg” aveva detto calmo,
cugino del più celebre Nathen.
“Boreg
è ad Hellsgate” aveva considerato Inej,
“Mi sono assicurata di accompagnarlo
personalmente lì” aveva detto, cinque mesi prima.
“Boreg era ad Hellsgate, fino
a ieri … Il giudice ha valutato che fosse un caso di
no-luogo-a-procedere”
aveva detto diplomatico, anche arrabbiato.
Inej aveva sospirato, carica di dolore ed insofferenza, ma non aveva
pianto,
differentemente dalla prima volta che Kaz le aveva detto che uno dei
ricchi
uomini che aveva costruito la sua fortuna sulla carne e le lacrime di
povere
anime in pena. ‘Che senso ha per me prenderli se possono
pagarsi l’uscita?’ ma
era stato solo la prima volta, poi non aveva più permesso
che questo la
oscurasse.
“Aveva giurato che mi avrebbe sventrato come un
pesce” aveva valutato Inej, la
sua voce era calma e piatta, con lo sguardo scuro distante.
“Doveva
morire, Inej” aveva stabilito, “Posso
difendermi, Kaz Brekker” aveva
considerato lei. La prima volta Kaz le aveva dato una lama e le aveva
detto che
non avrebbe potuto difenderla sempre, ma Inej non ne aveva bisogno.
“Lo so, ma
lui doveva morire. Stasera, non domani, non tra un mese. So che
preferisci la
giustizia, ma questo non è un rischio che sono disposto a
correre, non da oggi”
aveva replicato letale lui. “Stai pensando ad Alby Rollins,
vero?” aveva
chiesto lei, con una punta di acredine che non le stava bene, Kaz aveva
annuito, “Sì, pensavo ad Alby Rollins ma non nel
modo in cui pensi tu” aveva
ammesso.
“Leggi
nella mente?” aveva domandato Inej, ma la sua voce raschiava
dolcezza, “Oserei
dire che mi sei divenuta comprensibile” aveva detto,
allusivo, “Nina direbbe
che non è qualcosa che si dice ad una donna” aveva
considerato lei, “Nina è
dall’altra parte del mare per poter dire qualcosa al
momento” aveva risposto di
getto, “Mi dispiace che non fosse qui” aveva
considerato.
“Immagino che essere la regina consorte di Fjerda possa
risultare un impedimento
accettabile” aveva accettato Inej, “Dovevo uccidere
Boreg, Inej, non potevo
delegare” si era giustificato Kaz.
Non poteva affidare il lavoro a nessuno, non perché non ne
fossero capaci, i
suoi scarti lo sarebbero stati, ma perché doveva essere lui.
Doveva essere
chiaro.
“Doveva
essere un messaggio sì” aveva riconosciuto Inej,
“Doveva essere noto a tutti
che nessuno può usare il cuore di Kaz Brekker contro Kaz
Brekker” lo aveva
scimmiottato un po’.
Kaz
le aveva sorriso stanco, “Su questo temo, Inej, non
concorderemmo mai. L’amore
è debolezza, lo è per me, come lo era per Pekka
Rollins, allora devo
assicurarmi che la gente comprenda che la mia debolezza è
qualcosa di molto più
pericoloso della mia calma” aveva detto chiaro.
Lo aveva provato ad insegnare a Jan Van Eck, quando aveva preso Inej e
lui
aveva preso Alys ed il bambino non ancora nato, “Io voglio
che il mondo sappia
che un Kaz Brekker disperato è qualcosa che non dovrebbero
mai augurarsi” aveva
aggiunto.
“Io-io-io-io”
aveva replicato offesa Inej.
Kaz
lo aveva guardato con un principio di rabbia, in un altro tempo avrebbe
lasciato cadere la conversazione, avrebbe lasciato che Inej traesse le
sue
conclusioni, le più cattive che potesse pensare e Kaz
avrebbe accettato, perché
era parte del suo personaggio, della sua armatura.
‘O
senza la tua armatura o non ti avrò affatto.’
E
Kaz aveva bisogno di appartenerle.
“Non
è perché non voglio che vi usino per ferirmi, ma
perché non voglio che vi
feriscano” aveva detto chiaro, “Non voglio pensare
che un ragazzino come ero io
pensi che per sconfiggermi possa rapirvi, torturarvi,
uccidervi” aveva
stabilito.
Kaz
aveva bisogno di essere così spaventoso, così
mostruoso, così potente, che
neanche un disperato ragazzino affamato di vendetta come era stato lui
avrebbe
potuto pensare di mettere in piedi un numero come quello che aveva
fatto con il
giovane Alby Rollins. Avrebbe mentito se non avesse detto che Pekka
Rollins non
era stato solo un nemico da abbattere, un sistema, ma anche un modello,
da eguagliare,
da superare, da incenerire.
Pekka
Rollins era stato il re del Barile e Kaz aveva strappato quel titolo
dalla sua
fuga, dal cadavere spirituale dei suoi leoni e non avrebbe permesso a
nessuno
di farlo scappare da quella città, di ferire chi amava. Kaz
Brekker era nato a
Ketterdam, le acque del mare erano stati il suo liquido amniotico, la
chiatta
del mietitore la carne del ventre che lo aveva generato e le vie della
città l’abbraccio
freddo di una madre crudele. Ketterdam era sua e sarebbe stata di Inej,
quando
avrebbe gettato l’ancora per l’ultima volta.
E
maledetto l’uomo che avrebbe pensato di ferirla,
così doveva essere ovvio. I
soldi dei Boreg potevano pagare la giustizia del popolo, ma non quella
di Kaz
Brekker.
E Boreg aveva pianto, offerto oro, pregato e supplicato.
Inej
aveva sorriso, calma, “Io lo so, ma sono lo stesso
arrabbiata” aveva detto, “Poteva
essere fatto domani, dovevi essere qui” lo aveva rimproverato.
Probabilmente
sì, ma Kaz non avrebbe poi potuto pensare a
nient’altro che a quello che
avrebbe dovuto fare.
“Tua
madre e tuo padre?” aveva chiesto poi, quasi disperato, per
cambiare argomento,
“Nella stanza accanto, mia madre voleva dormire qui, ma le ho
detto che saresti
venuto tu a farmi compagnia” aveva ammesso lei.
“Credo sia molto arrabbiata con
me” aveva valutato Kaz, Inej aveva riso,
“Sì, penso che per un po’ non potrai
godere della sua cucina” aveva confermato prima di fermarsi
per un’altra
risata, “Tranquillo Kaz, mia madre crede che tu possa
camminare sulle acque”
aveva ammesso.
Se Inej lo avesse voluto, Kaz avrebbe imparato a fare anche quello.
Inej
aveva allungato una mano verso di lui, invitandolo a prenderla, ad
avvicinarsi
e Kaz l’aveva assecondata. Quando era stato alla sua portata,
Inej ne aveva
approfittato per sfilare uno dei guanti di cuoio neri, Kaz non aveva
avuto nessuna
maligna reazione, “Grazie” aveva detto, porgendole
l’altro polso, così che lei
sfilasse anche il secondo.
Non
era sicuro che sarebbe stato capace di sfilarsi i guanti da solo. Inej
aveva stretto
la sua mano, aveva pigiato il pollice sul suo palmo aperto e i
polpastrelli
delle altre quattro dita sul dorso, una stretta sicura, piacevole, che
aveva
regalato brividi di calore sulla pelle di Kaz. Aveva chiuso le dita sul
pollice,
per bearsi della stretta. “Hai … hai fatto
qualcosa di incredibile oggi” aveva
ammesso lui.
Mentre Kaz pestava a morte un uomo, Inej faceva un miracolo, un
miracolo anche
per il cuore arido del suo petto.
“Aspetta
di vederlo, Kaz, prima” aveva considerato Inej.
“Vederlo?”
aveva inquisito lui, “Oh, sì, dovremmo dire a
quella indovina Suli a Zentsbridge
che ha decisamente sbagliato” aveva stabilito Inej,
“Ti avevo detto fossero
solo stronzate, se qualcuno potesse vedere davvero il futuro,
regnerebbe su
tutti gli uomini” aveva replicato.
Si poteva indovinare, si poteva osservare e analizzare, ma nessuno,
neanche la
più capace sensitiva poteva prevedere così
chiaramente il futuro. O sarebbe
stato Re di tutti Re, anche la Regina Drago di Ravka avrebbe dovuto
chinare il
capo a chi prediceva ogni sua azione.
“Kaz”
lo aveva richiamato Inej, con fermezza, lui l’aveva guardata
e lei aveva
continuato: “Vuoi conoscere tuo figlio?”
La
culla era ai margini del letto, dal lato opposto all’angolo
su cui si era
seduto Kaz, non lo aveva fatto a posta, ma era sembrato ovvio che
avesse agito inconsciamente,
per mettere distanza. Nel buio della stanza la culla quasi spariva, ma
quando
Inej l’aveva illuminato con la lampada ad olio, i contorni si
erano palesato.
Un
pacchiano tulle bianco avvolgeva la conca, degna di un piccolo erede
della Geldstraat.
“Opera di Wylan?” aveva chiesto,
“L’assenza di fiocchi è opera di Wylan,
perché
quella che aveva fatto Jesper era molto, molto, più
imbarazzante” aveva
stabilito Inej calma come la bonaccia, “Sicuramente
è meglio del nero che
avresti scelto tu” aveva stabilito.
Kaz
aveva cercato di ricordare se ricordasse o meno la sua culla, non aveva
veri
ricordi, era piccolo quando aveva cominciato a dormire nel letto con
Jordie e suo
padre aveva venduto al culla – meglio darla a qualcuno che la
userà che al
fuoco, no? Aveva detto – ma ricorda un automa con un
messaggio musicale, una
litania stupida, ma non riusciva a ricordarla.
Avrebbe
dovuto.
Avrebbe
dovuto avere un automa meccanico, non un cane a molla, ma qualcosa,
forse un
pupazzo, non avrebbe dovuto?
Aveva
guanti, un cappello a falde larghe, con una piuma nera ed un bastone
con la
testa di corvo in ferro grisha, sporco di sangue.
“Kaz
vuoi conoscere tuo figlio?” aveva chiesto di nuovo Inej. Si
era voltato verso
di lei, con un brivido di preoccupazioni, ancora le loro mani congiunte.
No.
Si. Non lo so.
Ne
avevano già parlato, quando le vele nere dello spettro si
erano palesate a
quinto porto prima del tempo – solo tre mesi in mare
dall’ultima volta – ed Inej
li aveva detto la novella.
Un
piccolo bastardo, figlio di un bastardo.
Kaz
ricordava la prima volta che l’aveva baciata, che
c’era riuscito e ricordava la
prima volta che avevano fatto l’amore, o che ci avevano
provato. Quando Kaz
aveva potuto toccare Inej era stata lei che si era ritratta.
Ti
avrò senza la tua armatura o non ti avrò per
niente, così
aveva detto Inej.
‘Io
ti voglio’ aveva ripetuto Kaz, come dopo la Corte di
Ghiaccio, senza aggiungere
quello che voleva veramente, ti voglio anche con la tua
armatura, perché
Inej non ne sarebbe stata felice.
E ricordava la prima volta che le loro pelli, nude, erano state
così a
contatto, ribollenti. Aveva sentito il dolore, il nervosismo ed altro a
cui non
sapeva esprimere.
“Ne
abbiamo già parlato” aveva ricordato Inej,
trascinando le sue memorie ad una
sera fredda dell’autunno, ‘Forse non è
il momento giusto e forse non è quello
che volevo, ora, ma a me va bene Kaz’
aveva detto calma, pratica.
‘Avevo
otto anni quando è morto mio padre, Inej, non so come si fa
il genitore’ aveva
ammesso calmo, perché aveva bisogno di sopprimere ogni altra
emozione che roborava
dentro di lui, ‘Jes è stato un ottimo
esercizio’ aveva stemperato le cose lei.
“Ho
appena ucciso un uomo Inej, io sono questo” le aveva detto,
alzandosi dal letto
e recuperando il bastone, certo che le sue gambe non lo avrebbero
sostenuto. “Nessuno
ti ha mai chiesto di essere diverso, Kaz” aveva replicato
lei, calma, “Quello
che intendo dire è che sono il genere di uomo che pensa che
il modo corretto di
proteggere suo figlio sia quello di uccidere un uomo” aveva
detto.
“Va bene, così nessuno penserà mai di
seppellire nostro figlio in un cimitero”
aveva risposto Inej, non c’era scherno, non c’era
rimprovero. Inej era un’anima
buona sì, ma era anche uno spirito della vendetta.
“Quello che voglio dire è che forse potrei essere
un protettore silenzioso,
nelle ombre, che …” aveva ricominciato a parlare
con voce secca, forse un po’
troppo frenetico, “… Che non dovrebbe avere legami
con lui, sarà più protetto
senza di me” aveva considerato lui.
Kaz
non avrebbe chiuso suo figlio in una villa in campagna, sperando che
nessuno
scoprisse di lui, “Nostro figlio merita di camminare per le
strade di
Ketterdam, senza preoccuparsi che qualcuno voglia ucciderlo, che possa
avere di
più dalla vita che un padre criminale” aveva
considerato lui.
Inej aveva un sopracciglio nero sollevato, “No”
aveva stabilito lei, “Nostro
figlio avrà bisogno di un padre, avrà bisogno di
un padre che lo protegga sì, perché
erediterà anche i miei nemici Kaz, ed io non ho intenzione
di essere un
protettore misterioso, ho intenzione di essere sua madre, ho intenzione
di
insegnarli a camminare per terra, sulla corda, a parlare, il kerchiano,
la mia
lingua, a legare i nodi per le vele, ad arrampicarsi, a pregare,
orientarsi con
le stelle …” aveva stabilito lei netta chiara,
“E l’unico motivo per cui ora
non mi sto alzando a prenderti a calci in culo è solo
perché ho partorito”
aveva stabilito.
La
risposta che Kaz avrebbe dato era stata interrotta da un pianto
bisognoso, che
aveva fatto sbocciare sulle labbra di Inej un sorriso, “Credo
che tuo figlio
abbia fame” aveva detto.
Kaz aveva annuito, “Se non me lo porti subito, si
sveglierà tutta la casa e,
fidati, da quando è diventato il Signor Van Eck, Wylan ha
bisogno di almeno dieci
ore di sonno ininterrotte” aveva raccontato.
Kaz aveva guardato la culla, aveva avuto un brivido. “Devo
prenderlo?” aveva
chiesto, calmo, osservando la culla. “Sì, Kaz,
devi prendere tuo figlio e
passarmelo” aveva replicato Inej.
“Non voglio contaminarlo” aveva ammesso,
“Come disse una volta mia zia Anahid a
mio cugino Kamal: essere un genitore implica che molto di quello che
vuoi perde
importanza” aveva detto calma, “Ora, Kaz Brekker,
portami nostro figlio.”
Suo
figlio era stato l’essere vivente più piccolo,
più morbido e delicato che
avesse mai preso tra le sue mani. Era stato certo che quando la pelle
nuda,
senza guanti – senza guanti perché Inej li aveva
tolti – avrebbe toccato la
pelle del suo bambino Kaz non sarebbe riuscito a prenderlo.
Aveva ancora difficoltà con i contatti umani, riusciva a
toccare Inej,
profondamente, in ogni pollice del suo corpo, riusciva a stringere la
mano di
Wylan, per gli accordi informali e tal volte di abbracciare anche
Jesper.
Riusciva a stare senza guanti per molte, molte ore e non fuggire quando
Sarika
Ghafa gli strizzava le guance materna.
Ma
aveva ancora i suoi limiti, i suoi frustranti limiti, ma quello era suo
figlio.
Non era solo il bambino di Inej, era anche suo, metà di se,
che sarebbe
sopravvissuto a tutto. Kaz aveva la sua famiglia, sparsa per il vasto
mare, ma
non aveva avuto più nessuno che condividesse il suo sangue
da Jordie, dalla
chiatta del Mietitore, dalla Piaga della Regina, da quando era giunto a
Ketterdam.
E non era più così, ora esisteva quel
bambino.
Le
sue mani avevano tremato, quando le dita si erano fermate morbide sul
contorno,
“Io non so come prenderlo, come non fargli male”
aveva ammesso.
“Fingi che sia un oggetto di cristallo molto
delicato” lo aveva preso in gira
Inej, “Non metterlo sotto l’ascella o non tirarlo
su per i piedi” lo aveva
rimproverato, “Per il collo, come un gatto?” aveva
proposto lui, retorico.
Aveva preso il bambino, meno leggero di tante cose che aveva rubato, ma
terribilmente, terribilmente, più delicato. Una creatura
piccola, dalle guance
paffute, la pelle tanè, con occhi stretti ed umidi di
lacrime ed il pianto
gracidante di una rana, in cerca di cibo.
Orribile,
come lo erano tutti i bambi eppure bellissimo.
“Oserei
dire che Kaz Brekker si è innamorato” lo aveva
stuzzicato Inej, quasi
divertita, “Irrimediabilmente” aveva risposto
sarcastico lui, “Non hai nessun
verso dei salmi da consigliarmi?” aveva chiesto retorico.
“Quando mio figlio
smetterà di piangere” aveva replicato lei, con un
sorriso stanco sulle labbra.
Kaz
aveva fatto quei pochi passi che lo separavano da Inej, cercando di
tenere quel
piccolo tesoro tra le mani con un tremore che non gli si addiceva,
quasi
spaventato che anche la sua gamba dolorante, cedesse.
Se la sua debolezza si fosse manifestata in quel momento, se fosse
caduto ed
avesse portato con sé suo bambino. Inej le era venuto
incontro, al limite delle
sue possibilità, stendendo le braccia, allungando il busto
senza alzarsi, con
una smorfia che aveva inghiottito sul viso bello.
Il bambino aveva arrestato il suo pianto per un momento, quando aveva
sentito
le dita rassicuranti di sua madre su di sé. Sembrava
più naturale, più sicura di
quanto sarebbe mai stato Kaz.
“Mene yaram, mejo” aveva
sussurrato dolce lei, ‘Non ti preoccupare, mio
figlio[1].’
Non era stato facile imparare la lingua di Inej, molto più
complicato del
ravkiano, del fjerdiano ed anche dello Shu. Il suli aveva un suono
dolce, era
una lingua musicale, basata sulle melodie, sulle aperture, con una
struttura
antica, mai del tutto chiara, parole simili opposte e significati
vicini
lontani. Diverso come diverso era il suo popolo[2].
Il suli come il suo
popolo cambiava e mutava come le increspature della superficie
dell’acqua.
Inej
aveva portato il suo bambino al petto, con una mano lo sorreggeva e con
l’altra
aveva fatto scivolare lo scollo slabbrato della sua sottoveste
più giù per
liberare un seno piccoli, ma pieno. Il bambino si attaccato senza
indugio,
provocando una smorfia di dolore appena accennato.
Ma l’amore superava il dolore, superava il terrore. Kaz aveva
visto Inej farsi
rigida quando una mano indugiava troppo a lungo sul suo seno, ricordava
la
rigidezza quando aveva provato a baciarla lì –
‘No’ era tutto quello che aveva
detto; eppure l’amore superava anche quello. Suo figlio,
vecchio di neanche un
giorno, riusciva ad infiltrarsi in tutte le fessure, le crepe,
dell’armatura di
Inej.
Kaz l’aveva raggiunta, “Per fortuna che non ha i
denti, altrimenti sarebbe come
una serrasalmidae”
aveva scherzato lei,
calma.
“Una
cosa?” aveva chiesto Kaz, sedendosi sul letto, non nello
stesso punto di prima,
più vicino a lei, a loro, tremendamente più
vicino, da sentire il calore del
respiro di Inej, da ispirare il loro profumo buono e distinguere ogni
ciocca di
capelli anche nella penombra della stanza. “Sono pesci
d’acqua dolce, si
trovano nei grandi fiumi navigabili nelle colonie del sud, hanno denti
orribili
e mangiano la carne” aveva risposto lei, osservando il
bambino. “Oh, la ferita
sul polpaccio” aveva considerato lui, ricordando quando dopo
uno dei viaggi,
Inej avesse guadagnando una cicatrice in più.
Kaz l’aveva baciata, interrogandosi quale arma, quale essere,
quale bestia, avesse
pensato di ferirla e come Kaz avrebbe dovuto vendicarsi,
“Sono stata fortunata,
di solito girano in branco, ma … ho invaso il suo
territorio” aveva rivelato
lei, “Probabilmente anche tu morderesti un gigante che entra
nella tua casa” lo
aveva preso in giro.
“No,
Inej, lo mangerei vivo, pezzo a pezzo” aveva risposto lui,
guardandola, “Assicurandosi
che soffra” lo aveva preso in giro, prima di abbandonarsi ad
una smorfia leggermente
risentita, “Per me o per il bambino” aveva chiesto
lui. “Per tutti e due, che i
Sankti ci proteggano da Kaz Brekker e da suo figlio” aveva
mormorato, ma le
labbra piene erano aperte in un sorriso raggiante, così come
gli occhi scuri
luccicavano di pura gioia. “La Serrasalmidae del
Barile … potrebbe
funzionare” aveva scherzato.
Sperava di no, non voleva che suo figlio fosse stupido o tronfio, un
bersaglio
per i gatti affamati di Ketterdam, ma voleva che potesse camminare per
le vie,
vicino ai canali senza doversi mai preoccupare di guardarsi le spalle.
Senza
una preoccupazione che fosse una.
Senza
preoccuparsi di dover morire di fame nel vicolo di una strada, di dover
rubare,
ingannare, ferire. Voleva che fosse consapevole, sì, ma
voleva che avesse
qualcosa di meglio.
“I bambini sono più leggeri di quanto avessi
pensato” aveva detto
circostanziale, “Pensi spesso a quanto pesano i
bambini?” aveva domandato Inej,
“In realtà sia la mamma sia il dottore hanno detto
che è ha un peso molto buono”
aveva raccontato, “Secondo Alys, Juliana[3]
era due volte più grande”
aveva aggiunto.
“Alys
Van Eck?” aveva domandato, “È venuta
qui?” aveva aggiunto. “Adem è venuto
qui,
Alys lo ha solo seguito” aveva spiegato lei, “Certo
il musicista Suli che si
intrattiene con la seconda signora Van Eck, il reietto” aveva
ricordato. Inej
aveva annuito, “Sta ancora percorrendo il Cammino
dell’Espiazione,
aspetta ancora che io richiami la mia maledizione” aveva
raccontato.
Kaz non conosceva un concetto come il perdono, ma anche Inej non vi era
famigliare. “Pensi che lo perdonerai mai?” aveva
chiesto Kaz, “Non ne ho idea, ieri
ti avrei detto no, oggi non lo so, domani può
darsi” aveva risposto.
“…E
quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro a qualcuno,
perdonate”
aveva ripetuto sacrale Inej, “Così scriveva Sankt
Lubov” aveva
ricordato. “Ho conosciuto una santa, Inej, sono molto meno
saggi di quanto
credono” aveva considerato lui, “Non parlare male
di Sankta Zoya, Kaz,
ha fatto tanto per i suli” aveva detto lei sulla difensiva,
lui aveva annuito,
disinteressato.
Zoya e Nikolai erano al di là della sua comprensione, poteva
prevedere il
comportamento degli uomini mortali, con i loro desideri e le loro
paure, ma
draghi e mostri fatti d’ombra erano oltre il suo controllo.
“Anche io ho
conosciuto una sankta, oltre la Regina Drago,
intendo” aveva spiegato
lei, mentre distoglieva lo sguardo da lui e osservava con dolcezza il
suo
bambino.
“Non mi ha detto che lo era, ma lo ho capito. L’ho
conosciuta in un luogo
dimenticato dai Santi, ma non era la prima volta che la
vedevo” aveva ammesso nostalgica,
“Vorrei che benedicesse nostro figlio, non ridere”
aveva detto.
“A
Zoya possiamo scrivere se vuoi, me ne deve qualcuna lei ed anche quella
volpe
di suo marito” aveva considerato lui, senza usare quei
termini arzigogolati, “Sai
che la regina è incinta? I nostri bambini potrebbero essere
amici, fa ridere,
no? Il figlio di una trapezista, ex schiava, nomade suli ed il figlio
di una
regina?” aveva considerato Inej, “Direi che il
figlio di un’eroina popolare in
tutto il Mare Vero e di un Regina sia più vicino alla
realtà” aveva detto lui, “O
il figlio di un bastardo con il figlio di un bastardo” aveva
proposto lui.
‘Tu
e il Re Nikolai vi somigliate, sai? Due bastardi con un feticcio per i
guanti
ed una passione per donne suli che potrebbero farvi il culo a
strisce’ lo aveva
preso in giro una volta Jesper, vittima di troppi bicchierini di Whisky.
Una
cosa stupida, ma anche vera.
Il
bambino aveva smesso di bere, apparentemente soddisfatto, ma Inej non
aveva
dato cenno di volersene separare, c’era una certa stanchezza
nel suo viso, ma
non sembrava intenzionata a dormire.
Kaz avrebbe dovuto dirle di andare a dormire che sarebbe rimasto lui di
guardia, ma era un momento così bello, così
intimo. “Hai già scelto il nome?”
aveva chiesto Kaz.
Era un argomento difficile, era un argomento complicato,
perché la parte più
egoista – la maggior parte di lui – voleva un nome,
ma non aveva il coraggio di
chiederlo.
Fino a che non era nato non avevano saputo neanche il sesso, nonostante
la
sciamana-sciacallo avesse spergiurato fosse una bambina, sicura di
quello che i
Sankti le avevano donato; ma non avevano neanche discusso di nomi.
Sarika aveva
dichiarato fosse di malaugurio parlarne prima della nascita ed Inej era
sembrata
osservante dello stesso credo di sua madre.
Jesper di rimando aveva cominciato a suggerire nomi da quando lo aveva
saputo,
la metà di essi erano varianti del suo nome.
“Quasi mi dispiace che non sia
femmina per non poterla chiamare Jesperyn” aveva scherzato
Inej.
Kaz
aveva fatto roteare gli occhi, decisamente stanco di quello stupido
gioco di Jesper.
“Vorrei che lo scegliessimo insieme, come due persone
normali, Kaz” aveva
ripreso a parlare Inej, “Anche se c’è un
nome che mi piacerebbe” aveva ammesso,
“Yarden, che scorre” aveva detto
calma, “Un inno all’avanzare, al non
fermarsi mai, ma lasciare alle spalle il passato, con la sua angoscia
ed il
dolore. Qualcosa che in cui e te non siamo molto bravi, ma che spero
nostro
figlio possa fare.”
“Suona bene” aveva considerato lui,
“Forse un po’ troppo suli, non che mi
dispiaccia, ma per un ragazzo che vivrà a Ketterdam, forse
ci vuole un nome
kerchiano, per quanto orribili siano” aveva considerato Inej,
con un sorriso
dolce, “Yarden ha delle traduzioni in altre lingue, pensa in
kerchiano anche
più di una” aveva spiegato.
Kaz
aveva aggrottato le sopracciglia.
“Uno
di questi è Jordan” aveva spiegato, allungando una
mano per accarezzare la
guancia di Kaz, lui si aveva inseguito quel contatto quasi con gioia.
“Jordan,
Jordan, si” aveva ammesso, con troppa euforia nel cuore di
quanto riuscisse a
comprendere. Troppo.
Jordie.
Di
nuovo Jordie, ma non lo stesso Jordie.
E
quella volta sarebbe andato tutto bene, Kaz se ne sarebbe assicurato,
quella
volta avrebbe fatto le cose per bene e, forse, forse, avrebbe potuto
perdonarsi.
Forse
non erano le ragioni migliori per aver un figlio, ma era più
di quanto avesse
mai avuto prima.
“Jordan Brekker, allora, o Jordan Ghafa … immagino
che a questo penseremo dopo”
aveva concesso lei.
Lui le aveva sorriso, trovando, quasi, dolore in
quell’azione, così poco
abitudinaria: “Forse anche Jordan Rietveld.”
Forse
quel bambino meritava di più di Kaz Brekker, il Signore del
Barile, forse
meritava Kaz Rietveld, che era ancora capace di amare
…
[1]
La prima
parte della frase è tratta dai libri, mentre quel Mejo
è un’invenzione,
cercando di basarmi sul Meja dei libri – mia figlia
– che aveva come
ispirazione da Mi hijia.
[2]
L’Italiano
è una lingua intensiva, il latino è musicale
(perché si basa sulle lunghezze
delle vocali che sulle intensità). Comunque ho deciso che il
suli non ha senso,
perché all’inizio la Bardougo si rifaceva al
Serbo-Croato-Bosniaco ed inseguito
al Romani (con chiare accezioni latine). Anche
Non ti preoccupare nei libri ha due
diverse traduzioni: ne brinite e mene
yaram, probabilmente questo
è dovuto al fatto che pur essendo un solo popolo etnico,
sono divisi in gruppi
culturali diversificati – avevo pensato di inserire questa
considerazione nel
testo, ma mi sembrava troppo specifico e troppo pesante.
[3] Juliana è il nome che ho scelto per la sorellastra di Wylan, so che il nome non sembra molto ‘olandese’ ma lo ho preso da quello di Juliana Louise Emma Marie Wilhelmina, regina (regnante) dei Paesi Bassi dal 1948 al 1980.
Ehm
… tecnicamente questa storia si svolge
nell’universo
di SKAZKI OB ISTINNOM MORE, ma chiaramente non è necessario
averla letta (sono
solo io che mi faccio pubblicità).