27/04/2023
3 recensioniLike (an idiot)
Pestare del letame per strada, toccare accidentalmente una superficie pubblica senza guanti, finire le scorte personali di disinfettante, essere in zona schizzi di chi parla sputacchiando, tagliarsi con un chiodo arrugginito, avere una pistola puntata alla testa ed essere costretto a scegliere tra morire o pungersi con una siringa infetta.
Sakusa Kiyoomi doveva essersi inimicato qualche potente divinità, perché tutte le cose sopracitate erano da sempre state (in ordine crescente) le sue maggiori paure. Eppure, non una sola di quelle era peggiore di quanto appena successo.
Lo sguardo di Kiyoomi era vacuo. Il suo viso più pallido che mai, i muscoli atrofizzati e resi di pietra dallo shock. Si trovava seduto nel salotto di casa propria, sulla sua poltrona preferita. Un posto magico ed immacolato sin da quando il pallavolista misofobo aveva acquistato quell’appartamento. Quella zona di casa sua era inviolabile, l’accesso negato anche ai suoi genitori e a suo cugino (soprattutto a suo cugino). Se c’era un luogo in cui Sakusa poteva dirsi al sicuro, quello era la sua poltrona. Se c’era un luogo in cui Sakusa sentiva di non avere paura di nulla, quello era la sua poltrona.
Non più.
Era successo il peggio.
Il mondo intero avrebbe anche potuto essere conquistato da un nuovo, mortale virus – un virus per il quale non si riusciva a trovare il vaccino, magari, e che persino arrivasse a posticipare nientepopodimeno che le Olimpiadi! – e Kiyoomi sarebbe stato ugualmente meno traumatizzato.
Un Like.
Uno stramaledettissimo “Like”! Ecco svelato il grande disastro.
Chissà come (conosceva la risposta), chissà perché (sapeva benissimo anche quello), dopo aver finito di cenare Sakusa si era ritrovato ad oziare su Instagram, ed in particolare sul profilo personale di una persona.
Un giocatore.
Un alzatore.
Un cazzone.
La sua cotta.
Miya Atsumu.
E c’era di peggio: la foto che casualmente si era ritrovato a cliccare due volte risaliva a sette mesi prima.
Sette mesi.
La media con cui Miya pubblicava foto su Instagram? Un post e mezzo al giorno.
La vita di Kiyoomi era finita. Non restava che trovare il giusto pugnale, mettersi in zazen e fare harakiri.
Il mondo stava crollando. I colori erano spariti, i suoni anche. Tutto ciò che riusciva a vedere di fronte a sé era il ghigno compiaciuto di quell’idiota montato di testa; tutto ciò che desiderava era organizzare la propria fuga all’estero.
Kiyoomi aveva immediatamente tentato di rimediare al proprio imperdonabile errore deselezionando il cuore sotto il post, ma era troppo tardi. Passò un minuto, due, poi dieci. Infine, quando il peggio sembrava essere passato, una telefonata.
Sakusa abbassò lo sguardo sul suo adesso più che mai odiato cellulare e lesse il nome che vi lampeggiava sopra:
Sakusa Kiyoomi doveva essersi inimicato qualche potente divinità, perché tutte le cose sopracitate erano da sempre state (in ordine crescente) le sue maggiori paure. Eppure, non una sola di quelle era peggiore di quanto appena successo.
Lo sguardo di Kiyoomi era vacuo. Il suo viso più pallido che mai, i muscoli atrofizzati e resi di pietra dallo shock. Si trovava seduto nel salotto di casa propria, sulla sua poltrona preferita. Un posto magico ed immacolato sin da quando il pallavolista misofobo aveva acquistato quell’appartamento. Quella zona di casa sua era inviolabile, l’accesso negato anche ai suoi genitori e a suo cugino (soprattutto a suo cugino). Se c’era un luogo in cui Sakusa poteva dirsi al sicuro, quello era la sua poltrona. Se c’era un luogo in cui Sakusa sentiva di non avere paura di nulla, quello era la sua poltrona.
Non più.
Era successo il peggio.
Il mondo intero avrebbe anche potuto essere conquistato da un nuovo, mortale virus – un virus per il quale non si riusciva a trovare il vaccino, magari, e che persino arrivasse a posticipare nientepopodimeno che le Olimpiadi! – e Kiyoomi sarebbe stato ugualmente meno traumatizzato.
Un Like.
Uno stramaledettissimo “Like”! Ecco svelato il grande disastro.
Chissà come (conosceva la risposta), chissà perché (sapeva benissimo anche quello), dopo aver finito di cenare Sakusa si era ritrovato ad oziare su Instagram, ed in particolare sul profilo personale di una persona.
Un giocatore.
Un alzatore.
Un cazzone.
La sua cotta.
Miya Atsumu.
E c’era di peggio: la foto che casualmente si era ritrovato a cliccare due volte risaliva a sette mesi prima.
Sette mesi.
La media con cui Miya pubblicava foto su Instagram? Un post e mezzo al giorno.
La vita di Kiyoomi era finita. Non restava che trovare il giusto pugnale, mettersi in zazen e fare harakiri.
Il mondo stava crollando. I colori erano spariti, i suoni anche. Tutto ciò che riusciva a vedere di fronte a sé era il ghigno compiaciuto di quell’idiota montato di testa; tutto ciò che desiderava era organizzare la propria fuga all’estero.
Kiyoomi aveva immediatamente tentato di rimediare al proprio imperdonabile errore deselezionando il cuore sotto il post, ma era troppo tardi. Passò un minuto, due, poi dieci. Infine, quando il peggio sembrava essere passato, una telefonata.
Sakusa abbassò lo sguardo sul suo adesso più che mai odiato cellulare e lesse il nome che vi lampeggiava sopra:
“Miya Atsumu”
Kiyoomi voleva solo morire.