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Autore: Teony    15/05/2023    2 recensioni
Durante una tempesta di sabbia, i bambini di Aaru trovano riparo nella casa della Guardiana e per passare il tempo, decidono di raccontare delle storie.
Anche a Cyno viene chiesto di narrarne una.
[...] Il Deserto.
È su questo tema che la sua mente decide di impuntarsi. Scruta la debole fiamma, danzare sullo stoppino, forse in essa cerca ispirazione.
L’eco di una voce lontana gli carezza le orecchie, freme. «C’era un bambino» mormora ed ha la sensazione che nella stanza sia appena calato il silenzio, che persino il vento si sia zittito. [...]
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Candace, Collei, Cyno, Dehya
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Frammenti'
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Il tempio del silenzio
 
DisclaimerSe state cercando il clown che fa freddure, gioca a carte e crede nel PoTeRe dElL'aMiCiZIa, potete giocare ai nuovi eventini, che lo stanno letteralmente stupr*ndo. 
Se cercate quel personaggio che, mentre il deserto muore di fame, pensa a fare partite, ignora i fenomeni razzisti che ha subito, come se non ci siano mai stati, dimentico persino del suo ruolo di Mahamatra, o che bisticcia stupidamente con un "hat guy" di cui non gli dovrebbe importare di meno, questa storia non fa per voi. 
 
Il Cyno di cui parlo qui è basato su quello del fumetto/archon quest/trailer del Teyvat/info su di lui sparse per la mappa, con relativi approfondimenti sulla sua lore (che la Shitoverse non farà mai, perché troppo impegnata a propinare porcherie pegi 0) mischiando elementi della cultura egizia antica.
Quindi, nel caso è ciò che state cercando: siete i benvenuti e vi auguro una buona lettura.



È una di quelle sere in cui Aaru si chiude su se stessa, ancor più del solito. Porte e finestre sono sigillate di fretta, mentre la Guardiana e le sentinelle setacciano il villaggio, così dall’assicurarsi che nessuno stia ancora vagando per le strade, ignaro del pericolo.
È in arrivo una tempesta di sabbia, del tutto imprevista, così che le procedure di sicurezza sono state più repentine ed arrangiate del solito.
Candace ha ordinato di fretta a Cyno e Dehya di occuparsi del gruppo di ragazzini, per quell’ora riunito nella piazza principale, perché intento ad ascoltare i regolari insegnamenti di Jawhair. A nulla sono servite le insistenze del Mahamatra di scortare la compagna per il villaggio.
Lei se la sarebbe cavata da sola, come sempre.
“Aaru è mia responsabilità” gli ha detto. “Porta i bambini in salvo. Io vi raggiungerò il prima possibile”.
Così l’ha vista partire, con due guardie al suo seguito.
Lo sa il perché ha rifiutato categorica ogni suo possibile aiuto: Collei è ad Aaru e Cyno ha una responsabilità troppo grande su di lei, per poterla lasciare sola, in un momento così difficile.
I giovani di cui Aaru può vantare, che non siano malati, troppo piccoli per potersi muovere autonomamente o troppo grandi per non poter essere già importante manodopera, sono davvero pochi: tredici in totale.
Quattordici quest’oggi, contando Collei.
Sono stati scortati tutti di fretta nella casa della Guardiana, perché la struttura a loro più prossima. Dehya si è occupata di sorreggere Jawhair, mentre Cyno ha verificato che nessuno dei bambini sfuggisse alla sua giurisdizione. Così si sono chiusi all’interno, sicuramente velati da speranze ed angosce contrastanti, fra cui una sola emerge: il timore che questo edificio divenga la loro tomba, nel caso la tempesta di sabbia sia impietosa.
Cyno sorveglia la sua protetta, vigile. Sa bene di averle promesso di riaccompagnarla nella foresta quest’oggi: c’è una ronda che la aspetta e deve ancora terminare i propri compiti da Ranger. Infatti è stretta in un angolo, in silenzio e stringe la sacca da viaggio sul petto, come se ansiosa di andar via. La sua immobilità, tuttavia, lascia intendere la sua arrendevolezza alla situazione. È conscia del pericolo, per quanto non abbia mai visto una tempesta di sabbia.
Lui sospira appena, prima di discostare lo sguardo. Forse dovrebbe confortarla, formulare una nuova promessa, ma rinuncia ben presto all’idea, perché la tensione nella stanza cresce, appena il vento sibila più impetuoso, fra gli spiragli nel tetto. Le fiamme sugli stoppini tremano, le loro ombre si agitano convulse sulle pareti.
Nessuno osa fiatare.
Dehya è incollata al muro, a braccia conserte e fissa il pavimento con un cipiglio nervoso. Jawhair siede in un angolo, stringendo a sé due dei bambini più piccoli, che cercano nel contatto una debole certezza.
Gli altri sono distribuiti lungo il perimetro della stanza, chi rannicchiato su se stesso, chi stretto al compagno più prossimo.
Cyno solleva gli occhi al soffitto, all’ennesimo ululo del vento, anche più aggressivo del precedente. Spera che Candace riesca a raggiungere casa in tempo. Il dubbio che abbia trovato un riparo sicuro lo dilanierebbe, nel caso restasse lì fuori.
Tuttavia, non deve preoccuparsene troppo, perché, poco prima che la tempesta imperversi, Candace li raggiunge.
È una reazione istintiva che lo obbliga ad alzarsi ed avvicinarsi. La fidanzata deve aver colto la sua muta domanda nel solo fissarlo. «Va tutto bene. Sono tutti al sicuro.» si disfa del mantello. Lui la osserva, la verità è che avrebbe bisogno di riferirle quanto si sente inquieto, ma si limita a baciarla a fior di labbra.
Il gesto viene subito accolto, con la medesima dolcezza.
«Stanno tutti bene» le mormora lui, sulle labbra. Lei annuisce e lo ringrazia a mezza voce.
«Dehya, ti prego, prendi altre candele, sono in cucina. Questa luce non è sufficiente.»così la Guardiana ripone il mantello sul divano.
L’Eremita si scolla dalla parete ed esegue con diligenza, senza dire una parola. Torna in sala con ciò che è riuscita a trovare.
L’edificio viene presto riempito di luci, uno spirito di cameratismo permea l’aria: le candele vengono lasciate al centro della stanza, così dal dare a tutti la possibilità di prenderle e distribuirle lungo tutto il perimetro. Fra i bambini c’è chi decide di accendere lo stoppino, chi di mantenere i lumini: un piccolo gesto di solidarietà reciproca, in un momento di così forte insicurezza. Così vengono fissate al suolo con la cera calda, in punti che non siano da troppo ostacolo ai movimenti.
Candace recupera una bugia dallo scaffale, Cyno le passa una candela, prima di accenderla. Sente di essere contemplato con intensità, nell’eseguire l’azione. Poi si osservano, nello stringere le reciproche mani sulla debole e tremula fonte di luce. Ne percepiscono il calore.  
Forse vorrebbero parlarsi di più.
Di sicuro lui ha tanto da dirle, ma le parole, vista la precaria condizione in cui versano, rifiutano di venir fuori. C'è un lato di sé, però, che crede di non essersi mai sentito così a casa prima d’ora, perché questo stato di sospensione, di timori ed incertezze, fa parte della cultura del Deserto da ormai così tanto tempo, che filtra sotto la pelle di chiunque vi nasca.
È qualcos’altro che accomuna lui e Candace.
Qualcosa che accomuna tutta Aaru.
Collei tutto ciò non lo comprende: a Cyno basta che osservarla un attimo, per intuirlo. Lei ha solo paura ed anzi, percepisce una simile intemperie come ingiusta e violenta, per questo la trova inaccettabile. Vorrebbe solo potersi rifugiare nel suo letto, fra le certezze della foresta, il prima possibile.
La Guardiana spezza l’intenso scambio di sguardi, per rivolgersi ai presenti. È l’unica che ha avuto il coraggio di rompere il silenzio, senza indecisione. «Cosa sono tutti questi musi lunghi?» poggia la bugia al centro del pavimento. «Avanti, disponiamoci in cerchio, bambini. Non è proprio il caso di essere così tristi.» Si siede, incrocia le gambe, per poi invitare Cyno a sederle affianco, cosa che lui non perde tempo a fare.
«Dehya, Collei, anche voi. Forza.» le due la fissano titubanti, ma la assecondano. «Siccome saremo chiusi qui per un po’, direi che è meglio trovarci qualcosa da fare, no?»
Anche Jawhair prende posto, senza lasciare i due più piccoli.
«Facciamo un gioco» annuncia la Guardiana, sorridente.
Cyno la osserva. La conosce abbastanza per poter cogliere nel suo sguardo il timore che la sta assalendo, ma che sa di non dover trasmettere, perché se anche lei dovesse cadere nella paura, Aaru cadrà. Ed è per questo che è necessario che si inventi qualcosa, così dallo smorzare con violenza la tensione.
Alcuni dei bambini passano a fissarla, incuriositi. Altri continuano a stringersi al compagno vicino o chiudersi in se stessi, anche più di prima.
«So che Jawhair vi ha raccontato tante storie, vero?»
I più temerari annuiscono appena.
«Beh, io ora voglio sentirne alcune, da voi. Chi racconterà la storia più bella, verrà in escursione con me, la prossima volta.»
Qualcuno ha rizzato di poco la schiena, prima sono due, poi tre, poi cinque. Cyno capta il loro interesse crescere, anche se è impossibile dire se siano interessati più alla ricompensa o all’unico desiderio di dimenticare il pericolo, giusto oltre la porta, per più tempo possibile.
Il vento raggela l’atmosfera per un’ennesima volta. Non c’è una fiamma che non vacilli convulsa ed è forse proprio il disperato tentativo di non pensare a spronare Simin ad aderire alla proposta per prima.
«Questa è una storia che mi ha raccontato un mangiafuoco, che ha viaggiato tantissimo.»
La tempesta di sabbia è arrivata. Imperversa all’esterno, picchia sulle persiane di legno, filtra fra i fori del tetto.
Cyno solleva ancora lo sguardo al soffitto, prima che noti Collei fare altrettanto.
«C’era un principe di un regno lontano lontano. Così lontano che il mangiafuoco ha detto nessuno l’ha mai visto, prima di lui» la voce della bambina è decisa, squillante. È palese il suo tentativo di sovrastare i sibili del vento e Cyno nota come l’idea di Candace si sia rivelata efficace ancora una volta, perché tutti i presenti s’incollano alla narrazione, forse senza neanche ascoltarla davvero. Cercano nelle parole della bambina un disperato appiglio, per distrarre la mente.
La piccola Simin si contraddice spesso, nel raccontare la propria storia. Fra salti temporali poco credibili e vicende che rasentano la più sfrenata delle fantasie giovanili. Di come il principe, protagonista della sua vicenda, da essere prigioniero, lo si ritrova libero senza chiari nessi logici, ed anzi vincitore contro Asfet, il mostruoso serpente delle tenebre, così dal riportare la luce nel mondo.
«Però non ricordo molto bene… il mangiafuoco non è stato proprio chiarissimo» confessa di punto in bianco, riducendo la voce quasi ad un sussurro.
«Va benissimo Simin, sei stata comunque molto brava» è il giudizio della Guardiana.
«Io ne conosco una più figa» interviene Isak. «Me l’ha raccontata il nonno.» e chissà per quale ragione, nel dirlo, cerca l’attenzione di Cyno, come se voglia una sua approvazione. «Sì insomma, lo sapete che mio nonno è un Gate Keeper, no? Beh, prima di essere deportato qui dall’Akademiya, ha detto che ha visto tante cose strane, anche se non le ha mai sapute spiegare davvero.»
«Cerca di farcele capire, allora, presuntuoso che non sei altro. Visto che sei tanto più bravo di me!»
«Bambini, non è il momento di bisticciare» li intima la Candace.
Simin gli allunga la lingua, ma non dice niente. Si ritrae a braccia conserte.
«Beh» inizia Isak. «Era nel periodo in cui il Mahamatra era scomparso.»
Cyno ha un brivido, nel sentirsi chiamare in causa.
«Nonno ha detto che era stato trascinato di peso in questa stanza, perché aveva scoperto qualcosa che i Matra non volevano ed era stato lasciato qui. Ha detto che c’era qualcuno, non tanto lontano da lui, che piangeva. Lui aveva provato ad avvicinarsi, ma non poteva, anche se non ne ricorda il motivo.»
La storia sta già assumendo connotazioni lugubri. È davvero un bene che in una situazione così precaria, ci si metta a discutere delle vittime dei deliri di Zandik?
Cyno mena uno sguardo a Collei. La vede serena, anzi, persino incuriosita. Poi passa a Candace, speranzoso di poter condividere i propri muti dubbi, ma la Guardiana è rapita dalla narrazione ed anzi, non osa scollare gli occhi dal bambino, il quale, accortosi dell’attenzione ricevuta, si fa anche più temerario.
«Ha detto che ha provato a chiamarlo tante volte, ma non ha mai ricevuto risposta. Gli ha chiesto cosa gli avessero fatto e chi. Ancora nessuna risposta. Però quel tizio gli ha detto una parola, ripetuta tante volte: venduto. Venduto. Venduto.» la voce del bambino si assottiglia, così dal rendersi anche più accattivante. «Il nonno ha provato a chiedergli cosa volesse dire, ma niente. Non ricorda cosa successe dopo. Però sa solo che forse qualcuno l’ha colpito in testa in quel momento, o qualcosa di simile. E quando ha riaperto gli occhi…» si concede persino una pausa, giusto per accrescere la tensione. È visibile che si stia divertendo. «Il tizio non c’era più. Al suo posto aveva solo visto una chiazza viola ed una scodella, sporca di una sostanza strana, sempre viola. Quel tizio, il nonno, non l’ha mai più rivisto. Ma mi ha detto che secondo lui si è trasformato in una mummia o qualcosa di simile ed adesso vaga nel deserto alla ricerca di cibo.»
Diversi dei bambini sono stupefatti, altri lo tacciono di aver detto idiozie, ma a Cyno sfugge un sorriso. Se l’introduzione poteva essere credibile, il finale è chiaramente risultato della creatività di Isak.
Simin, tuttavia, sembra indispettita.
«Io conosco una storia molto più spaventosa.»
Cyno raggela, perché ad emettere suddette parole, con un tono distante, persino di sfida non è altri che Collei. La sua protetta guarda Isak quasi con superficialità. Probabilmente è anche ancora innervosita dal mancato ritorno a casa.
Di storie terribili, lei avrebbe da raccontarne molte, ma il Mahamatra non le permetterebbe mai di lasciarsi andare a ricordi dolorosi, pur di ingraziarsi un pubblico di piccoli curiosi. «Collei…» la richiama, tenue. Lei sembra aver colto i suoi timori, perché è pronta a rispondergli: «È solo una storia che mi ha raccontato il mio maestro.»
Cyno tira un segreto sospiro di sollievo.
«Oh, una storia della Foresta, quindi» è il commento caloroso di Candace, ma il fidanzato può cogliere in esso una velata ironia.
Come non detto, geme lui fra i pensieri. Per un attimo aveva dimenticato la spontanea antipatia che lei riserva per tutto ciò che transita aldilà delle mura di Samiel.
«Aspetta, il tuo maestro? Ma chi è? Quel tipo con le orecchie giganti a punta?» chiede Dehya, sprezzante.
Collei annuisce e Cyno si convince che dovrebbe indurre la sua figlioccia a lasciar parlare qualcun altro o raccontare qualsiasi altra cosa, perché avverte sottopelle una spiacevole sensazione e sa bene a cosa sia dovuta.
«Oh, certo. Lui.» Candace affila il tono, ma non smette di sorridere, per quanto, ora che il Mahamatra ci fa caso, la sua espressione risulta davvero sinistra. Sicuramente per le tremuli fiamme delle candele, che creano sul suo viso interessanti giochi di luce.
«Coraggio Collei, ti ascoltiamo» la incita la Guardiana e Cyno vorrebbe davvero supplicare la sua protetta a lasciar perdere. Perché non ha certo dimenticato ciò che è successo l’ultima volta a Sumeru City, quando, per puro caso, la sua fidanzata ed il suo compagno di giochi si sono ritrovati nello stesso tavolo, sproloquiando su quale delle due zone di Sumeru fosse la migliore.
Il litigio si era protratto a tal punto, che aveva dovuto trascinare via Candace per il braccio, pur di impedire che i due finissero a botte.
Per fortuna, la sua figlioccia è ignara di tutto ciò.
 In ogni caso, non ha la forza di fermarla, perché Collei sembra ravvivarsi, nell’avere addosso l’attenzione di tutti i presenti. «Beh, dovete sapere che il mio maestro è un importante ricercatore. Non c’è una sola zona della foresta che non abbia visto e non c’è una sola pianta che non conosca.» a disturbare la narrazione c’è solo il soffio del vento. «Ebbene, una volta stava testando le proprietà di una particolare pianta. Era un’enorme scoperta, perché non ne aveva mai vista una simile. Così si era addentrato nel cuore della foresta, perlustrando la zona. È qui che ne ha trovato un intero gruppo. Vi risparmierò i dettagli sui suoi procedimenti di lavoro. Fatto sta che, dopo qualche ora, a poca distanza da lui avverte uno strano fruscio.»
Possibile che, senza alcuna specifica ragione, si stiano prediligendo storie d’orrore? Mentre una tempesta di sabbia imperversa all’esterno, tra l’altro.
Eppure il piccolo pubblico pende dalle labbra di Collei, ad occhi strabuzzati. Che ragazzini temerari.
«Ed è qui che lo vede…»
Di nuovo una pausa di sospensione.
«Un fantasma!?» sbotta Isak.
«Un Aranara?» ipotizza Simin.
«Oh, no. Niente di tutto questo. Qualcosa di davvero orribile. Il coniglio umano.»
Cala il silenzio.
«Sì. So che vi sembrerà strano. Ma vi giuro che il maestro l’ha visto. L’ha descritto perfettamente.»
Cyno aggrotta la fronte.
«Per farla breve era umano in tutto… tranne che la testa. Infatti aveva questa enorme testa da coniglio. E non ho finito. Sapete cos’è che lo rendeva davvero terribile? Beh. Era totalmente nudo.»
Eh?
«Sì, ed anche accaldato. Il maestro l’aveva spiato da dietro ad un cespuglio ed è stato allora che ha capito a cosa erano dovuti quei rumori strani. Il coniglio umano gemeva.»
«Stava male?»
Collei scuote la testa, il suo volto è marmoreo, quasi sereno, nel dire l’ultima cosa che Cyno si aspettava di sentire. «Faceva sesso con un albero.»
«Collei!?» Cyno ha il volto in fiamme. Cosa mai va a raccontarle quell’idiota di Tighnari?
Candace è sorpresa, ma divertita, perché si lascia sfuggire una risata. Dehya è semplicemente senza parole, mentre fra i bambini si dilagano sguardi interrogativi.
«Cosa significa…?» chiede uno di loro, infatti.
«In realtà ha detto “È diventato uno con la foresta” quindi potrei aver frainteso—»
«In realtà credo sia il caso cambiare discorso» interviene il Mahamatra bruscamente, troncando ogni possibile replica. «Collei…» la richiama, torvo.
La sua protetta sussulta. Gli occhi da cerbiatto puntati su di lui. Deve aver colto chiare note di rimprovero, nel suo tono. «Dopo dobbiamo parlare.»
«Ma—»
«Necessariamente.»
«Okay…»
Poi Cyno folgora la sua fidanzata con gli occhi, la quale sta ridendo di gusto. «Va bene, va bene. La smetto» gli dice lei, trafelata. «È che la storia mi è piaciuta davvero.»
«Non sei divertente.»
«Beh… Collei lo è stata» è pronta a dichiarare la Guardiana e lui di nuovo vorrebbe incenerirla.
«Va bene, basta. Ora tocca a me.» prorompe Dehya, d’un tratto. «Abbiamo ascoltato una fiaba, una storia dell’orrore ed una storia… comica. Quindi direi che adesso è il caso di una sana morale. Vi racconterò una favola.»
E l’argomento del discutibile uomo-coniglio viene, fortunatamente, accantonato.
«Vi racconterò la storia del leone, il falco, la volpe e lo sciacallo.»
E Cyno solleva gli occhi, stavolta più per genuina disperazione. È sicuro che neanche questa gli piacerà affatto. Unica fortuna è che Candace sembra non aver ancora colto i chiari riferimenti e supplica che resti così.
«Il falco, il re degli animali del deserto, si assicurava che tutti i suoi sudditi fossero felici e vivessero al meglio delle loro possibilità. Il leone e lo sciacallo erano i suoi migliori amici e contava sempre su di loro. Un giorno lo sciacallo riferì al suo sovrano che, nello spingersi oltre il deserto, aveva scoperto un’oasi sconfinata, piena di cibo e piante sgargianti.»
«È la foresta!» trilla una bambina.
Dehya ghigna. «Esattamente. Ma il re Falco ancora non lo sapeva, quindi mandò i suoi più fidati amici in esplorazione. Era convinto che, se si fossero stabilizzati lì, sicuramente nessuno dei suoi sudditi avrebbe più sofferto la fame.»
Il piccolo gruppo di spettatori è ammaliato, sicuramente perché già immagina le ricchezze di cui la Foresta, di fatto, dispone.
«Così, lo sciacallo ed il leone partirono. Si divertirono molto insieme, durante il viaggio. Erano davvero molto amici.»
Cyno si schiarisce la gola.
Candace sorride addolcita, nell’osservare la sua cara amica narrare con così tanto fervore. «Poi giunsero nella gigantesca oasi e qui qualcosa successe. Si separarono.»
«Oh, no…!» è il gemito che parte dal piccolo pubblico.
Ma l’Eremita annuisce greve. «quella che scoprirono essere una foresta era tanto grande, che si persero di vista. Il leone cercò il suo amico a lungo, ma senza trovarlo. Lo sciacallo, intanto, nel richiamare l’amico, aveva fatto uno strano incontro. Era la volpe.»
E da qui in poi, le cose non possono che degenerare, sia per la storia, che per la stabilità mentale di Cyno, perché ha una vaga idea del come questa favola finirà.
«La volpe lo avvicinò e lo sciacallo, visto il suo buon cuore, glielo permise. Gli raccontò tantissime cose, sulla foresta, sul dove trovare cibo e sul come attirare le prede migliori, ma il suo piano era perfido! Voleva spingere lo sciacallo a dimenticare la sua vera casa e così, tutti i suoi amici.»
Cyno osserva la propria fidanzata di sguincio e si paralizza nell’intravederla con gli occhi lucidi.
«Il leone però» tuona impetuosa la narratrice, «per fortuna riuscì ad evitare il peggio, perché li trovò. E così corse. Corse. Corse a perdifiato e caricò un pugno a piena potenza.» Dehya scatta persino in piedi, facendo sussultare parte dei presenti e così simula con fervore ogni colpo e Cyno sente l’imbarazzo aggredirlo. «Un cazzotto, e poi un altro, ed un altro ancora. Lo menò in pieno viso fino a fargli schizzare i den—»
«Ma non stavamo parlando di animali?» si permette d’intervenire Simin.
«Cazzo, hai ragione!»
«Dehya! Il linguaggio!» sbottano il Mahamatra e la Guardiana, all’unisono e lei trasalisce, prima di grattarsi la nuca e forzare un sorriso. Poi schiarisce di nuovo la voce. «Dov’ero rimasta? Ah, già! Il leone partì alla carica ed assalì la volpe, sotto lo sguardo sconvolto dello sciacallo. Gli fece così tanto male, che la volpe corse a gambe levate dalla paura e non si fece più vedere.»
«Direi, una fine meritata» è il sereno intervento di Candace, che obbliga il fidanzato a rabbrividire.
«Così i due amici fecero finalmente ritorno a casa, dove il Re Falco li aspettava con ansia. Gli spiegarono tutto ed infine stabilirono che era meglio restare nel deserto.»
«Che bella storia» sospira Simin.
«Molto di parte» commenta Collei. Su questo, Cyno non può darle torto.
«Morale della favola, bambini» gonfia il petto Dehya, fiera dei giudizi positivi sulla sua performance. «Mai fidarsi delle volpi. Possono essere davvero subdole e cattive.» e chissà per quale ragione adesso mena un’occhiata decisa al Mahamatra, il quale si vede obbligato a sviare lo sguardo altrove, pretendendo di non aver captato ogni messaggio sottinteso.
«Davvero una storia stupenda, Dehya. Grazie.»
L’Eremita sfiata realizzata, orgogliosa per il giudizio dell’amica, prima di tornare a sedere a gambe incrociate.
Ma la tempesta di sabbia ancora imperversa. I racconti non sono finiti.
«Ora a chi tocca?»
«Io voglio sentire una storia dal Mahamatra.»
Cyno sente il corpo farsi teso, prima di battere le palpebre e squadrare il volto deciso del piccolo Isak. Teme di non aver capito. «Sicuramente, con tutto quello che succede a Sumeru City, ne ha di cose fighe da raccontare.»
«Non sono molto bravo a raccontare storie» si scherma d’impronta. «È meglio che parli qualcun altro.»
«A me piacerebbe sapere dell’ultimo criminale che hai catturato.»
«Non posso parlarvene, sono vincolato dal segreto professionale.»
«Avanti, Cyno. Non vorrai fare scontento il pubblico. Se non puoi parlare del tuo lavoro, puoi sempre optare per qualsiasi altra cosa» lo esorta Candace. Ha quella tipica espressione, che ormai ha imparato a conoscere bene: sorriso malandrino, occhi scintillanti di curiosità e sfida, capo poggiato sulle ginocchia, strette al petto. L’idea che la sua richiesta venga assecondata le piace ed il Mahamatra non sa davvero come ribellarsi ad essa.
«A me piacerebbe tanto sentire una storia raccontata da te» si accoda Simin.
«Cyno sa un sacco di cose, ve lo garantisco.» adesso anche Collei calca la mano.
«Tranquillo, lupetto. Non ti mangiamo, se la tua storia farà schifo. Forse.» emette Dehya, sprezzante, prima di sogghignare assieme alla Guardiana.
Lui sospira. A volte si chiede davvero perché abbia scelto di infatuarsi di due bestie sadiche. La sua vita sarebbe stata probabilmente più semplice, in caso contrario.
Osserva quegli occhi strabuzzati, piantati con aggressività su di lui, carezzati dalle fragili fiamme delle candele. Essere al centro dell’attenzione è per lui così inusuale, che ne avverte addosso il disagio; ma nel contempo non vuole deludere nessuno.
È meglio che si decida ad elaborare qualcosa ed in fretta.
Una storia interessante… non crede di conoscerne. In realtà non ci ha mai davvero pensato e di sicuro non reputa di essere un bravo narratore. Cosa potrebbe mai piacere a dei demonietti del deserto? Si è consumato per così tanto tempo su saggi e libri di studio, che dubita gli sia rimasto qualche barlume di creatività.
Eppure quei piccoli occhi eccitati sono ancora qui, è chiaro il loro entusiasmo: il Mahamatra dell’accademia che racconta loro una storia. Deve per loro essere qualcosa di epocale.  
Il Deserto.
È su questo tema che la sua mente decide di impuntarsi. Scruta la debole fiamma, danzare sullo stoppino, forse in essa cerca ispirazione.
L’eco di una voce lontana gli carezza le orecchie, freme. «C’era un bambino» mormora ed ha la sensazione che nella stanza sia appena calato il silenzio, che persino il vento si sia zittito.
 
 
Un bambino.
Si stringeva nell’angolo, all’ombra, il più possibile. Si accartocciava su se stesso. Si tappava le orecchie.
Ma le urla erano ancora lì.
I pianti.
Le suppliche che lo strazio finisse, il prima possibile.
E poi violenti clangori di catene.
Il bambino singhiozzava a mezza voce, tremava di puro terrore. Perché sapeva che tutto questo dolore inimmaginabile, sarebbe ben presto toccato anche a lui.
Li aveva visti, sette soli prima: gli altri cinque bambini. Era stata la prima volta che aveva potuto accorgersi che il tempio ospitasse persino suoi coetanei.
Non aveva potuto vederli in volto, all’inizio. A tutti loro era stato imposto di vestire una sobria tunica, tanto lunga dal non mostrare né mani, né piedi e poi una maschera d’avorio, levigata ad arte, senza alcun tratto somatico, ma munita solo di fori per occhi e naso.
Aveva fissato quei bambini, velato di sorpresa, ma non vi aveva scambiato alcuna parola. Era rimasto immobile, in perfetto silenzio, esattamente come loro, subito innanzi alla propria sacerdotessa. 
Aveva potuto dedurne la sessualità di ognuno da un singolo elemento: era regola che ogni bambino venisse accudito da un sacerdote di sesso opposto, così che aveva potuto contare tre maschi e due femmine.
Forse si erano fissati reciprocamente, ma non ne aveva avuto certezza.
Erano trascorse venti lune, da quando il braccio gli era stato inciso.
Il rito di iniziazione deve cominciare. Questo aveva detto il sacerdote con la maschera del divino Hermanubi, laminata in oro, poi aveva sfilato fra i muti bambini. Gli incensieri ondulavano a ritmi sempre più frenetici.
Il bambino si era ritrovato a tossire appena, per quanto sapeva che il suo compito era quello di restare immobile e neutralizzarsi. Non ce l’aveva fatta, in quel lasso di tempo, perché il fumo gli aveva ostruito completamente i polmoni. Era tornato subito composto, però, forzandosi di ignorare la gola arsa e secca, sotto il sottile, ma chiaro invito al silenzio, da parte della sua sacerdotessa.
Così il Sacerdote con la maschera sgargiante, gli si era avvicinato. Gli si era chinato di fronte, gli aveva porto innanzi una coppa d’oro, che il bambino sapeva bene contenesse il sangue del bue, offerto in sacrificio agli dei quella stessa mattina. Vi aveva immerso indice e medio, così aveva segnato la fronte della sua maschera.
Poi aveva nominato i cinque nomi del Dio Al-Ahmar e con lui, invocato la presenza degli dei inferiori e discendenti. Così era passato agli altri bambini ed aveva ripetuto la medesima formula.
Il bambino aveva potuto notare il segno rosso su ognuno di loro: l’occhio stilizzato del dio, che ora iniziava a colare sulle loro palpebre.
Anche lui era stato obbligato a battere gli occhi a tratti, per via di quelle rade gocce di sangue.
Erano pronti.
Il rito tanto atteso poteva avere luogo.
Il Sacerdote dalla maschera sgargiante aveva preceduto tutti gli altri, subito seguito dai due portatori d’incenso. Aveva percorso le gradinate del tempio con solennità, poi aveva pronunciato la sacra formula. Le ante gli si erano spalancate di fronte.
Solo ai bambini era permesso entrare lì dentro, escluso il Sacerdote dalla maschera d’oro. Era il momento in cui lo sradicamento totale col conosciuto, doveva avere luogo.
Se si era formato, per disattenzione, qualsiasi legame di affetto tra i bambini e coloro che li avevano cresciuti, il processo d’iniziazione lo avrebbe tranciato di netto.
Alcuni avevano esitato a staccarsi dai propri sacerdoti, anche se per singoli istanti.
Lui no: il bambino aveva osservato l’ingresso del tempio con sentimenti confusi e per questo indecifrabili. Aveva visto il buio dell’interno, lo intimoriva, ma non a tal punto dal farlo retrocedere. Gli era stato indicato di salire la scalinata per ultimo, perché il più giovane del gruppo.
Così aveva fatto.
Ad accogliere il gruppo di bambini c’erano altri quattro individui, coperti da una semplice tunica, identici gli uni agli altri. Loro avrebbero aiutato il Sacerdote dalla maschera sgargiante a compiere la cerimonia iniziatica.
Ma tutto ciò l’aveva capito solo dopo. Quando le porte gli erano state chiude alle spalle, con un tonfo sordo. Dopo che, a seguito di un lungo momento nel buio completo, in cui aveva potuto avvertire il proprio respiro inquieto, battere contro la maschera d’avorio, i candelabri infissi su ogni colonna, vennero accesi.
E lì, al centro del piccolo tempio, c’era un altare.
Un altare che aspettava di accogliere loro.
Ognuno di loro.
Ed il bambino, in quell’occasione, aveva potuto conoscere la sventura dell’essere il più giovane. Fosse stato il più adulto, si sarebbe disteso su quell’altare senza alcun timore, perché ignaro di ciò che lo avrebbe atteso. Era convinto che il primo avesse sofferto molto meno degli altri.
Molto meno di lui, ancor prima che potesse stendersi su quella lastra intimidatoria.
Infatti, il più adulto si era lasciato svestire senza timore. Anche la maschera era stata rimossa, così che i presenti avevano potuto guardarne le fattezze. Era un bambino dai capelli radi e corvini ed un cipiglio di sfida, quasi disinteresse.
Quel bambino aveva fronteggiato il rito iniziatico senza davvero curarsene. Era convinto di avere ogni capacità per uscirne indenne. Era stato cosparso d’incenso, acqua benedetta e natron[1], da capo a piedi, senza tralasciare un centimetro del suo corpo. poi era stato fatto stendere.
Era stato allora che la sua determinazione era venuta meno, perché i quattro individui in tunica bianca gli avevano bloccato polsi e caviglie con le catene, poste sull’altare.
Ma il bambino più adulto non aveva mai provato la giusta paura, neanche quando gli era stato indicato di aprire la bocca e quella ciotola, che il bambino più giovane poi aveva imparato a temere, gli era stata avvicinata alla bocca.
Quel liquido violaceo, denso, opalescente, era stato fatto colare dritto nella sua gola.
Da lì erano cominciate le urla strazianti, gli spasimi di quel corpo nudo sull’altare, il clangore delle catene e le lacrime.
Il bambino più grande era morto, dopo un tempo infinito di strazi, sotto gli occhi di tutti i presenti.
Occhi sbarrati, rivolti verso le palpebre superiori, da cui colava copioso lo stesso liquido che era stato obbligato ad ingerire.
Il dio non l’ha scelto.
La sua cerimonia iniziatica è fallita.
Tutti i bambini lo sapevano.
Era già stato detto loro, da ben prima di entrare nel piccolo tempio, di essere pronti ad abbracciare la morte, perché era da essa che loro avevano il compito di riemergere.
Ma il bambino più adulto non si era mosso più. Il Dio Anubi lo aveva accolto nel regno dei morti, senza concedergli la possibilità di tornare indietro.
Così era stato rimosso dall’altare e la sua salma coperta con un telo. I corpi sarebbero stati imbalsamati a seguito di tutte le cerimonie d’iniziazione.
E così lo strazio era continuato.
Affrontato con crescente indecisione e paura. Era morto il secondo.
E la terza.
Ed il quarto.
Il Sacerdote dalla maschera sgargiante non sembrava contento, ma non si era mai lasciato sfuggire alcun commento.
L’ultima, prima del bambino più giovane, era stata una bambina. Tremava visibilmente, singhiozzava, era così terrorizzata dal non riuscire a mantenersi sulle gambe. Era stata sorretta, nel venire spogliata, poi purificata ed infine fatta stendere sull’altare.
Aveva dei bellissimi capelli ramati, legati in piccole trecce lunghe, un volto grazioso, gentile, ma ora rovinato dall’orrore. Era stato nel guardarla, che lui aveva pensato: se solo fossero nati altrove, se solo non fossero stati figli del Tempio del Silenzio, magari avrebbero potuto parlarsi, conoscersi, persino avere la possibilità di volersi bene.
Invece erano lì. Lui stretto in un angolo, con la sola idea che presto sarebbe morto, lei inchiodata alla lastra di marmo, a gambe e braccia aperte e lo fissava, come cercando sicurezza nei suoi occhi.
Ecco perché, subito dopo, quando anche gli spasmi di lei erano iniziati, lui si era ripiegato su di un lato, accartocciato su se stesso.
Non aveva guardato più la bambina, anche se era certo che quella voce, aggredita dal dolore, lui non l’avrebbe mai dimenticata. Era una voce bellissima, travolta dallo strazio e gli graffiava le tempie, come nulla aveva mai fatto prima.
Il martirio di lei era stato il più brutale di tutti, perché lei non aveva voluto essere lì. Non gliene importava niente dell’iniziazione. Perché aveva accusato il Sacerdote di essere un mostro, fra le urla di dolore. E poi si dimenava, spasmodica.
Il clangore delle catene picchiava contro il marmo, con violenza crescente. Era la musica più triste e lugubre che il bambino aveva mai sentito in tutta la sua vita.
Mostri.
Ed il bambino aveva iniziato a piangere, sommesso.
Perché… perché sono costretta a morire?
Perché mi fate questo?
Non ho fatto nulla di male.
Ma la morte è una semplice fase della vita. A loro toccava semplicemente prima di altri. Non perché lo avessero scelto, non perché perseguissero un obbiettivo notevole.
Semplicemente erano nati lì, o almeno, così sapevano.  
Erano figli di Anubi e come tali dovevano abbracciarlo, con corpo ed anima.
Ed anche la bambina coi capelli ramati, dopo gli ultimi rantoli di dolore, quando le sue corde vocali erano ormai consunte dallo strazio, aveva smesso di muoversi ed era piombato un silenzio asfissiante, interrotto solo dai singulti soffocati del bambino.
Non aveva voluto vedere quando anche lei era stata rimossa dall’altare. Aveva desiderato scolpire nella mente l’immagine del suo viso ancora in vita, senza comprenderne la ragione. Aveva sussultato appena, stringendosi maggiormente nell’angolo, quando il Sacerdote con la maschera sgargiante gli si era avvicinato.
Ora toccava a lui.
Avanti. Alzati.
Ma lui aveva rifiutato di ubbidire.
Il più giovane era sempre stato colui che opponeva la maggiore resistenza al rito iniziatico. La Sacerdotessa gliel’aveva detto. E solo allora ne aveva capito la ragione: perché era l’unico, fra tutti, ad assistere al processo completo, per poi restare solo. Ancor peggio se prima di lui, nessuno era riuscito a tornare dal Duat[2]. L’unico a sentire la propria psiche corrodere, consumata da un’attesa ben più straziante della cerimonia d’iniziazione stessa e per questo il più instabile.
Così era lui, in quel momento.
Paralizzato dall’orrore, incapace persino di cogliere le parole che gli venivano rivolte. Non batteva neanche più le palpebre. Aveva gli occhi puntati su quell’altare, finché i quattro individui non gli si erano avvicinati, a seguito di un ordine del Sacerdote.
Così il corpo gli si era mosso spontaneo, aveva gridato, scalciato, si era divincolato dalla loro presa. Non si sarebbe spogliato. Non si sarebbe mai lasciato rimuovere la maschera. Non si sarebbe mai steso su quell’altare.
Prese a morsi chiunque lo stesse trattenendo dalle braccia, si era agitato enfatico, era stato tirato su di peso.
No!
Aveva urlato.
Non voglio! Lasciatemi!
Eppure era stato pressato sull’altare con forza.
Lasciatemi… vi prego.
Ma il Sacerdote dalla maschera sgargiante gli aveva pressato su naso e bocca un fazzoletto, inumidito di chissà quale sostanza.
Il bambino aveva avvertito il corpo assalito da tremiti, per poi rilassarsi gradualmente, fino a scivolare del tutto in un piacevole torpore. Piangeva ancora, ma il corpo gli suggeriva solo due semplici parole: lascia perdere. In fondo non c’è nulla di cui aver paura. La morte non è altro che un singolo istante. È il dolore ciò che davvero terrorizza.
Quegli individui mascherati potevano far di lui ciò che volevano, non era importante. Perché presto tutto sarebbe finito. E questo pensiero, forse anche a causa di ciò che era stato costretto ad inalare, lo aveva confortato.
Così era stato denudato, ancora disteso sulla lastra di marmo. Aveva sentito quelle dita percorrergli il corpo per intero, strofinarlo e bagnarlo su gambe, petto, braccia, collo, mani, piedi e viso. Il natron gli pizzicava la pelle e bruciava sulla ferita al braccio, ancora non del tutto cicatrizzata.
Così era stato incatenato, esattamente come tutti gli altri.
Ed altre lacrime gli erano colate dagli occhi, per poi gocciolare sull’altare.
Era stato forzato ad aprire la bocca e qui aveva stretto le palpebre, urlando al corpo una misera ribellione, che di fatto non c’era stata.
Aveva avvertito il liquido denso inondargli la bocca, colargli in gola, scivolargli lungo il costato e quando i quattro individui si erano ritratti, il martirio era iniziato.
Aveva urlato, in uno spasmo incontrollato. Il basso ventre bruciava, la pelle ardeva viva, si scarnificava.
Un altro urlo.
E davanti agli occhi non c’era più nulla di concreto.
C’erano però, tante bestie, sul suo addome. Canidi, lupi, sciacalli, gli graffiavano la pancia, gli scavavano nelle budella e ad ogni loro morso, lui gridava più forte. Le fitte erano a tal punto lancinanti dal pensare che il cervello gli si stesse liquefacendo.
Attorno a lui non c’era niente.
Niente che potesse capire.
Buio, poi immagini confuse, poi ancora dolore. Sentiva anche di cadere. Sprofondava nel vuoto dell’esistenza, mentre quelle bestie del deserto si cibavano realizzate del suo cadavere.
Gli occhi gli bollivano nelle orbite, perché cercavano di vedere ciò che alla mente umana è precluso. Aveva osservato gli astri scorrere davanti ai suoi occhi, la sua stessa esistenza proiettarsi oltre il mondo, oltre il serpente della notte.
Il dio della morte si trovava lì. Forse aveva chiesto a quel cadavere cosa cercasse. L’aveva domandato alla sua stessa anima e lui non aveva saputo rispondere. Non ci aveva neanche provato.
Si era sentito stracciare la pelle dal viso, preda di un dolore primordiale, così intenso dall’essere indecifrabile, raggiungendo un livello mistico.
Tutte queste sensazioni si erano concentrate nel suo addome, in un flusso di follia, spasmi eppure piacere. Lo stesso dio si era avvicinato, poi gli aveva afferrato la pelle, lo aveva lacerato di netto sul ventre, laddove i suoi servitori fedeli avevano scavato a lungo ed era entrato nello squarcio.
In quel momento, il bambino era morto. Non era stata alcuna sensazione a suggerirglielo, né una specifica consapevolezza.
Lo sapeva e basta. Era un puro e semplice non esistere, una sezione specifica dove non si prova nulla, anzi, allevia ogni dolore.
C’era stato il niente.
E poi la vita.
Il bambino aveva tirato un lungo urlo, colto da uno spasmo che lo aveva obbligato a balzare sull’altare. Era stato un neonato, che aveva appena abbracciato l’esistenza. Poi aveva annaspato. Non c’era una singola parte del corpo che non urlava dolore, ma piangeva. Stavolta non per terrore, ma per gioia.
Era tornato.
Ce l’aveva fatta.
Il Dio ti ha scelto, gli era parso di sentire. Ora sei un sacerdote Hermanubis.
 
Si riscuote, colto da un tremito. Batte le palpebre.
Per quanto tempo ha fissato la candela? Non lo sa. Solleva timido lo sguardo e nel guardare i volti dei presenti, s’incupisce. Nessuno osa parlare, ma tutti lo osservano e le espressioni che può cogliere sui loro visi, non gli piacciono. Per niente.
Cosa diamine ha appena detto?
In realtà, ha perso il controllo sulla propria narrazione da molto, non sa esattamente da quanto. Forse ha parlato più di quanto avrebbe voluto e ne ha la conferma nell’osservare la fidanzata e leggervi pura apprensione.
Oh, no.
Abbassa gli occhi, poi li svia in un punto indefinito. Non sa cosa dire e questo silenzio generale lo sta massacrando, perché non ha idea di come smorzarlo. Teme che una singola parola aggiunta, possa esporlo a pericolose supposizioni.  
«Beh.» Cyno non può fare altro che ringraziare Dehya mentalmente. Il suo tono sprezzante e superficiale è l’unica cosa che, in questo momento, gli fornisce la misera certezza di non aver compiuto l’irreparabile. «Direi che abbiamo un vincitore. Voi che dite, bambini?»
Ma l’argomento viene subito accantonato, perché una notizia ben più lieta viene annunciata. Candace intima tutti di fare silenzio, poi si alza di scatto ed apre una persiana. «La tempesta è finita» dichiara, sollevata.
 
 
***
 
Aaru finalmente riposa. Non c’è stato il tempo di ripulire le strade o conteggiare i danni. Ci si è solo limitati a rintanare nelle proprie case e scivolare nel sonno.
Così avrebbe voluto fare anche Cyno. Non c’è niente che potrebbe dargli più sollievo, del dormire di fianco a Candace, consapevole che la sua protetta stia riposando serena da un pezzo. La sua mente non è dello stesso avviso, sicuramente a causa dei ricordi dolorosi, riemersi così casualmente.
Unico conforto è che quella vita è da lui ormai così lontana, che dubita di averla vissuta davvero.
In ogni caso, non ha potuto chiudere occhio, ha sentito l’aria mancargli. Si è alzato dal letto, ben attento a non compiere alcun movimento, che potesse svegliare la compagna ed è uscito.
Non sa da quanto tempo siede sull’uscio, coi piedi immersi nella sabbia, sedimentata dalla tempesta. Però non ha intenzione di alzarsi, né di tornare dentro. Trova il silenzio di Aaru come confortante ed anzi, sotto il cielo, finalmente sgombro, gli appare persino magnifico.
Questa quiete: non ha mai potuto percepirla altrove. Né nel tempio, isolato dalla consapevolezza della sua cultura che appassisce, né tantomeno, nell’Akademiya, dove ancora assiste ai turpi crimini e vili corruzioni.
Nel villaggio della Guardiana, tutto è ridotto all’osso, non c’è nulla di cui potersi privare, ma si gioisce del poco che resta. Si gioisce dell’essere semplicemente ancora vivi, senza alcun complesso giudizio sull’altro.
Si gioisce, perché la storia di ogni singolo abitante non è ancora persa.
La sua storia, non è ancora persa.
La storia di Candace non è ancora persa ed anzi, forse è tutta da scrivere.
«Non riesci a dormire?»
Percepisce nel suo tono tutto l’affetto che prova nei suoi confronti. Cyno non si sorprende davvero, nell’averla subito alle spalle. L’ha sentita alzarsi, poco fa. Scuote debolmente il capo.
La compagna gli si siede subito accanto, gli prende la mano, gliela bacia con dolcezza, strappandogli un sorriso. «C’è qualcosa che posso fare, per aiutarti?»
«Ho solo… alcune cose per la testa.»
«Ti va di parlarne?»
«Non è necessario… Non sono importanti. Piuttosto, dovresti riposare.»
«Come faccio a riposare, sapendo che la persona che amo non ha letteralmente chiuso occhio, dopo una giornata a dir poco estenuante?» lo canzona lei.
Si fissano. Cyno non può fare altro che osservarla con profonda gratitudine, perché glielo legge negli occhi, quanto lei non possa fare a meno di preoccuparsi per lui. Coglie nello sguardo quanto lo ami e sia grata di averlo affianco.
Anche per lui è lo stesso, anche se gli risulta più difficile comunicarglielo ed è così bella: la vera regina del deserto, astro del mattino e della sera, coraggiosa, impavida, caparbia, eppure gentile e compassionevole. È in un gesto istintivo, che la bacia. Vuole solo ringraziarla, di esistere. Perché lei è la sua speranza. Lo è per lui, tanto quanto lo è per Aaru.
E Candace protrae il bacio senza esitazione. «Cyno» lo richiama a fior di labbra, subito dopo.
«Mh?»
«È per ciò che hai raccontato prima, che sei inquieto, vero?»
Lui freme, poi si ritrae e svia lo sguardo. In realtà non sa ancora quanto abbia riferito.
«Eri tu, non è cosi? Quel bambino.»
«Io non so neanche cos’abbia detto» le confessa, infine, esasperato. «Non voglio aver detto troppo…»
«Non hai parlato moltissimo, a dire la verità. Ci sono stati momenti in cui ti sei interrotto ed in generale, non sei mai sceso nei dettagli.»
Ciò lo fa sentire decisamente più sereno. 
«Ma c’è una cosa che voglio chiederti.»
«Candace, davvero…» l’ultima cosa di cui vuole renderla partecipe sono i suoi complicati pregressi.
«Era residuo di un Archon, quello che ti hanno fatto ingerire, vero?»
Cyno ingoia ed il suo silenzio le basta come risposta affermativa.
«È per questo che hai saputo aiutare Collei. È per questo che hai dei poteri così straordinari, che non dipendono dalla tua Vision.»
«Il processo utilizzato è stato diverso» dichiara soltanto «Ed anche il fine» ma non vuole addentrarsi nella questione. Episodi ben più dolorosi potrebbero emergere, se lo facesse.
«Cyno, io non voglio che ci siano segreti tra di noi.»
«Non ce ne sono» è pronto a risponderle.
«Lo so... ma a volte, mi parli così poco di te, che temo di non conoscerti abbastanza.»
E lui viene aggredito da un tremito.
Candace lo osserva solenne, per quanto sia quasi pronta a supplicarlo. «Posso capire che ti rifiuti di parlare di simili esperienze, ma io voglio che tu sappia che niente e nessuno potrà più farti del male, da ora in avanti. Che sarei disposta a ribaltare il deserto, pure di saperti al sicuro e sereno.»
«Candace, ti prego…» il cuore gli palpita frenetico, non riesce più a sorreggere il suo sguardo deciso, ma lei lo bacia di nuovo, con maggiore fervore. «Qualunque cosa accada, io ci sarò sempre per te.»
Freme. Sono troppe le emozioni che lo stanno aggredendo, però ora è lui a tornarle sulle labbra. «Allora resta qui con me, per un po’» le mormora, a mo’ di sfogo.
«Tutto il tempo che vorrai, amore mio.»
 


[1] Considerato il “sale magico” dagli egizi, utilizzato principalmente per purificazioni, conservazione di cibo e mummificazione.
[2] Regno dei morti, per gli antichi egizi.





 
   
 
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