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Autore: berettha    30/05/2023    2 recensioni
AU–niente Hogwarts, niente magie. Una storia senza pretese di due ragazzi che abitano un mondo poco gentile con loro.
Un po' OOC, perché sono cresciuti in un contesto completamente diverso e ho voluto adattarli ad esso.
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“Sono Sirius.”
“Remus.”
Quello aveva riso, “Buffo nome.” senza alcun accento a rovinare la sua perfetta dizione. Scandiva ogni parola senza impasticciarsi con la rotondità delle vocali, come invece succedeva a Remus.
Anche i suoi denti erano perfetti, una fila bianca ed ordinata che fece lo fece vergognare della sua bocca, gialla per il fumo delle sigarette e storta come gli scogli sul mare d’Irlanda.
“Anche il tuo.”
“E’ il nome di una stella! Non dovresti conoscerle, non fai il marinaio?”
“Scarico la merce. Non ci vado in mare.”
“Oh.”
Genere: Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: Remus/Sirius
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Altro contesto
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♜♙ 
TW. Descrizioni un po’ hot ma molto blande -secondo me!-, linguaggio scurrile, omofobo e forse un po’ troppo dettagliato.  
 
Lettore avvisato, lettore –mezzo- salvato, <3  
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𝐇𝐨𝐧𝐞𝐲, 

𝐰𝐡𝐞𝐧 𝐲𝐨𝐮 𝐤𝐢𝐥𝐥 𝐭𝐡𝐞 𝐥𝐢𝐠𝐡𝐭𝐬 𝐚𝐧𝐝 𝐤𝐢𝐬𝐬 𝐦𝐲 𝐞𝐲𝐞𝐬 𝐈 𝐟𝐞𝐞𝐥 𝐥𝐢𝐤𝐞 𝐚 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧 𝐟𝐨𝐫 𝐚 𝐦𝐨𝐦𝐞𝐧𝐭 𝐨𝐟 𝐦𝐲 𝐥𝐢𝐟𝐞... 

 
Remus grattò via quello che rimaneva della vecchia vernice sul parapetto del terrazzo, con l’unghia dell’indice. Il sole non era ancora sorto ad Amlwch e l’intera città sembrava essere profondamente addormentata sotto la luce di quei pochi lampioni.  
Lo vide attraversare in tutta fretta la strada, coprendosi il volto con i lunghi capelli neri. Alzò lo sguardo solo quando fu sotto il suo balcone, un sorriso, un gesto della mano.  
“Ciao.” Sussurrò Remus, ricambiando il saluto con la mano. 
Diede l’ultimo tiro alla sigaretta, abbandonandola ancora fumante dentro al posacenere sul tavolinetto di plastica. 
Tornò in casa chiudendosi la porta a vetri alle spalle, facendo attenzione a non farla sbattere; si infilò il maglione di lana spessa, inforcò lo zaino in spalla ed uscì di casa in punta di piedi.  
Sirius lo aspettava vicino al portone, nascosto dall’ombra di alcune colonne. 
“Ciao.” Gli disse, affondando le mani in tasca. 
“Ciao.” Ripeté Remus, cercando di controllare il sorriso che gli stava nascendo sul volto. 
“Ciao.”  
“Andiamo?”  
Camminarono giù per Bethesda Street, costeggiando i bordi delle case: Remus su un marciapiede, Sirius sull’altro, dall’altra parte della strada, una prevenzione in caso avessero incontrato qualcuno. 
Con una mano sfiorava il contorno dei muretti alla sua sinistra e il cemento ruvido delle abitazioni, per far saltare di tanto in tanto le dita su qualche bidone della spazzatura o sulle rifiniture dei cancelli di metallo. L’altra vagava nel vuoto, già gonfia e infreddolita per l’aria frizzantina di quel maggio particolarmente freddo.  
Si agitava nel vuoto alla sua destra, separata da meno di cinque metri di strada da quella di Sirius. 
Qualche volta si scambiavano un’occhiata complice, seppellendo quasi immediatamente i nasi nelle sciarpe, cercando di non ridere.  
L’unico rumore erano le suole di gomma delle loro scarpe di tela sull’asfalto e il ronzio dei lampioni. 
Arrivarono al bivio con la B5111 in meno di mezz’ora. 
Non proseguirono per la strada, ma scavalcarono la recensione di un campo, tagliando per esso.  
Remus rischiò di scivolare sulla terra umida, scatenando un attacco di risate da parte di Sirius che cercò di soffocare ficcandosi un pugno di bocca.  
Il sole iniziava a sorgere, su Amlwch e loro non sarebbero più tornati. 
 
Hope Lupin si sarebbe svegliata per prima, come suo solito. Si sarebbe stiracchiata le membra arrugginite sul bordo del letto prima di infilarsi la vecchia e logora vestaglia rosa shocking, tanto consunta dal tempo e dalle centrifughe della lavatrice da risultare rosa cipria, seguita poi dalle ciabatte ortopediche. 
Si sarebbe trascinata contro voglia fino alla cucina, dove avrebbe iniziato a preparare il caffè per Lyall. Lo voleva all’italiana, come lo preparava la nonna, con quella macchinetta a cui era partita la guarnizione dieci anni prima, comprata in un viaggio a Roma ben prima che Remus nascesse. 
Il manico in plastica era tutto sciolto, ma ad Hope piaceva ancora tantissimo, quella stupida moka: le ricordava un tempo lontano in cui lei e Lyall erano stati veramente felici. 
Poi si sarebbe seduta fuori, sul balcone, mentre aspettava che il caffè salisse. Si sarebbe riscaldata al sole come le lucertole, mentre il sangue le rombava nelle orecchie per colpa dell’ipertensione. 
Avrebbe visto la sigaretta lasciata da Remus, e avrebbe pensate che fosse semplicemente uscito prima del solito per andare al lavoro. 
Invece, giù al porto, il signor Faughn avrebbe sputato a terra, mentre tirava fuori le parcelle delle consegne.  
“Beddow, a scaricare il pesce assieme a Lupin.” Avrebbe masticato via le parole, mal volentieri.  
“Signore, Lupin non c’è.” 
“Non c’è?”  
“No.”  
“Allora vai con Lloyd.” 
Avrebbe scribacchiato qualcosa sulla parcella alzando le spalle e Lupin che quel giorno mancava non sarebbe stata nemmeno l’ultima tra le sue preoccupazioni. Anzi: meglio così, una giornata in meno da pagare a fine mese. Con quello che avrebbe tolto dal suo stipendio avrebbe portato Morwen a mangiare fuori, e Dio voglia questo l’avrebbe fatta scaldare un po’ permettendogli di infilarsi fra le sue cosce tornati a casa. 
Nessuno si sarebbe accorto che Remus Lupin, quel giorno, aveva infilato tutti i suoi averi in quello zainetto che aveva usato dalla prima elementare fino alle superiori: due maglioni dalla trama irregolare, un paio di pantaloni di velluto, qualche paio di calzetti e una decina di boxer appallottolati, i suoi precedenti tre stipendi invece ben nascosti sotto la soletta della scarpa destra. 
Forse lo avrebbero capito verso l’ora di cena, quando Hope preoccupata sarebbe entrata in camera sua, trovando l’armadio ancora aperto e il letto in ordine.  
Sirius si avvicinò a lui, reso più coraggioso dall’immensità di verde, fango e rugiada che si parava davanti a loro, facendo scivolare la mano nella sua. La strinse forte Remus, senza più riuscire a nascondere l’entusiasmo.  
Quando Hope sarebbe corsa nuovamente in cucina, urlando a Lyall che Remus se n’era andato, che era scappato, via! Dove? Non lo so!, lui sarebbe stato a decine di chilometri di distanza.  
 
Sirius era entrato nella sua vita con l’impetuosità di una tempesta solo qualche mese prima, con quei Doc Martens originali e l’inglese perfetto.  
Fumava una sigaretta davanti al Royal la prima volta che lo vide, poggiato con la schiena al volantino di Kreamer vs Kreamer, con una ragazza al suo fianco a cui non importava nulla di avere gli occhi gonfi per il fumo che lui continuava a soffiarle addosso mentre parlava.  
“Cosa guardi?” Aveva chiesto Lily, avvicinandosi a lui, mentre si stringeva nella giacca.  
“Nulla.”  
Ma lei si era già sporta, dirigendo lo sguardo alle sue spalle. “Lui?” Chiese, con un soffio, un sorriso sornione che iniziava a montarle sopra le labbra pitturate di corallo. 
“Shh.” 
Tra lo squallore di quella grigia giornata di febbraio, i capelli rossi dell’amica erano l’unica macchia di colore, se non si contavano le cuciture giallo canarino degli stivali del ragazzo.  
Scintillavano, neri e fieri, tra la nebbia e l’umidità, e Remus era estraneo a tanta ricchezza. Pensò che se ne andava in giro in quel modo avrebbe fatto meglio a guardarsi le spalle, mentre tornava a casa: avrebbe sicuramente fatto gola ai ragazzi che tornavano dal terminale petrolifero, golosi di un paio di scarpe nuove da scambiare con i loro scarponi sporchi di olio. 
“Sembra un gran coglione.” Constatò la ragazza. 
“Probabilmente lo è.”  
Lo aveva rivisto qualche giorno dopo, mentre scendeva verso il porto. Affacciato al terrazzo della villa sul mare, fumava una sigaretta dietro l’altra, gli occhi grigi puntati verso il mercantile che era appena attraccato.  
“Brutta giornata?” Gli aveva urlato, mentre Remus scendeva dalla bicicletta. Era in ritardo, Faughn gli avrebbe sicuramente tolto qualche sterlina dalla paga e aveva finito gli antidolorifici. L’anca bruciava ad ogni passo.  
Ma si fermò lo stesso a metà strada, e si voltò verso di lui alzando lo sguardo verso tutto quel candore che gli sorrideva. I capelli raccolti sulla nuca, la camicia leggera resa quasi trasparente per le gocce di nebbia che si erano posate su essa, la sigaretta arpionata tra le dita. Si chiese se non avesse freddo. 
“Già.” Rispose. 
“Sono Sirius.”  
“Remus.”  
Quello aveva riso, “Buffo nome.” senza alcun accento a rovinare la sua perfetta dizione. Scandiva ogni parola senza impasticciarsi con la rotondità delle vocali, come invece succedeva a Remus. 
Anche i suoi denti erano perfetti, una fila bianca ed ordinata che fece lo fece vergognare della sua bocca, gialla per il fumo delle sigarette e storta come gli scogli sul mare d’Irlanda. 
“Anche il tuo.” 
“E’ il nome di una stella! Non dovresti conoscerle, non fai il marinaio?”  
“Scarico la merce. Non ci vado in mare.”  
“Oh.” Sembrò deluso, mentre si sporgeva dal balconcino. Lasciò cadere la cenere della sigaretta sotto di lui, luminosa e bollente contro i muri bianca panna e pieni di muffa di quella casa era rimasta chiuda per più di dieci anni.  
Remus fece per andarsene, abbassando il volto nel bavero della giacca. 
“Remus?” Si sentì chiamare nuovamente. Nessuno aveva mai pronunciato il suo nome in quel modo, la r stranamente morbida. 
“Mh?”  
“Ti va di passare da me? Finito di lavorare?” Lo aveva guardato senza alcuna aspettativa. Annoiato. 
“Va bene.” 
 
Remus era mosca e ragno.  
Era le fondamenta della propria casa, e l’acqua di mare che filtrava tra esse.  
Era lo squallore delle scale che portavano all’appartamento dei suoi genitori, con l’odore di piscio agli angoli e quello di fritto dal King’s Head che si impregnava ai muri se lasciavi il portone aperto ma era anche lo straccio che usava la madre per pulirle.  
A nessuno importava, non al signor Preddy che quando perdevano il derby spaccava la faccia alla cara e rubiconda signora Preddy, non alla vecchia Howells a cui avevano tagliato via la gamba per il diabete: quelle dannate scale avrebbe potuto rimanere lerce fino alla fine dei tempi. Ma ogni sera, Hope, faceva tutti e tre i piani con quello straccetto logoro sotto le ciabatte, trascinandoselo su e giù ad ogni passo. 
Remus era il peggior ossimoro che avrebbe mai potuto immaginare, sempre a dirsi pronto per spiccare il volto e allo stesso tempo con in mano le forbici per tagliarsi le ali. O forse era solo codardo. 
Perché alla fine era più facile prendere i risparmi che aveva conservato come una reliquia dal nascondiglio nell’armadio per darli al padre sospirando, che riempirsene le tasche e scappare via, come sognava da quando era ragazzino.  
Soffiò sulla tazzina che aveva davanti, porcellana bianca tanto pulita da ferire gli occhi sotto la luce al neon della cucina. “I tuoi non ci sono?” Chiese, prima di buttare giù un sorso di thè. 
“Non ci sono mai.” Rispose Sirius, tirandosi indietro i capelli.  
“Tuo fratello?” 
“Come fai a sapere che ho un fratello?” 
Remus si strinse le spalle, indicando la foto appesa sopra le loro teste. Sirius, qualche anno più giovane, con le mani posato sopra le spalle di un ragazzino che era la sua copia sputata. Dietro di loro, l’ombra dei genitori, severi nei loro abiti gessati. “Ho tirato ad indovinare. Siete uguali.” 
“Oh, per niente. È una gran rottura.” 
“Come mai siete venuti qui? Ad Almwch?”  
“Hanno comprato la stazione petrolifera.”  
 
Fu Remus a baciarlo per la prima volta, qualche mese dopo. Galeotto fu il brindisi e chi lo indisse. E quando si staccò da Sirius, febbricitante e rosso in volto, ancora poteva sentire nella sua bocca tutte le frizzanti bollicine dello spumante francese che avevano appena bevuto, l’aspro sentore di alcol e polvere sulla punta della lingua.  
Ma Remus era mosca, e ragno. E si morse da solo le gambe, per non rischiare di volare troppo lontano dalla sicurezza della ragnatela. 
“Non sono uno di loro. Un finocchio.” Gli disse allontanandolo, quando Sirius si sporse su di lui per rovistargli nei jeans. 
“No?” Aveva riso l’altro, “Sicuro?”  
Sicuro?  
Aveva dovuto trattenersi per non lasciarsi travolgere dall’impulso di baciarlo nuovamente.  
Prendimi, sfasciami, toccami, mordimi.  
“Mh mh.” Aveva invece annuito, mentre le mani guizzavano veloci a riallacciarsi la cintura.  
“Come vuoi, Remus.”  
E Sirius, che era molto più coraggioso di lui e aveva le idee chiare su quale fosse il suo posto nel mondo, lo aspettò. E non si sarebbe mai aspettato tanta costanza in quel ragazzo sarcastico e terribile. 
Lo aspettò finché finalmente non si ritrovarono sdraiati sul divano del salotto, la pelle nuda che bruciava e si seccava per il calore della stufa a legna davanti a loro.  
A Remus non dispiaceva soffrire il caldo per una volta, perché su quell’isola dove anche i tuoi stessi pensieri diventavano umidi nei giorni di nebbia, l’aridità era un dono del Cielo. 
Pelli bianche, ruvide e pesanti, l’una sull’altra. Era difficile capire quando iniziava l’uno e dove finiva l’altro. Mani tutte nocche e vene bluastre che si incastravano l’una nell’altra, braccia addormentate e formicolanti, bocche che divoravano la carne cruda dell’altro. 
Remus si lasciò cadere tra le gambe di Sirius, respirando piano tra i peli del pube. Lo abbracciò, sollevando il suo corpo magro contro il suo volto. 
“Dobbiamo andarcene.” 
Una constatazione.  
Dalla finestra semi aperta provenivano le voci dal porto. Il suo turno era finito qualche ora prima, ma il lavoro non mancava mai: c’era sempre una nave che attraccava, a qualsiasi ora del giorno, persone che venivano e persone che se ne andavano, pescatori, mercanti, marinai, sporchi delle viscere dei pesci o verdi di mal di mare, o ancora inglesi che non avevano mai conosciuto la fame e i cui figli non avevano la zeppola. 
E poi c’erano lui, e Faughn, Lloyd e gli altri, che rimanevano giorno dopo giorno ancorati alla banchina di Amlwch. Guardava quegli uomini più grandi, il loro volto segnato dal salmastro, i corpi gonfi per il bere e le mani callose e si chiedeva quando –non se, perché davvero aveva creduto di non poter mai aspirare ad altro- anche lui sarebbe invecchiato in quel modo. 
O era Amlwch a trattenerli, con una scusa e l’altra?  
Ogni mattina, quando Remus inforcava la bici scassata per andare al lavoro, scivolava, densa come l’olio su cui poneva le fondamenta, sulla spalla di Remus sussurrandogli all’orecchio: non appartieni a nessun altro se non a me, scappare è inutile, andarsene è impossibile.  
Ma quando alzò quel bicchiere di polistirolo, colmo fino all’orlo di quel vecchio spumante inglese che il signor Black teneva nascosto in cantina, Amlwch incassò la prima delle tante sconfitte che le sarebbero toccate in futuro. 
Un bacio, e tutto si infranse.  
Poi, iniziò la vita. 
 
“Dobbiamo andarcene.”  
Due parole, sussurrate appena. Inspirò dal naso, odore di sudore, bagnoschiuma, deodorante stick. 
“Lo so.” Il corpo di Sirius si mosse sotto il suo, mentre cercava di prendere una sigaretta dai jeans abbandonati sul pavimento. “Qua non c’è vita per quelli come noi, eh?”  
Era iniziato in quel modo il loro piano di fuga. 
“Ti amo.” Aggiunse dopo poco Remus, nascondendo il viso nella carne morbida del ventre, là dove il fumo della sigaretta non era ancora arrivato a coprire il profumo di Sirius. 
“Anche io.”  
Passarono il resto del pomeriggio a parlare della scuola in Scozia che aveva frequentato Sirius, una di quelle da ricchi, con le divise importanti che non si limitavano ad una camicia e una cravatta a strisce, del suo amico di Londra, della musica e di come nelle grandi città quelli come loro non dovevano poi nascondersi così tanto, non sempre, non per forza.  
O almeno, Sirius parlò, Remus lo ascoltò in silenzio con gli occhi chiusi, facendo suoi tutti quei racconti di luoghi lontani ed esoteci che in ventitré anni non aveva ancora mai conosciuto, se tra le canzoni di Top of the Pops. 
E’ così che erano partiti, una settimana dopo, i pochi averi che sbattevano sulla parte bassa delle costole ad ogni passo, scambiandosi sorrisi furtivi con Sirius che a stento riusciva a trattenere le risate. Galeotto fu il brindisi e chi lo indisse, come quella vecchia edizione della Divina Commedia che mamma teneva sul comodino. 
Grazie al bicchiere di polistirolo pieno fino all’orlo, alle bollicine di spumante mischiate al sughero del tappo che non erano riusciti a togliere, allo sguardo affilato di Sirius mentre le loro dita appiccicose si sfioravano accidentalmente e lo spumante cadeva sul tappetto buono della signora Black. 
Benedetto Dewi Sant per aver permesso che il Cielo fosse in suo favore, per avergli fatto perdere il controllo, per aver distrutto la ragnatela per qualche secondo, affinché la mosca potesse volare. Un istante che aveva deciso il resto della sua esistenza. 
 
La rugiada andava ad infiltrarsi nel terreno, lasciando l’erba verde e fresca sotto i raggi del sole. 
In lontananza, un pastore stava brontolando al bestiame. 
Sirius gli strinse la mano. 





Note: 
Allurs, non mi ricordo né perché o per cosa la scrissi né perché ho aspettato così tanto a pubblicarla visto che ero a fare la polvere nel mio pc da, uhm, marzo, nonostante -e scusate se me lo dico da sola- ma è un vero gioiellino.
Spero che vi sia piaciuta quanto è piaciuta a me!! -e di nuovo: ma perché me lo dico da sola? Bah.-
Ogni feedback, recensione, bacio e abbraccio o croissant è ben accetto, o se passate per una lettura veloce e basta: grazie lo stesso! Apprezzo veramente tanto ogni singola letturina. <3

 

   
 
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