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Autore: Anonimadelirante    31/05/2023    0 recensioni
Nicolò muore, e poi riapre gli occhi.
E poi muore di nuovo.
Genere: Guerra, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Joe / Yusuf Al-Kaysani, Nicky / Nicolò di Genova
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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N/A: io non guardo tipo mai quello che pubblico, e questi sono i risultati. Vbb. Comunque!

 

 

 

 

 

 

Muore e poi riapre gli occhi.
È così che comincia.

 

 


 

 


Nicolò muore, e poi riapre gli occhi.
Dopo una manciata di giorni in battaglia, ha iniziato a dubitare che si sarebbe risvegliato in Paradiso, ma l’Inferno somiglia sospettosamente alle macerie delle mura crollate di Gerusalemme, ed il demone che tossisce nella notte, carponi fra i cadaveri, all’uomo che l’ha ucciso. All’uomo che ha ucciso.
Sbatte le palpebre e scuote la testa, un dolore sordo e pulsante che gli si gonfia fra le tempie, una sorta di formicolio sul ventre, lì dove l’infedele l’ha falciato con la sua strana spada ricurva.
L’Inferno, pensa, quasi con sollievo. Dio è giusto e misericordioso e dà ad ognuno ciò che merita.
Nicolò ingoia il sapore ferroso del sangue e si alza e respira. È morto, ed è all’Inferno.
È giusto, perché non sarebbe mai potuto tornare al monastero fresco ed assolato della sua infanzia, non dopo tutto quello che ha fatto. Tutto quello che ha visto, tutto quello che ha accettato. Nessuna ragione, per quanto Santa, può giustificare tutto il sangue che ha sulle mani e neanche le rose rosa dalle corolle pensanti e dal profumo dolce e denso come sciroppo dei giardini in cui è cresciuto potrebbero coprire l’agrore della morte che ormai porta cucito addosso. Così. Il Signore è Giusto ed ha deciso che il suo posto sia all’Inferno.
Tutto quello che sa dell’Inferno – dalle Sacre Scritture, dai suoi maestri – è che è un luogo di pene e tormenti, una punizione eterna. Va bene, quindi. Si guarda attorno, nella notte tiepida della Terra Santa, le stelle luminose sopra di lui, una distesa di cadaveri freschi tutto intorno. Va bene, pensa di nuovo, cercando di domare il panico.


E se anche si sbagliasse, e se anche l’essere che respira pesantemente, come nel panico, a pochi passi da lui non fosse un demone, ma solo un uomo – è comunque un infedele, ed ucciderlo male non può fare. Ucciderlo di nuovo. Quello che è.
Gli si avventa addosso e cadono entrambi nel fango, fra i corpi morti dei loro compagni che non si sono rialzati.

 

 


E se non avessi una bandiera, non saprei che vento tira


Se non avessi mai perso, non saprei cos'è la sfida
[...] sarei un morto che cammina
Questo sale sulla pelle mi fa quasi luccicare
Ma poi brucia come il fuoco e dopo inizia a farmi male

 

 


Il cane invasore lo atterra, cogliendolo di sorpresa come la merda che è. Yusuf cade con un urlo strozzato, ma si volta ad affrontarlo, sgusciando nella terra bagnata di sangue dei suoi compagni ed afferra una pietra: «Stai giù» ringhia, sbattendogliela forte su una tempia. «Giù, cazzo... in nome di Allah, perché non vuoi stare giù?»
E poi continua a colpirlo fino a quando non c’è più niente da colpire, se non una poltiglia disgustosa, bianca e rossastra, e la sua testa non assomiglia affatto alla testa di un uomo, quanto piuttosto alle viscere dilaniate di un animale travolto da una frana, frutta marcia calpestata nella polvere. Dopodiché, abbassa lo sguardo sull’elsa della spada che gli spunta dal fianco e rimane semplicemente lì, in ginocchio, accanto al cadavere irriconoscibile del cristiano, fino a quando il suo respiro sibilante si spegne e non c’è più nulla, a parte la notte sempre più scura e sempre più fredda.

 

 


 

 


La nostra unica gioia

 

La nostra unica gioia
sta soltanto nel mal
(John Milton, il Paradiso Perduto)

 

 


Lo sveglia l’odore del fumo, pesante ed amaro in fondo alla gola. La sua vista sfarfalla e quando finalmente riesce a mettere a fuoco qualcosa, quel qualcosa  è di nuovo il maledetto cristiano – in piedi e vivo, nonostante tutto. Il suo volto è striato di sangue e gli occhi sono lontani, distanti in un modo che Yusuf riconosce, anche se detesta empatizzare con una persona del genere. Per un attimo, sembra davvero la visione divina che questi invasori senza Allah continuano a ripetere di essere – il suo bel viso pallido e sporco, illuminato da una luce rossastra, terrificante, come il se sole fosse crollato all’altezza della terra. Poi, la sua mente dilaniata dallo shock riconosce la luce che balla sulla pelle del crociato. Fuoco. Yusuf si alza e si gira nella direzione in cui sta guardando l’iblīs. Gerusalemme. A fuoco e fiamme.
Qualcuno sta urlando. Qualcuno sta piangendo. Potrebbe essere lui, per quello che ne sa.
Non crede, però. Non si sente neanche gli arti, molli e privi di consistenza, abbandonati lungo i fianchi, pesanti come piombo. Saytan si gira lentamente a guardarlo e le sue labbra si muovono, e sta dicendo qualcosa, ma nelle orecchie di Yusuf c’è spazio solo per il rombo impazzito del proprio cuore, per i gemiti della Città del suo Signore che brucia.
La terza volta che muore, non è il cristiano a colpirlo, ma è la cenere che lo soffoca, mentre corre senza meta nel cuore dell’incendio.

 


 


Assecondando un istinto che non dovrebbe provare, quando l’idiota scatta verso l’incendio Nicolò cerca di fermarlo – e per tutta risposta, il saraceno si libera dei suoi tentativi di impedirgli di lanciarsi fra le fiamme tagliandogli la gola.


Nicolò siede sulle macerie delle mura di Gerusalemme, quindi, e aspetta di morire – o no, a questo punto, chi può saperlo – le mani inutilmente strette al collo, viscide e bollenti del proprio stesso sangue.
L’ultima cosa che vede, o forse sogna o forse immagina, è l’infedele cadere carponi tossendo, fino a quando poi non si muove più.
Quando si risveglia, la Città di Dio è la rovina di sé stessa, cenere che piove dal cielo, un caldo malato, sbagliato, che sale in lente volute dalla terra. In qualche modo, non riesce a credere che il Signore, che è Buono e Giusto e Misericordioso, li abbia mandati lì con questo in mente. È stato punito, per osservazioni di questo genere, in passato. La sua infanzia è stata felice, per lo più – più felice dei tanti figli senza né padre né madre che corrono fra i carruggi della sua città, di certo – ed è grato ai preti che lo hanno raccolto da sotto il ventre di marmo del leone sulle gradinate di San Lorenzo, quand’era in fasce, davvero – ma non è mai stato bravo a tenere i dubbi per sé, e gli uomini che l’hanno cresciuto conoscevano un solo metodo per assicurargli le risposte che cercava.
È all’Inferno, però, per cui qualche domanda irriguardosa sui Piani Divini – o più precisamente qualche incertezza sulle interpretazioni umane di Urbano – crede possa essere tollerabile, tutto sommato. Compresa nel pacchetto, in un certo senso.
Si sveglia ed è dove si è accasciato quando il saraceno gli ha reciso la giugulare con quella sua strana spada dalla forma scorretta, riverso sulle pietre di una città che lui e i suoi compagni avrebbero dovuto liberare.
Quando arrivano le lacrime, non è certo che sia il fumo. Non importa, comunque. Non c’è più molto che abbia importanza.
Non c’è ragione per rimettersi in piedi, così resta lì, la schiena dolorosamente premuta contro un masso, la vista annebbiata e la testa che martella, a guardare Gerusalemme bruciare e scricchiolare, accartocciarsi su sé stessa come le pergamene piene di errori di quand’era un novizio gettate con stizza nel camino da Fratello Guglielmo.
L’infedele lo trova così. Dice qualcosa, o la ringhia per quel che vale, mentre gli si avvicina minaccioso, ma Nicolò non riuscirebbe ad ascoltarlo neanche se parlasse una lingua apprezzata da Dio. La sua mente è completamente bianca, svuotata come un’otre di vino dopo una serata in taverna. Eccetto che, quando il saraceno è abbastanza vicino da distinguergli lo sguardo – nero e denso, furioso di una disperazione senza fondo – Nicolò si alza. E gli tira un pugno.
Ha perso la spada da qualche parte fra la prima o la seconda volta che è morto, ma anche il demone è ormai disarmato e lui ha un’armatura più pesante e compatta: lo atterra, forse più per l’effetto sorpresa che per altro, e va giù con lui. «Come--» ansima, strozzato, a cavalcioni sul saraceno che si dimena cercando di colpirlo alla cieca. «Come diavolo avete potuto--? Era casa vostra. Avete ucciso donne e bambini e per cosa? Per non lasciarcela?!» urla o piange o qualcosa strozzato nel mezzo, ed anche l’altro gli da addosso, forte, allo stomaco, ma non riesce a liberarsi. Nicolò smette di colpirlo solo dopo che l’infedele non si muove più da molto tempo.
Non ne va particolarmente fiero.

 

 


 

 


Quando riapre gli occhi per la terza – quarta? – volta, Yusuf ha la testa che martella come in seguito alla peggiore delle sbornie. Rotola lentamente sulle ginocchia, respirando in grosse boccate scioccate, fino a quando non riesce a mettere a fuoco l’ambiente circostante. È di nuovo sera, ed è di nuovo fra le macerie delle mura di quella che un tempo era la Città di Allah e adesso è solo un cumulo di rovine fumanti, e morte e distruzione.
È solo dopo molto più tempo di quanto gli piaccia ammettere, che si rende conto che il cristiano è seduto accanto a lui e lo sta guardando. Per un attimo, Yusuf si irrigidisce ed aspetta di incassare un altro colpo, ma l’iblīs non sembra in vena di attaccarlo di nuovo. I suoi occhi azzurri come il cielo più terso sono rossi, come se avesse pianto, ma è ridicolo: le creature dello jahannam non piangono. Sta parlando, si rende conto. In quel latino odioso e disarticolato in cui si esortano i soldati cristiani sul campo da battaglia. Se Yusuf provasse a concentrarsi, probabilmente capirebbe qualcosa – in una due tre vite precedenti, prima di morire come soldato e finire nello straziante limbo dell’hutama, è stato un mercante, e riconosce vagamente l’accento dell’altro come ciò che si parla sulle coste verdeggianti della penisola di fronte a casa sua, ma in questo momento riesce a malapena a ricordarsi il proprio nome.
«Yusuf» sputa, prima di potersi fermare. «Yusuf al-Kaysani.»
Non sa perché lo faccia. Forse per dare a Saytan ancora più armi ancora per ferirlo. Come se ne avesse bisogno. Ha già distrutto tutto quello che conosceva, tutto ciò che amava. Cos’altro potrebbe fare?
L’uomo – o la cosa che ha le sembianze di un uomo, per quel che vale, e di un uomo fastidiosamente attraente, per giunta – lo fissa per un lungo momento, la bocca aperta sulle parole che stava pronunciando. Poi, la richiude di scatto: «Juu-u-suff» ripete, lentante, indicandolo. C’è qualcosa di comico, in un iblīs che sbaglia la pronuncia del suo nome. A Yusuf viene quasi da ridere, ma dev’essere l’esaurimento.
L’altro lo fissa, accigliato. «Yusuf» dice allora di nuovo, più secco, sottolineando l’accento.
«Yu-u-usufff. Yusuf?» ripete un’altra volta il cristiano.
Lui annuisce, e in altro momento, con un’altra persona – o una persona e basta, chissà – forse potrebbe persino risultare incoraggiante.
«Nicolò» commenta l’evasore dopo un attimo di contemplazione.
Ni-co-lò, pensa Yusuf, articolandolo lentamente nella propria testa, ma senza dirlo a voce alta. Lo studia a sua volta. Per essere un vassallo di Saytan – o Saytan stesso, deve ancora decidere – sembra piuttosto giovane. Non innocuo, ovviamente. L’ha ucciso. Ha ucciso decine di suoi compagni. Innocuo è l’ultimo aggettivo con cui lo descriverebbe. Neanche pericoloso nel senso stretto delle parola, però. Un uomo, tutto qui. Sembra un uomo. Non molto di più.
Sta ancora parlando, questa volta più piano, sempre in latino. Incespica un po’ sulla propria lingua, ma lo parla meglio di quanto Yusuf potrà mai capirlo, così si limita a fissarlo accigliato, senza rispondere a niente fino a quando l’altro non si rassegna e si zittisce.
È solo dopo che la notte si è fatta così fitta che di Gerusalemme si intuisce solo la sagoma spezzata, che Yusuf si rende conto che forse dovrebbe provare ad ucciderlo. Se davvero fosse un iblīs. O – be’, anche se non lo fosse. Anche se fosse solo un cristiano.
Anche se fosse semplicemente uno che si è svegliato e risvegliato e risvegliato senza alcuna ragione; semplicemente uno come lui.
È disarmato, però, e stanco, e prima che se ne accorga si sta addormentando. Prima di crollare definitivamente esausto sul terreno arido e sporco di cenere e sangue, gli sembra di sentire la voce di Nicolò, bassa e privata, bisbigliare qualcosa che potrebbe somigliare ad una preghiera.
Qualunque cosa un vassallo di Saytan preghi – perché arrivino più oscurità e terrori e distruzione, suppone.

 

 


 

 


Si sveglia e l’uomo, il demone – Yusuf – sta ancora dormendo al suo fianco, ed il fumo sta ancora salendo in lente volute dalle rovine di Gerusalemme.
Nicolò respira superficialmente, l’odore denso e pensante della città ormai consumata che gli stringe la gola, e appoggia la nuca alla roccia contro cui si sono assopiti qualche ora fa.
È la sua occasione, si rende conto vagamente. È stanco come se non avesse dormito affatto, ed ha la testa pensante, i pensieri confusi. Gli sembra di aver sognato. Non ricorda cosa – una donna? Due? Angeli? O altri demoni?
Vicino a lui, il saraceno si sposta un po’ nel sonno. Potrebbe essere un trappola, è ovvio, ma.
Non sembra una trappola. L’infedele sta persino un po’ russando.
Quindi, Nicolò si alza, la schiena dolorante. Raccoglie una spada dal cadavere di uno dei suoi fratelli caduti. Se la soppesa fra le mani per qualche momento, assorto, ma ormai la decisione è presa.
Che sia giusta o sbagliata, lo scoprirà.
Se riuscirà a liberarsi di questo demonio, potrà finalmente riprendere a respirare. Forse, Dio lo prenderà con sé. Oppure ne arriverà un altro da sconfiggere nuovamente e il ciclo ricomincerà.
E se invece non riuscirà ad ucciderlo neanche questa volta, si allontanerà comunque più che può dal campo da battaglia e dai corpi dei suoi compagni. Se l’infedele è davvero un demone, riuscirà sempre ritrovarlo, suppone. E lui pagherà per questi pochi istanti di tregua.
Affronterà le affronterà. Così sia.


Affonda lentamente la lama nel cuore di Yusuf e poi più a fondo, nella terra spaccata dalla siccità.
Dopodiché, se ne va.

 

 


 

 


Muore sei volte, prima di riuscire ad estrarre la spada lunga e spessa del cristiano dal suo petto.
Yusuf sputa sangue a terra e lo odia così tanto che per un attimo ne è semplicemente sopraffatto. Poi, si alza e stringe forte il pungo sull’elsa.
Dà le spalle a Gerusalemme e comincia a cercarlo. Gli taglierà di netto quella testa di cazzo che si ritrova e la seppellirà molto a fondo nella sabbia del deserto. Poi, darà fuoco al resto del corpo.


Lo fa.

 

 


 

 


In qualche modo, Nicolò torna in vita.
Non sa come, davvero. Questa volta persino meno delle altre. Ma si mette a sedere, scuotendo la testa, confuso, cenere che gli prude terribilmente sulla pelle rossa ed irritata. Il demone è prono verso est, a pregare.
È un momento buono come un altro.
Nicolò prende la spada e lo massacra.

 

 


 

 


Yusuf lo cerca di nuovo. Questa volta lo strangola.

 

 


 

 


Deve svegliarsi prima, questa volta, perché il demone sembra sorpreso. È ancora a cavalcioni su di lui.
Nicolò ribalta le posizioni e ricambia il favore.

 

 

 


 

 


Sopra di lui: il volto striato di terra, cenere e sangue, i denti scoperti, i capelli grondanti di sudore  col sole che gli brilla furioso alle spalle, illuminandolo d’un oro malato, terribile, l’invasore è Saytan, non ci sono più dubbi.
Yusuf soffoca un singhiozzo e smette di combattere.

 

 


 

 


Per qualche ragione, quando il suo demone stramazza al suolo, Nicolò non cerca di nuovo di scappare. Inutile, si dice, ma più per domare la confusione dei propri pensieri impazziti. Del tutto inutile.
Gli si siede vicino, invece, e veglia il suo corpo – è un bel corpo, si scopre a pensare con una certa dose di sconcerto. Ha le sembianze di un saraceno infedele e questa è solo l’ultima delle ragioni per cui non dovrebbe trovarlo attraente, ma.
Oh, Signore, pensa Nicolò con un singulto, oh Signore.
Ecco perché.
Forse non c’entra la guerra e non c’entra il sangue che ha sulle mani.
Forse è all’Inferno solo perché è sé stesso – Nicolò, e quasi nient’altro.
Supplica perché tutto finisca – non vuole il Paradiso, assicura al Cielo, solo un po’ di pace, un po’ di oblio. Un po’ di silenzio.
Non risponde nessun Dio – né il suo, Buono e Giusto ed Unico e tutto il resto, né quello sbagliato e luciferino dell’infedele.


Quando Yusuf si rialza, Nicolò non prova neanche a difendersi.

 

 


 

 


Yusuf si risveglia, uccide l’invasore e poi viene ucciso.
Vanno avanti così per un po’.

 

 


 

 


Tre giorni e tre notti, per la precisione. È biblico, in un certo senso.
Quasi ironico.

 

 


 

 


È piuttosto spiacevole uccidere un uomo a mani nude, a dirla tutta, ma hanno abbandonato le armi e man mano che si addentrano nel deserto ci sono sempre meno sassi da usare.
Yusuf tentenna, per la prima volta, e l’uomo di fronte a lui aggrotta la fronte, come stupito.
È l’alba, e Yusuf è mortalmente stanco.
Se l’iblīs vuole proprio morire, che faccia da sé.
Si lascia cadere nella sabbia, mormorando una preghiera senza destinatario. Ha smesso di cercare di farsi sentire da Allah più o meno nel momento in cui il vassallo di Saytan l’ha abbattuto come un cane mentre adempiva alla ṣalāt. Adesso, c’è solo il vuoto. Solo il silenzio.
L’uomo accanto a lui sbatte le palpebre: «Cosa succede?» domanda, massacrando l’arabo ad ogni sillaba col suo accento pastoso, cantilenante.
Oh, Yusuf non si è dimenticato di odiarlo. No. Davvero. È solo stremato. Ha solo bisogno di una pausa.
«Fottiti» risponde, in quello che crede che sia latino, ma potrebbe essere anche persiano dallo sguardo confuso che riceve in risposta.
Poi chiude gli occhi e si finge morto finché non si addormenta.

 

 


 

 

 


Muoiono entrambi d’insolazione, questa volta. È una morte lenta, terribile. Ad un certo punto, Nicolò è quasi certo che morirà di sete, prima che di ustioni, ma forse non è passato abbastanza tempo. Forse all’Inferno si prova fame e sete, ma non si mangia né si beve per il resto dell’eternità. Solo un’altra tortura, in fondo.
Potrebbe aver letto qualcosa del genere, da qualche parte. Oppure era solo una sciocca fiaba per bambini giurata da una besagnina in Piazza Nuova da Basso per spaventare qualche marmocchio troppo intraprendente con un tozzo di pane non suo.
Non sa, non ricorda con esattezza – tutto sembra distantissimo, sfumato, una vita vissuta da qualcun altro. Ogni cosa, persino la guerra.
Tutto, tranne l’infedele che spira lentamente, dolorosamente, al suo fianco.

 

 


 

 


Raggiungono il tacito accordo di non uccidersi a vicenda, almeno per qualche tempo. Yusuf non è certo che sia solo provvisorio in realtà. Non ha abbastanza parole in una lingua comune per chiederglielo, ma anche se le conoscesse probabilmente non gli converrebbe farlo: per loro stessa natura, gli iblīs sono menzogneri e doppi, non si potrebbe fidare delle sue assicurazioni. E non sarebbe neanche colpa di Nicolò, in fondo – non si vince la propria essenza.
Se Yusuf cominciasse a credergli, invece, sarebbe esclusivamente lui da biasimare.
Per sicurezza, non fa domande.

 

 


 

 


Muoiono di stenti ancora ed ancora ed ancora. Incolpa il sole cattivo del deserto per il mal di testa pulsante che lo perseguita, ma potrebbero essere gli incubi, il semplice essere all’Inferno, il demone che gli cammina accanto che lo tenta ad ogni passo.
Nicolò muore, e poi riapre gli occhi.
E poi muore di nuovo.

 


 

 


Yusuf non ha perso il conto delle volte in cui è morto solo perché non l’ha mai cominciato. Arrivano in una cittadina che si affaccia sull’al-Bahir al-Mayyit una sera qualunque, stanchi e sporchi di sabbia e terra, fradici di sudore.
Parla lui per entrambi, quando entrano nella locanda, ma è Nicolò a pagare, con una ciondolo a forma di croce che secondo il morso dell’oste è d’oro puro.
Prendono due stanze una accanto all’altra e Yusuf dorme davvero per la prima volta da giorni.
Sogna due donne, meravigliose e letali, baciarsi e combattere, giacere insieme e morire. Forse sono jiin. Forse, gli stanno solo dando malevole visioni di un’esistenza migliore – non priva di pena, ma in qualche modo sopportabile. Forse sono ciò che sarebbero lui e Nicolò, se non fossero nemici giurati.
In qualche modo, non ne è esattamente: crede che se non fossero un mussulmano ed un infedele, se non fossero un dannato ed il suo iblīs, sarebbero meglio di così.
Non sa da dove provenga questa convinzione e quando’è sveglio e lucido provvede immediatamente a seppellirsela in fondo allo stomaco con rabbia e rancore. Sentimenti più pratici, più maneggevoli, decisamente più sicuri.

 

 


 

 


Il suo demone è chiaramente apprezzato da più o meno chiunque incontrino in città. Nicolò lo capisce, davvero. È gentile con i bambini e rispettoso con le donne, assertivo ma cortese con gli uomini. L’unico con cui sembra avere qualche problema è lui, ma – di nuovo – come dargli torto.
Anche l’oste è piuttosto sospettoso nei suoi confronti, d’altra parte: continua a lanciargli occhiatacce di malcelato scontento da dietro il banco e se Nicolò non fosse così disperato di avere un posto in cui stare, probabilmente se ne sarebbe già andato da un pezzo. Non gli piace rimanere dove non è il benvenuto.
Non lo può neanche biasimare, però. Camminare e morire e continuare a camminare nel deserto gli ha lasciato molto tempo per pensare, specie considerando il mutismo – a quanto pare del tutto selettivo – del suo compagno di viaggio. Riesce ad immaginare piuttosto bene come siano andate le cose a Gerusalemme, a mente lucida. Come devono essere degenerate durante la presa, mentre lui giaceva a terra, cadavere fra i cadaveri, avvinghiato al demonio. Quello che deve aver urlato Goffredo, nonostante l’incendio – anzi, stagliandosi fra le fiamme come un Angelo Vendicatore: Libera! Finalmente, la Sacra Città del Nostro Signore è libera! Gerusalemme liberata!
Se fosse successo alla sua Genova – quindi che il suo Dio fosse quello Giusto o meno – non vedrebbe di buon occhio gli stranieri. Specie quelli che si pagano il soggiorno con un rosario.
L’unica ragione per cui non è ancora stato cacciato, ridicolmente, è proprio Yusuf, che per qualche assurdo motivo lo lascia mangiare accanto a sé in taverna e lo cerca con lo sguardo quando la folla li separa. I suoi occhi sono sempre colmi di sfiducia e malumore, ma Nicolò li desidera comunque a bruciargli sulla pelle.
Odia più sé stesso che lui, per questo.


La prima sera ruba un coltello dalla cucina.
Pensa di usarlo quasi tutte le notti, ma alla fine non lo fa.

 

 


 


Guadagna qualcosa con lavoretti sporadici al porto: mercanteggiare è un’arte che conosce fin da bambino e se la sente sua come una seconda pelle. Rientra la sera, e ogni sera l’iblīs è ancora lì, al tavolo, che lo aspetta.
Senza quasi accorgersene, inizia a cercarlo quando non lo trova ad una prima occhiata.


Per un po’ di tempo, Yusuf si impone di non pensare affatto, a niente – a Gerusalemme perduta, nonostante la cosa generi ovvio malcontento persino qui; al fatto che il qui in questione sia lo jahannam, nonostante lui abbia fatto tutto ciò che pensava fosse giusto, in vita; allo sguardo ceruleo ed ipnotico del suo iblīs.
Le cose cambiano, quando arriva la notizia della caduta di Ascalona.

 

 


 

 


Mangiano in silenzio, per lo più. A Nicolò non dispiace necessariamente.
La voce del demonio è morbida e suadente, è vero, piacevole all’orecchio, quasi una melodia – questo, per ovvie ragioni – ma c’è qualcosa di confortante, nella quiete con cui condividono il desco.
Quella sera, il vino è dolce come sempre, ma nella taverna c’è più rumore del solito. Nicolò coglie solo qualche parola – infedeli, cani, Allah, Ascalona – ma nessuna frase completa. C’è abbastanza  malcontento da capirne il nesso, però, e quando Yusuf si alza bruscamente, trascinandolo con sé su per le scale, per un ridicolo istante Nicolò ne è grato.
Col senno di poi, essere morto per così tante volte per mano della stessa persona dovrebbe averlo reso meno stupido di così.

 

 


 

 


Ci ha pensato a lungo. A tutti i modi in cui lui l’ha ucciso, e a tutti quelli in cui il kalb khayin ha ucciso lui.
Questa, decide, è l’ultima volta. Se non funzionerà, abbandonerà ogni speranza, non farà altri tentativi. Si lascerà massacrare per l’eternità e non ricambierà più il favore.
Ci ha speso tutti suoi risparmi, d’altra parte.
Si sono assassinati a vicenda per rabbia, per fede, per senso della giustizia, di rivalsa, per rancore, per vendetta. A sassate,  a mani nude, con due diversi tipi di lama. Questa è un’arma da codardi, una a cui non pensava si sarebbe mai abbassato. La sua ultima spiaggia.
Quando gli effetti del veleno cominciano ad essere visibili nello sguardo appannato di Nicolò, lo prende per un braccio e lo trascina lontano da qualunque possibile testimone.

 

 


 

 


Oh, pensa Nicolò incespicando sui gradini. Oh.
Il vino dolce e leggero della Persia di solito non gli fa questo effetto. E comunque, non ne ha bevuto abbastanza.
Oh. Batte le palpebre per spannare lo sguardo, ma tutto ciò che vede è Yusuf – il suo petto largo, fasciato da una casacca macchiata dal lavoro al porto, le sue mani calde che lo guidano sul letto, il suo sguardo scuro, e profondo, una ruga sottile verticale, in mezzo alla fronte, come se fosse accigliato per via di qualcosa. Oh. Non è colpa sua, vorrebbe assicurargli. I demoni sono demoni, fanno quel che fanno.
È lui che è finito all’Inferno. È lui quello da biasimare fra i due.
Soffoca nel suo stesso sangue, annaspando con strazio in cerca d’aria, e Yusuf resta al suo capezzale fino a quando non resta più niente.

 

 


 

 


Sembra inutilmente lungo, inutilmente doloroso, assolutamente non necessario, a conti fatti. Quando l’iblīs comincia a tossire sangue, Yusuf gli prende la mano d’istinto e non gliela lascia andare neanche dopo che di Nicolò non c’è che il corpo, immobile e pesante, vuoto d’ogni traccia di vita.


Mentre aspetta che si risvegli, non è del tutto sicuro che l’ansia che gli freme alla bocca dello stomaco sia dovuta più alla speranza o all’angoscia.

 


 

 


Si sveglia nel buio della notte, le labbra che sanno di ferro, le palpebre appiccicose, la lingua pesante e asciutta, gonfia, quasi estranea nella bocca secca.
Morendo, dev’essersi aggrappato al demone, perché le loro dita sono intrecciate.
Yusuf non lascia andare la presa, neanche quando si accorge che è sveglio. Si china su di lui, invece, e lo studia per un lungo attimo in un silenzio denso, sconcertante.
Poi, sospira: «Casa?» domanda in un latino impastato d’accento straniero.
Nicolò strizza gli occhi: «Genova» gracchia incerto in risposta.
Il demone sbuffa ed annuisce, ma poi scuote la testa. Gli picchietta il petto con la mano libera, quasi dolcemente: «Casa?» ripete, questa volta con un’intenzione più chiara nella voce. «Vuoi?»
Nicolò non piange, il che è un po’ un traguardo. Lo guarda, soffocato da un sentimento che non riesce ad identificare, e gli lascia andare la mano. Casa, pensa, un moto di qualcosa che assomiglia al panico che gli ghermisce dolorosamente il petto. Come potrebbe? Cosa farebbe? Cosa direbbe ai suoi fratelli rimasti al monastero, ai suoi fedeli in Chiesa? Scusate, ma quest’affare della Guerra Santa sembra un po’ una stronzata, visto da vicino. Abbiamo vinto, ma a che prezzo? Gerusalemme è bruciata, migliaia di fratelli sono morti. Da una parte e dall’altra delle Mura ormai crollate della Città di Dio.
Scuote la testa e si gira dall’altra parte, respirando a fondo per non urlare.
Non torna a guardarlo neanche quando lo sente alzarsi ed andarsene, qualche ora dopo.

 

 

 

 


Per qualche ragione, contratta per due posti, sulla carovana.
L’iblīs non fa domande, quando partono.
Non parla granché dalla notte del veleno.
Yusuf si dice che non è un problema perché non è un problema. Semmai, è una vittoria: almeno è finita la tortura di sentirlo pregare sottovoce nel suo latino odioso e fare domande massacrando senza pietà l’arabo, e borbottare sciocchezze in una lingua che assomiglia al provenzale, ma non lo è del tutto.

 

 


 

 


Nel deserto, di notte, l’unica cosa che distingue cielo dalla sabbia sono le stelle.
Non è molto diverso dal mare.


Forse l’Inferno è questo: lunghi periodi di quieta malinconia, e dolore e senso di colpa, intervallati da cruenti uccisioni per mano dei propri peccati peggiori.

 


 

 


Prendono una nave, quando il deserto finisce.
Il mare è calmo e le notti sono tiepide. Il suo iblīs guarda le costellazioni brillare nell’oscurità con un sorriso tiepido sulle labbra e gliele indica, soprappensiero.
La traversata per tornare in Maghreb non gli è parsa così breve, all’andata.

 

 


 

 


La città dove sbarcano è caotica e colorata. A Nicolò ricorda Genova nella misura in cui tutti i mercati di pesce e stoffe e verdure gli ricordano casa. Parlano una lingua diversa dall’arabo di Gerusalemme, più fitta, più morbida. In bocca a Yusuf ogni parola sembra fatta di zucchero e scivola svelta accanto alle altre, come se stesse sgranando un rosario.
Camminano spediti verso la periferia, lì dove le strade di terra battuta lasciano spazio a campi aridi, ma ben coltivati. Niente assomiglia davvero a casa, ovviamente. A Nicolò mancano il verde dolce delle colline rocciose di Genova, i dirupi sul mare, le sue coste profonde e scogliose, i frisceu, la panissa, l’aria fresca e amara di salsedine. Perso com’è nelle sue nostalgie, quasi va a sbattere contro Yusuf, quando questi si ferma per indicargli una donna non troppo distante, sotto un albero di frutti arancioni e tondi, profumatissimi. Sta dicendo qualcosa, in questa sua musicale lingua natia, ma dopo un attimo si ferma, stringe le labbra. «Madre» dice in provenzale. «Quella è mia madre.»
Nicolò guarda lui e poi lei. È familiare, si scopre a pensare con non poco sconcerto, perché gli assomiglia. Quando il viso di Yusuf abbia cominciato ad essergli più intimo che il proprio spesso riflesso, non gli è chiaro. Da qualche parte durante la loro prima traversata nel deserto, forse. Se avesse uno specchio, probabilmente non si riconoscerebbe – il dolore e gli affanni e la barba incolta lo hanno quasi certamente trasfigurato. Ma Yusuf è sempre uguale a sé stesso, identico alla prima volta che l'ha visto, in cima alle mura della Città Santa, comandare agli arcieri di abbatterlo.
Rimangono fermi, per un lungo momento. Immobili ad osservare da lontano la donna che raccoglie la frutta.
Poi, Nicolò si stringe nelle spalle.
Dice: «Farò un giro» utilizzando la lingua comune della Francia. Non pensa che Yusuf lo stia ascoltando, però. Così, gli appoggia una mano sul braccio e lo spinge leggermente. Vai, mima  coi gesti. Vai da lei.
Yusuf – che ha improvvisamente smesso di essere un demone, da quando ha dei genitori, ed anche se non ha smesso di essere un cane infedele è la persona più vicina che gli sia rimasta, in questo limbo di non-morte sconcertante e terribile – lo fissa accigliato. A Nicolò viene in mente con molto ritardo che potrebbe, e a ragione, avere paura per la sua famiglia o almeno essersi pentito di avergli indicato qualcuno a cui tiene. Scuote la testa, perciò, e spera di sorridere in maniera incoraggiante e non grottesca. «Ti giuro--» comincia a dire. Poi si blocca. Cerca nel povero arabo che possiede come esprimere il concetto, ignorando volutamente che nessun mussulmano dovrebbe fidarsi di un cristiano, né viceversa. «Amico» dice alla fine, in provenzale. E poi, di nuovo nel suo arabo stentato: «Vivi. Non uccisi.»
Il cipiglio dell'altro si scurisce, ma alla fine deve decidere che vale la pena rischiare, perché lo saluta con un cenno, prima di avviarsi lentamente verso la donna, ora seduta fra le radici, intenta a sbucciare con le unghie lo strano frutto arancio.
Nicolò rimane a guardarli a lungo, prima di andarsene. La donna balza in piedi e piange e getta a terra quello che stava per mangiare per lanciarsi fra le braccia di suo figlio.
Non è un addio, ma ci si avvicina abbastanza, immagina.
Sente qualcosa di fastidioso dolergli nel petto, mentre si allontana.

 

 


 

 


Ritrova Nicolò al porto. Sta gesticolando contro un pescatore, anche se è drammaticamente ovvio come stia andando la trattativa. Yusuf li raggiunge senza fretta, l’angoscia che è sbocciata nel cuore quando si è reso conto di non avere più idea di dove fosse l’altro finalmente acquietata, e quando è abbastanza vicino da potersi inserire nella conversazione liquida il mercante che sta cercando di truffare il suo iblīs con poco più che un’occhiata. Prima di andarsene, lui sputa a terra, e insulta entrambe le loro famiglie con insulti piuttosto originali e molto coloriti.
Per qualche ragione, Yusuf lo trova molto più divertente di quanto non lo avrebbe trovato prima di morire – ma è tutto assurdo, non è vero? Fino a due secondi fa temeva di aver perso il cristiano con cui ha continuato ad uccidersi per giorni. La Città Santa è in mano agli infedeli. No, peggio ancora: è morto nell’incendio che ha bruciato la Città di Allah. Ha detto addio a sua madre.
Non è nell’Hutama, ormai è chiaro. Se lo fosse, non avrebbe avuto un compagno che sembra a tratti persino più in pena di lui, ma un emissario di Saytan come si deve, sadico e rancoroso. E di certo, non avrebbe avuto la possibilità di salutare sua madre in pace.
Forse ora troverà la pace. Assurgerà allo Janna.
Oppure no.
Forse la sua è una condanna mite, forse si limiterà a continuare a vagare senza metà in compagnia dell’iblīs più negato della storia.
Forse, Nicolò è solo un uomo. Forse non è lì per fargli scontare le pene dello Jahannam, ma per condividere la sua maledizione.
L’idea, per qualche ragione, non gli sembra poi così orribile come gli sarebbe sembrata se gli fosse venuta fra le macerie di Gerusalemme.
«Andiamo» dice, sbuffando in risposta allo sguardo accigliato dell’altro. Se sia perché gli sta offrendo un’alburtuqaliu o perché sta sorridendo, Yusuf non riesce a capire. Nicolò lo guarda, perplesso, quasi preoccupato, ma non chiede spiegazioni di sorta. Si limita a fissarlo, accigliato. Poi, prende l’alburtuqaliu e la morde.

 

 


 

 


Yusuf ride così forte che deve stringersi la pancia, quando addenta il frutto senza sbucciarlo.
Il boccone è amaro, terribile. Nicolò tossisce e sputa a terra e Yusuf ride di lui con gusto.
Poi, però, glielo prende dalle mani e scava con le unghie nella scorza arancione come stava facendo sua madre sotto l’albero. Divide la polpa in spicchi precisi e gliene offre uno. Fa tutto con movimenti plateali, fissandolo con un sopracciglio inarcato, un piccolo sorriso sulle labbra, come se Nicolò fosse particolarmente lento di comprendonio e la cosa lo divertisse in qualche modo.
Lui sbuffa, addenta lo spicchio con una certa dose di ritrosia. Gli viene in mente con svariati momenti di ritardo che non dovrebbe essere così tranquillo nell’accettare cibo da qualcuno che l’ha avvelenato in precedenza, ma ormai il danno è fatto: la polpa gli si spacca in bocca, acidula e zuccherina, molto più succosa di quanto s’aspettasse.
«Alburtuqaliu» dice Yusuf, tenendo il frutto aperto sul palmo della mano.
«Alburto-kalitu» ripete lui.
Yusuf sbuffa un’altra risata, ma gli lascia il resto del frutto.
È buonissimo. Nicolò mastica spicchio per spicchio, voracemente, mentre camminano piano per la città.

 

 


 

 


Nicolò non accenna all’idea di tornare a Genova.
Yusuf gli offre un’altra alburtuqaliu, quella sera, quando sono soli nella camera della locanda dove alloggiano, per la sola ragione che gli piace come il suo viso si plasma, inondato dal piacere e da uno stupore meravigliato, ogni volta che mette in bocca uno spicchio.
Hanno preso una stanza sola, con due brande addossate una ad un muro e l’altra a quello opposto. Lui siede a gambe incrociate sul materasso, e Nicolò alla scrivania, un braccio drappeggiato sullo schienale della sedia, l’altro piegato in modo che possa reggersi il mento, e mastica con evidente entusiasmo. Hanno comprato anche noci e datteri e uva passa, una cena nutriente, quasi festosa, nonostante non siano al tavolo. Non bevono vino, ma çay tiepido e Yusuf è un po’ felice che l’altro non sottolinei quest’evidenza. Non vuole pensare alla notte lunghissima e straziante del veleno. Ogni volta che Nicolò è a mani vuote, gli passa un nuovo frutto – uno spicchio, un gheriglio, mezzo dattero – gli altri li tiene per sé, su un piatto di metallo appoggiato alle lenzuola. Non parlano, fino a quando Nicolò non chiede: «Allummu?»
Gli corregge la pronuncia per abitudine – al’umu – poi si stringe nelle spalle, sospira. Si prende il suo tempo per rispondergli e quando lo fa, lo fa in provenzale: «Addio» decreta, cercando con calma le parole. «Non posso stare. Adesso. Dopo. È tutto diverso.»
Nicolò annuisce, allunga una mano perché gli passi dell’altro cibo.
«È vero. Mi dispiace» dice. Lo fa in latino, ma Yusuf lo capisce lo stesso.

 

 

 

 


Non mi importa di sapere se mi uccidi o mi fai bene
O forse non ho il coraggio di capire se conviene
Proverò a cambiare strada grazie a tutte 'ste parole
Che mi porteranno altrove, che mi portano da te

 


 

 

Quella notte, Nicolò si sveglia di soprassalto, la sensazione di star cadendo nel vuoto. È un sogno che fanno tutti, crede, tranne che non tutti sognano di essere una donna dai capelli scuri e gli occhi a mandorla, che viene spinta giù da una rupe da un'uomo vestito di un'armatura buffissima, tutta balze colorate.
Apre gli occhi, ansante, ed è nella stanza che divide con l'infedele, immerso in un buio quieto, morbido.
Yusuf è seduto alla scrivania, chino su qualcosa nella falsa luce di una candela.
Nicolò si avvicina, curioso suo malgrado, un po' sospettoso, ma il mussulmano non sta architettando un altro modo di ucciderlo. Sta disegnando.
È bravissimo.

 

 


 

 


Nicolò lo sorprende alle spalle e Yusuf per poco non gli scaglia contro la scrivania, quando si accorge accorge quant'è vicino. Il crociato non cerca di pugnalarlo alla schiena, però. Si china sui suoi scarabocchi con una meraviglia simile a quella del pomeriggio precedente, quando ha mangiato il suo primo spicchio di alburtuqaliu. Dice qualcosa in latino, troppo svelto perché Yusuf riesca a capirlo. Poi, lo ripete più lentamente, in provenzale: «Le sogno anch’io.»
Yusuf sbatte le palpebre. 

 

 


 

 

 

Yusuf lo fissa, poi torna a guardare il ritratto: «Pensavo di essere pazzo» ammette alla fine, lentante, come se la confessione gli costasse fatica.
Nicolò non può farci niente: ride. Gli sfugge una risata alta, liberatoria, il suo petto si fa più leggero: «Forse lo siamo entrambi.»
Ride anche Yusuf, il viso fra le mani, un sollievo evidente che gli brilla negli occhi.

 

 


 

 


Nicolò domanda: «Esistono davvero?»
Lui non può far altro che stringersi fra le spalle. Batte un polpastrello su quella che ha sognato tranciare a metà con una specie di ascia l’uomo che ha lanciato giù da un dirupo la sua compagna: «Scizia?» rilancia, scavando nella memoria per trovare un’altro modo per identificarla. Non ne trova: fra loro, nei suoi sogni, si chiamano con vezzeggiativi da amanti, si incitano durante le battaglie, si sussurrano segreti fra i baci di sera, ma non ricorda nomi propri.
Nicolò si morde un labbro, inclina il viso da un lato. Illuminato dalla fiamma tremula della candela di cera sembra un disegno anche lui, tutto colori tenui e caldi, dolcissimi.
«Vuoi» gli chiede, dopo un lungo momento di silenzio. «Dobbiamo cercale?»
No, pensa Yusuf con impeto. Non trova altra ragione di non volerle trovare, però, non quella vergognosa ed inconfessabile di desiderare altro tempo solo con quest’uomo – nemico, invasore, infedele. Yusuf guarda Nicolò, non le due donne, e dice, la voce accuratamente vuota: «Forse» deglutisce. «Più avanti.»

 

 


 

 


Finiscono per imbarcarsi alla volta della Contea di Sicilia.
La meta finale, anche se piuttosto remota, è chiaramente Genova.
Nicolò non ne è proprio entusiasta, ma non si oppone formalmente alla cosa e prima che se ne accorga la decisione è presa.
Non che ci sia un altro posto dove andare: Yusuf vuole allontanarsi più che può da casa, ora che ha deciso di andarsene – Nicolò non lo biasima per questo, anzi lo capisce piuttosto intimamente – e lui, d’altra parte, non è il benvenuto da queste parti. Le voci di Gerusalemme a ferro fuoco per mano dei crociati sono arrivate fin qui e la notizia non è stata presa bene, prevedibilmente. La sua pelle chiara non aiuta più del suo accento marcato, e Nicolò non ci tiene a venir linciato da una folla inferocita, tutto sommato, per cui partono di notte, prendendo posto su un mercantile.
È solo quando sono ormai in mare aperto che si rende conto che in realtà nessuno dei due ha preso in considerazione l’idea più ovvia: quella di separarsi, imboccare strade diverse.
È scioccamente sollevato di avere la scusa della barriera linguistica per non essere costretto a farglielo notare.

 


 

 


Le onde questa volta sono grosse, spietate, preludio di tempesta, e Nicolò passa la maggior parte del tempo sul ponte, aggrappato al legno lucido della prua, il viso pallido e le spalle tese. Yusuf non lo trova divertente quanto gli fa intendere, però è un po’ ridicolo che un uomo nato in una città di porto soffra il mal di mare.
Il cristiano gli rivolge una smorfia, sembrando profondamente infelice. Yusuf sbuffa, e gli guida il capo fuori bordo prevedendo come un novello Sajāḥ il conato che sorprende l’altro a metà di una protesta.
Il verso di puro scontento di Nicolò è più tenero che buffo, ma questo è un pensiero che può decisamente tenersi per sé.


È un sollievo per entrambi, quando fanno scalo a Malta.

 

 


 

 


Appena mettono piede a Malta, a Nicolò torna in mente San Paolo, salvo da un naufragio grazie alle sue coste. Ripensa agli Atti degli Apostoli, a quanta fatica ha fatto per impararli, a quanta frustrazione ha sfogato Frate Guglielmo sulla sua schiena per questo.
«Siamo tribolanti da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi» recita a voce alta, il volto rovesciato in alto, in direzione del sole, i polmoni pieni di quell’aria salina tipica di ogni porto.
Yusuf lo fissa, le sopracciglia aggrottate.
«San Paolo» dice allora. «Lettere ai Corinzi.»
Yusuf scuote la testa, e Nicolò si stringe nelle spalle: «Dio--» comincia. Poi si corregge: «Allah non ha santi?»
Ci mettono un po’ a stabilire che una parola simile per significato ai santi del cattolicesimo dalle sue parti è murābiṭ – mu-ra-bt gli scandisce con pazienza quando finalmente la trovano, non mubit – ma quando ci riescono per qualche assurda ragione Nicolò si sente leggero come non lo è da tempo. «Mu-ra-bt» incespica allora. «San Paolo. Diceva...» gesticola un po’, indica il proprio petto, poi quello di lui: «Che non smetti di essere te. Nonostante tutto? Nonostante, sai, le sofferenze e il dolore» prova ad articolare. Non è più molto sicuro che sia quello che intendeva, e Guglielmo sarebbe molto scontento delle sue approssimazioni, ma Yusuf sorride e gli accarezza una spalla prima di addentrarsi nella città: «Non sbagliava.»
Malta, decide Nicolò, è splendida, persino meglio di come la immaginava studiando le Lettere, a San Siro.

 

 


 

 


Il viaggio dalla Contea di Sicilia alla Repubblica Marinara di Genova è lungo e non privo di insidie. Yusuf muore schiacciato da un carro mentre attraversano l’Appia; quando si risveglia, non lo hanno ancora tirato fuori. C’è la voce di Nicolò, da qualche parte sopra di lui, tesa e furiosa, che ordina qualcosa a qualcuno, ma le ossa di Yusuf non reggono il peso del barroccio abbastanza a lungo per riuscire a decifrarlo.
Riapre gli occhi, ed è ancora giorno. È in aperta campagna, sotto le fronde di albero. Yusuf guarda i rami sopra di lui ondeggiare dolcente nel vento per più tempo di quanto non sia strettamente necessario, prima di tirarsi a sedere. È solo.
Non sa perché è stupito, davvero.
È persino peggio di così, però, non è vero? Perché la sua prima reazione non è la delusione, né la rabbia, ma il panico.
Quanto è stupido.

 

 


 

 


Quando il carro crolla addosso a Yusuf, Nicolò va leggermente nel panico.
La sensazione è del tutto inedita, abbastanza scioccante: perché il suo terrore istintivo non è È morto, oh Signore, è morto, ma Si risveglierà schiacciato e sarà terrificante, e dolorosissimo, e continuerà a morirne finché non lo tireremo fuori. Il che non è solo orribile di per sé, ma è persino peggio: è la presa di coscienza che potrebbe davvero andare così – che se anche non possono in effetti morire e restare morti, possono sempre rimanere intrappolati. Bloccati. Torturati per l’eternità – senza neanche la speranza di una tregua fatta di oblio.
«Dobbiamo tirarlo fuori da lì!» sbotta, quando finalmente riesce a riprendere a respirare. Gli altri non sembrano vederne l’urgenza – è morto di sicuro, là sotto, gli spiegano, e i morti non hanno fretta.
«Ci dispiace per il tuo amico» aggiungono, mentre li esorta ad aiutarlo a far leva sul legno scadente. «Ma le disgrazie capitano.»
Nicolò non spreca fiato per rispondere.
(L’altra agghiacciate rivelazione è questa: sono quasi scappati dall’impero di Marrakech per evitargli un linciaggio, ma stanno procedendo spediti lungo una strada battuta da uomini come lui – uomini che sono partiti per uccidere mussulmani e depredare città in nome di Dio.
Se Yusuf potesse essere scambiato per un cristiano, non crede dovrebbe convincerli ad aiutarlo a salvarne almeno la salma.)

 

 


 

 


Seduto sotto ad uno zaytun, Yusuf si porta le ginocchia al petto, testandone la mobilità con titubanza. Se n’è andato, pensa, e si sforza davvero molto di concentrarsi sulla rabbia e non sull’ingiustificabile senso di vuoto e dolore alla bocca dello stomaco.
Ha colto l’occasione e se n’è andato.
L’unica altra persona nel resto del mondo che condivide la sua maledizione – e l’ha persa. Peggio.  Ne è stato tradito.
Assecondando uno sciocco timore, ancora non si alza in piedi. Le sue ossa si sono chiaramente ricomposte, la pelle è ovviamente guarita, non sente più altro che il ricordo del dolore – eppure, resta lì, la schiena appoggiata alla corteccia ruvida e nodosa, restio a provare a rimettersi in piedi.
Oh, detesta Nicolò. Si stava iniziando a dimenticare quanto odiasse quell’uomo venuto a saccheggiare la Sacra Città di Allah. In un certo senso, dovrebbe essere grato alla sua natura mendace per essersi mostrata in un momento così propizio, risparmiandogli un’umiliazione ancora più cocente.


Sta giusto cercando di convincersi che le cose sono in effetti andate per il meglio, quando scorge Nicolò camminare verso di lui. Il sollievo che lo inonda è persino più sciocco della delusione, ma Yusuf lo trattiene contro il cuore finché più, respirando a fondo l’aria odorosa di alqatifa.
Col sole morente alle spalle, mentre arranca nell’erba alta per raggiungerlo, i capelli biondi bagnati dalla luce rossastra, il cristiano assomiglia ad uno di quei santi della sua falsa religione: glorioso e magnifico, capace di qualunque muejiza.

 

 

 


Ho un guasto d'amore, non riesco a star bene


Mi trema la pancia e mi vibra la voce
E, quando ti vedo, mi fai innamorare
E se tradisci la faccio passare

 

 

 

 


«Sei sveglio!»
Persino alle sue stesse orecchie, Nicolò suona infantile, scioccamente disperato.
Yusuf lo guarda accigliato per un lungo momento, prima di annuire: «Abbiamo perso il passaggio?» domanda alla fine.
È una buona domanda, ovviamente. Pratica.
Liquida la questione scrollando le spalle: «Stai bene? È-- , insomma, tornato tutto a posto?»
Yusuf inclina il viso. Non risponde subito, e questo dà a Nicolò il tempo di inginocchiaglisi a fianco e premergli una mano sul ventre scoperto, lì dove un’asse marcia del carro s’è conficcata, lacerandogli la veste e sparpagliandogli le viscere nella polvere. La sua pelle è calda e solida, e Yusuf sobbalza leggermente sotto il suo tocco: «Bene» decreta allora, Nicolò, ritirandosi, la voce appena un po’ gracchiante.
«Bene» ammette il musulmano dopo un istante di silenzio.
Quella notte dormono nel campo incolto, sotto un ulivo selvatico e Nicolò non pensa a Gesù prono in preghiera durante le sue ultime ore neanche per un attimo, perché ogni centimetro della sua mente è colmo di sollievo travolgente ed insensato di vedere il petto di Yusuf alzarsi ed abbassarsi nella penombra quieta della campagna.

 

 


 

 


Si sveglia, e non dalla morte, ma da un lungo sonno rigenerante. È un po’ una novità, di questi tempi.
Il pane ed il formaggio che Nicolò ha portato il giorno prima – la ragione della sua assenza quando Yusuf è tornato nel mondo dei vivi – sono quasi finiti, ma lui se ne concede lo stesso qualche morso, mentre guarda il compagno dormire.
Le fronde dell’albero disegnano ghirigori gentili sulla pelle delicata dell’uomo che gli riposa accanto ed improvvisamente Yusuf sente il desiderio di allungare una mano, tracciarglieli sulle guance rosee coi polpastrelli, accarezzarlo fino fino a svegliarlo, vedere se soffre il solletico.
Invece, si alza e s’allontana per pisciare.

 

 


 

 


Arrivano alle miage de Zena un pomeriggio di qualche settimana più tardi.
Non hanno ancora parlato di quello che faranno in città, né di cosa faranno dopo: Nicolò non sa se Yusuf si aspetta che anche lui vada a dire a addio ai suoi cari per poi ripartire in fretta e furia o se lo abbia accompagnato fin lì convinto di dover poi proseguire da solo ed intraprendere la ricerca delle due donne dei loro sogni senza di lui.
Non è del tutto sicuro di saperlo neanche lui stesso.
Genova gli è mancata dall’istante in cui si è imbarcato alla volta della Città Santa, quando ancora non conosceva il suo destino – eppure, ora che ci è tornato, non ha punti fermi: tutto è stravolto, deforme, diverso. Non è solo un’impressione – non è solo che è cambiato, è morto, vede tutto con occhi diversi. I carruggi sono affollatissimi, Piazza Nuova da Basso è colma di persone: «Cöse ghe?» domanda ad un ragazzino, fermandolo per la spalla.
Lui lo fissa, senza capire, per un attimo, prima di: «Oh. Forèsti?» domandare.
Nicolò scuote la testa: «Siamo stati via per un po’.»
Il ragazzino sbuffa, impaziente: «Son tornè i croxæ, no? Be’, lô an liberau a çitæ de Segnô e si son portè de re l’öo e e richésse de i arabi. Zena a l’è rìcca, òua, e se viätri sei zenesi cómme te digi, alua sei pìn de dinæ ànco voî» gli spiega, scalpitando impaziente per poter sgusciare via fra la folla.
Nicolò non lo lascia andare. Inarca un sopracciglio, invece, e gli domanda, sentendosi irritato e mortificato per conto di Yusuf: «E ti t’ê ciù rìcco, rispètto a vêi?»
Il ragazzino si stringe nelle spalle: «I orfani arestânnu mìsci in ogni câxo.»
Questo è vero, così Nicolò lascia presa ed il marmocchio sparisce, inghiottito dalla fiumana di mercanti.
Si gira verso Yusuf, che lo sta fissando in cerca di una traduzione meno vaga di quella che può raffazzonate lui stesso, ma: «Andiamo» dice, invece Nicolò, incapace di decidersi a dargli le ragioni di quest’improvvisa euforia – sai, la Città Sacra per cui sei morto? Era piena d’oro, e adesso che l’abbiamo messa a ferro e fuoco siamo diventati ricchi sulla pelle dei tuoi. «Ti faccio vedere il resto della città.»

 


 

 


Yusuf resta in giardino, quando finalmente raggiungono la casa di Nicolò – Nicolò scuote la testa: «Non è solo una casa, spiega, è un monastero.»
«Mo-na-ste-ro» ripete Yusuf, fissando le grosse pietre che lo compongono. Ha un che di tetro e maestoso, vagamente malinconico, sacro.
«Sacro» dice quindi, e Nicolò annuisce.
«Sei un prete» realizza Yusuf, con mesi di ritardo. «Un prete davvero» aggiunge dopo, cercando di spiegare il suo sconcerto. «Non come--» incespica un po’, ma alla fine lo dice lo stesso. «Non come un insulto, ma sul serio
Nicolò ride, e gli batte una mano sulla schiena: «Sì, Yusuf» dice dolcemente. «Sono un prete per davvero.»
Lui fa una smorfia, ma quasi più per amor di teatralità che per reale sentimento: «Sei bravo con la spada» commenta, perplesso. Nicolò rotea lo sguardo ed annuisce: «Siamo i soldati di Dio» replica, e per qualche ragione sembra una battuta.
Yusuf si siede su di un muretto a secco. Dà la schiena al roseto, perché così può guardare il grosso portone di legno chiudersi cupamente alle spalle di Nicolò.

 

 


 

 


Per essere uomini del Signore, i suoi confratelli sembrano più inclini a credere nel demonio che nei miracoli.

 

 


 

 


Passa un’ora. E poi ne passa un’altra. E poi è quasi notte e Nicolò non è ancora tornato.
Yusuf comincia a sentirsi un po’ inquieto, solo in questo giardino troppo silenzioso.

 

 


 

 


Fratello Guglielmo, in particolare, la prende parecchio sul personale, questa cosa, di non riuscire ad ucciderlo.
Non che non ci si metta d’impegno.

 

 


 

 


Yusuf scivola lentamente nell’ombra, un’inquietudine senza nome che gli vibra nello stomaco. È stupido, perché se c’è un momento opportuno per separarsi è proprio questo, ma per qualche ragione non riesce a scrollarsi di dosso la sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato.
Ha messo in conto che Nicolò possa decidere di restare, ovviamente. Questa è la sua casa. Se è vero che la terra parla di chi la vive, Genova è un discorso complicato: è tutta un saliscendi di gradini scavati nella roccia nuda, e coltivare le pietre non dev’essere semplice – eppure Yusuf capisce perché Nicolò la ami con tanta devozione. C’è qualcosa, nel suo essere uno spazio liminale fra mare e monti, che s’avvicina al divino. Se non altro, guardando il posto dove è cresciuto è almeno facile capire perché creda così fervidamente, pur se in una divinità falsa.
Nonostante questo, Yusuf indulge nell’istinto che gli accappona la pelle: se Nicolò volesse semplicemente rimanere, uscirebbe a salutarlo, a spiegargli. A mandarlo via.
No.
Scava nei poveri bagagli che hanno accumulato durante il viaggio, ma si sono spogliati di tutte le armi che possedevano, mentre lentamente morivano e morivano e continuavano a vivere camminando in Terra Santa. Lui ha perso il suo Kilij durante il sacco di Gwrusalemme, e hanno abbandonato la spada e l’armatura di Nicolò da qualche parte nel deserto. L’unica che non si sono lasciati indietro è il coltello che Nicolò ha rubato nella taverna che dava sull’al-Bahir al-Mayyit e che Yusuf ha aspettato gli venisse piantato nel costato per intere nottate, prima di dimenticarsene del tutto. Lo ritrova ora, avvolto nella pergamena stropicciata su cui ha disegnato le due donne che continuano a sognare, e sembra quasi un segno, una specie di messaggio. Ovviamente non lo è. Nicolò dispone di una certa dose di fede mal riposta, è vero, ma nell’esperienza di Yusuf questo suo atteggiamento non sfocia nella stupidità: se si fosse immaginato di trovarsi in pericolo non sarebbe entrato disarmato. O forse sì. Se Yusuf credesse nel suo stesso Allah si farebbe più scrupoli nel fare irruzione in edificio che giudica sacro.
Ma. Be’.
Yusuf crede nell’unico Allah che esiste, comunque, e scassinare il portone di un tempio eretto per una falsa divinità non è un alkhatiya.
Dentro, è fresco, quasi freddo. Le candele accese lungo le pareti disegnano ombre lunghe e tremolanti sui volti dei murābiṭ cristiani, donando loro sguardi attenti e vivi, espressioni di marmoreo scontento.
Quello che di davvero terrificante c’è, però, sono le urla.
Yusuf segue il suono sforzandosi di non accelerare il passo per non mettere in allarme chiunque sia rimasto di guardia, ma quando arriva alla stanza da dove provengono quasi impreca voce alta.
Nicolò è legato ad una croce, come il profeta Isa che loro osannano come un idolo pagano e con cui battezzano qualunque cosa – Cristo? – e sanguina.
E urla, quando un coglione gli conficca un tizzone ardente in corpo. Ovviamente. Chi è l’idiota che crede che non morire e non soffrire siano la stessa cosa, comunque? Improvvisamente, Yusuf si sente stranamente quieto, come investito d’una calma fredda, terribile. Entra nella stanza e si guarda intorno, in attesa che questi kilab khayina si accorgano di lui.
Quello che succede dopo, ah. Immagina che dovrà semplicemente aspettare di vedere se Nicolò sarà più disposto a perdonare i suoi confratelli per averlo torturato per un intero pomeriggio invece che riaccoglierlo come il muejiza che è, o lui per aver massacrato quella che considera la sua famiglia.

 

 


 

 


Nella luce pallida della sagrestia, Yusuf sembra un angelo vendicatore. Meraviglioso, implacabile, bellissimo. Guglielmo e gli altri non hanno davvero molte possibilità, contro un guerriero immortale della Città Sacra.
Nicolò respira a fondo contro le ferite, e lo guarda – magnifico, terrificante – massacrare i suoi confratelli. Mentre il sudore gli cola bruciante negli occhi, sente qualcosa lacerarglisi nel petto: questo è, decide, Dio che gli parla.
È Mosè che separa le acque ed il Mar Rosso che si richiude sugli egizi come una tomba d’acqua: è il prima ed il dopo che spacca a metà la sua esistenza. Tutto, da quando è morto, gli è sembrato un sogno – all’inizio un incubo, e poi qualcosa di poco più doloroso che un sonno agiato, e poi illusioni dolcissime, chimere fatte di zucchero. Ora, però, si sta svegliando. Non è all’Inferno e non è in uno strano limbo simile al Purgatorio. Per ovvie ragioni non è neanche in Paradiso, ma francamente non gli importa affatto: è vivo e straziato, sulla terra, ed ogni boccata d’aria è un’agonia, una meraviglia.
Scivola dolcemente nell’incoscienza, lo sguardo fisso sulle mani grondanti di sangue di Yusuf, il manico del coltello che si era dimenticato di avere ancora, dai tempi della locanda alla fine del deserto, stretto fra le sue dita lunghe e capaci – da pittore e guerriero, da artista.

 

 


 

 


Riescono ad ucciderlo due volte, per semplice superiorità numerica, ma entrambi il cupo divertimento che la sua indifferenza alle ferite mortali provoca in loro supera di gran lunga il dolore. Yusuf uccide l’ultimo masihiun e si gira verso Nicolò, morto in croce per gli sciocchi terrori dei suoi confratelli.
Usa il coltello per liberarlo e poi tira giù il corpo.
In ginocchio sul pavimento di marmo duro e freddo, resta a cullarselo in grembo finché non vede l’aria riempirgli di nuovo i polmoni con un primo sospiro sibilante.

 

 


 

 


La prima boccata d’aria è dolorosa come se stesse ingoiando carboni ardenti, ma poi apre gli occhi, ed è vivo.
È vivo, e fra le braccia di Yusuf.
Deve rivedere la sua precedente affermazione sul non trovarsi in Paradiso.

 

 


 

 


Nicolò ci mette un po’ a tornare coerente. Sbatte le palpebre, e ansima stringendosi il costato come se fosse ancora ferito. Non lo è – Yusuf ne è certo, perché ha controllato.
Quando il suo sguardo si fa lucido, si districa lentamente da lui, lo lascia andare perché possa mettersi a sedere autonomamente.
Nel frattempo, lui si alza in piedi. È un po’ doloroso, stare in mezzo a tutti questi cadaveri, ricordare con esattezza l’istante in cui la vita ha lasciato ognuno di loro, l’oscura soddisfazione nel porre fine alla loro esistenza. Mentre l’adrenalina scema, Yusuf si guarda intorno con un crescente malessere, lo stomaco contratto. È finita, pensa, con un certo distacco. Non pensa ai confratelli, però, ma a Nicolò. A lui e a Nicolò. Ah, si rende conto con un pessimo tempismo. Ah.
Anche Nicolò si sta alzando in piedi, un po’ barcollante. È vivo e sta bene ed il sangue di cui è macchiata la sua pelle chiara non viene da nessuna ferita aperta. È importante – Yusuf ne è certo, è importante. Anche se ora lo odierà: va bene, perché non sta più urlando. È importante.
Quando scatta verso di lui, Yusuf non indietreggia neanche. Perché è giusto, immagina, che Nicolò lo odi, adesso, che lo voglia uccidere, vendicare i suoi confratelli. Una reazione coerente e prevedibile e assolutamente misurata, rispetto all’efferato massacro che ha appena compiuto.
Non vuole guardare i suoi occhi bruciare dello stesso odio di cui erano accesi durante battaglia in cui si sono uccisi a vicenda la prima volta, però.
Così, serra le palpebre e aspetta il dolore, la giusta punizione.

 

 


 

 


Merda, pensa Nicolò guardandosi attorno, fra i corpi straziati dei suoi compagni. Merda. Per un accecante attimo di panico gli sembra di essere ancora in Terra Santa, la sabbia a riempirgli i polmoni, le orecchie intasate di urla, gli occhi ricolmi dell’immagine di un uomo, sulle mura, che dà l’ordine di scoccare.
Non è così, però. Respira, e respira l’odore ferroso del sangue, è vero, ma anche quello polveroso dell’incenso della sua infanzia, e l’aria è fresca e asciutta, non bollente ed umida come alle porte di Gerusalemme.
L’unica cosa invariata sono lui e Yusuf, in piedi fra i morti, che ansimano ai capi opposti di una carneficina. Sarà così per sempre, si scopre a pensare. È come una ruota – come il destino: avanti e avanti e avanti, sempre uguale a sé stesso. Sempre loro, sempre vivi e soffocati dall’emozione, sempre in piedi nel sangue.
Merda, pensa di nuovo Nicolò, ma questa volta ha molto poco a che fare con le crociate. Fa un passo in avanti, ondeggiando sotto l’enormità della realizzazione, e poi un altro e un altro ancora, finché Yusuf non lo raggiunge con le mani protese in avanti, come per aiutarlo a mantenere l’equilibrio. Il musulmano preme un palmo sul petto, lì dove il cuore di Nicolò sta sbattendo contro lo sterno, impazzito, e lo guarda accigliato: «Hal 'ant bikhayrin?» domanda, basso, preoccupato, le dita che di nuovo gli vagano lungo il ventre per scoprire qualche ferita invisibile.
A Nicolò non serve sapere cosa significa per potergli rispondere, perché c’è un’unica cosa che è in grado di fare al momento. Si sporge in avanti, e lo bacia.

 


 


Yusuf chiude gli occhi, e poi li riapre. Nell’ombra cruda delle candele della chiesa di Nicolò, tutto sembra spettrale, azzurrognolo e bluastro, livido, ruggine e rosso sangue – ogni cosa sembra appartenere ad un altro mondo, essere lì solo per una scossa d’assestamento, uno squarcio nel velo che divide l’umano ed il divino. O forse è solo il capo di Nicolò che gli pesa contro la clavicola, il suo respiro caldo ed affannoso attraverso il tessuto della casacca.
«Hal 'ant bikhayrin?» ripete, e la sua voce suona distante, arrochita, dolcissima.
Nicolò alza il viso per guardarlo e sorride: «Wa’antu?» chiede, smozzicando l’arabo col suo accento provenzale.
Ci sono molte risposte che potrebbe dare a questa domanda – No, per niente; Sì, certo, che domande; Sono assolutamente terrorizzato; So che è ridicolo, ma credo di amarti – e sarebbero tutte ugualmente sincere.
Così, Yusuf si china a baciarlo gli sussurra sulle labbra: «Lam 'akun 'afdal min 'ayi waqt madaa, Nykulw.»

 

 

 


Gli stessi colori che cadono in mare
Quando il sole tramonta senza salutare


E, quando ti vedo, mi fai innamorare

  
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