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Autore: Yellow Canadair    04/06/2023    1 recensioni
Post Enies Lobby, durante il timeskip.
Gli agenti del Cp9 sono stati reintegrati nel Governo Mondiale, tornano in missione sul campo.
Ma all'improvviso, l'imprevisto: il bersaglio ha addosso una bomba. L'esplosione, il fuoco. E il Tekkai di Jabura ha un solo nemico: il fuoco.
L'SOS viene raccolto dai suoi compagni, viene ritrovato quasi morto... e tutto il resto è salita, e rumore di pioggia sui vetri.
Genere: Angst, Fluff, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jabura, Kaku, Kalifa, Kumadori, Rob Lucci
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Dal CP9 al CP0 - storie da agenti segreti'
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Pioggia

 

dalla splendida fanart di @stttane_cK0

 

 

Jabura si trascinò fuori dal salone, stringendo nella mano destra il baby lumacofono per le emergenze. 

Cazzo, se faceva male. Non riusciva a stare in piedi. Le gambe non volevano saperne di rispondere. 

Guardò davanti a sé: le pareti di quel posto erano sempre state verdi? …no, maledizione. Vedeva i colori alterati per il dolore. 

Si trascinò ventre a terra ancora per qualche metro, si fermò con un ringhio sotto un'arcata di mattoni. 

C'era un rumore costante nell'aria, un lungo fischio che gli trapassava il cervello, ma non ne individuava la fonte. 

Quel posto minacciava di crollare da un momento all'altro, l'incendio provocato dalla bomba si sarebbe propagato in pochi minuti. 

Che cazzo era successo? Il Tekkai, perché il suo Tekkai perfetto non aveva funzionato?

Cercò di tirarsi su, puntò gli avambracci a terra e tentò di mettersi a sedere, ma niente da fare: perdeva troppo sangue, il dolore alle gambe lo annebbiava, le schegge gli trapassavano roba che sarebbe dovuta rimanere intatta, cazzo. 

Rimase bocconi, a pugni stretti, e compose a fatica il numero di emergenza sul lumacofonino. 

 

«Qui Jabura, mi ricevete? Passo» 

«Forte e chiaro, qui Kaku. Passo»

Jabura fissò il ricevitore muto. 

«Qui Jabura, ehi, ci siete? Passo!»

Kaku si spazientì. «Ti sento, Jabura! Parla!» 

Niente, il lumacofono non andava, pensò Jabura. 

Eppure… 

Aveva i lineamenti di Kaku, quindi una connessione c'era. Però non sentiva nulla… 

Si piegò su se stesso per il dolore, il rumore nelle orecchie non smetteva di tormentarlo.

Ma certo…! La bomba! 

Era stata l'esplosione. I timpani erano andati, e il suo Tekkai aveva un unico punto debole: il fuoco.

«Missione compiuta…» un ringhio di dolore e frustrazione. Il Lupo riprese fiato per dire infine: «Il bersaglio è morto. Chiedo estrazione immediata…» strinse i denti per soffocare un rantolo… ok forse era il caso di dire che c'era un problema. «Sono ferito, c'è stata un'esplosione vicino a me, non sento niente, passo.» 

Forse avrebbe dovuto aggiungere che il bersaglio, ormai senza vie di scampo, si era fatto esplodere a poca distanza e lui era stato investito da una vampata di fuoco, ferro e schegge di ossa e denti di quello stronzo, ma era già tanto, per il suo orgoglio, riuscire ad ammettere quel "sono ferito". 

 

Alla base, lontani alcuni chilometri, Kaku guardò Lucci con preoccupazione. «Non ci sente.» disse picchiettandosi l'indice sull'orecchio.

La voce di Jabura, a fatica, con strazio, continuò: «Non posso arrivare al punto… al punto d'estrazione.» disse concentrando tutte le forze che sembravano fluire via col sangue che rivolava sul pavimento. 

Lucci prese il microfono di mano a Kaku: «Ci dirigiamo nella tua ultima posizione nota, rimani sveglio. Passo e chiudo.» 

E chiuse davvero. 

«Che diavolo…?» protestò Kaku. 

«È ferito, non hai sentito? Non riesce nemmeno ad arrivare al punto d'estrazione, l'idiota. Dobbiamo andare a prenderlo noi.» disse tagliente Rob Lucci, indossando la giacca nera e uscendo dalla stanza. 

 

Tette, tette, carne, carne alla brace, alla griglia, culi, le tette di Califa, culi, carne, il prato, com'era bello il suo prato porco cazzo ma mica posso morire qui, no? 

Jabura cercava di tenere impegnata la mente, di stare vigile, di non sprofondare in un pericoloso baratro di sonno. 

Era sempre più difficile, il freddo stava prendendo il sopravvento, il suo corpo sembrava svuotarsi. Quanto sangue aveva perso? Si premette ancora le mani su quella che sembrava la ferita peggiore, un squarcio nero che partiva dal ventre e gli arrivava quasi sul cazzo… cazzo, gli faceva male anche il cazzo. Ma ce l'aveva ancora, vero? 

Jabura usò misere briciole di forza per controllare quel dettaglio fondamentale… sì, il cazzo c'era. Faceva malissimo anche quello, ma c'era. C'erano schegge anche lì probabilmente, pensò l'uomo stringendo i denti. 

Chiuse gli occhi per il dolore, e poi… e poi? 

Aprì gli occhi di pochissimo, vide una finestra spalancata davanti a lui, vide il cielo plumbeo, forse pioveva. Sentiva l'odore acre del fuoco, da qualche parte, e quello della pioggia.

Chiuse di nuovo gli occhi.

Il nero 

Si sentì sprofondare… 

Trattenne il respiro, il pavimento cedette senza fare rumore, e lui precipitò. 

 

Lucci lo trovò e trattenne un'imprecazione: gli fu chiaro da subito che la situazione era disperata. 

Il collega non rispondeva, era freddo, si era trascinato per una decina di metri da quello che sembrava il teatro di un'esplosione, e poi era crollato lì, sotto quell'arcata di mattoni. 

«Il polso c'è.» disse Kaku inginocchiandosi vicino a Jabura. «Ma si sente appena. Come lo muoviamo?» 

«Kumadori!» chiamò Lucci imperioso. 

Gnaulando, si precipitò Kumadori, con le lacrime agli occhi, saltando sui calcinacci e respingendo le fiamme che si propagavano usando i lunghissimi e folti capelli come dei ventagli. 

I tre agenti erano bagnati fradici: di tutti i momenti, il cielo aveva scelto proprio quello, per scatenare la sua furia.

«Mio povero amico, qual destino ti ha travolto…» 

«Una bomba Kumadori, muovilo il meno possibile.» rispose secco Kaku con un brivido. Si guardò attorno, notò le imposte delle finestre, spalancate dall'esplosione: una di quelle sarebbe stata una barella d'emergenza eccezionale. La staccò a mani nude in equilibrio sul davanzale, con un calcio finale per un cardine che non voleva arrendersi, e portò l'imposta bagnata accanto a Jabura. 

Kumadori si rimboccò le maniche e sollevò con precauzione il corpo di Jabura. Fili densi di sangue scuro sembrarono ancorarlo al suolo. 

«Non fargli cambiare posizione, mettilo… ecco, così, mettilo così un po' sul fianco, come stava. Non sappiamo che danni ha.» indicò Kaku. 

«E piantala di piangere!! Un bastardo del genere non mi farà mai il favore di crepare.» ruggì Rob Lucci. 

Kumadori tirò su col naso, si asciugò il moccio con la manica, e stoicamente si mise in posizione per alzare la barella improvvisata; lui e Kaku la sollevarono perfettamente in sincrono, e Lucci li guidò attraverso il grande portale creato da Blueno. 


 

La gola. 

La gola bloccata. 

Non respirava.

Eppure non gli mancava il fiato. 

Bianco, un grande bianco. 

Cercò di aprire gli occhi. 

Era come cercare di tirare su due saracinesche piene di sabbia. 

Si concentrò. 

Riuscì ad aprire gli occhi di una fessura. 

Bianco, tanto bianco. 

Un ospedale? 

Un ospedale… ce l'aveva fatta. 

C'era una figura sfocata davanti a lui. Sentì la sua mano stretta in qualcosa di caldo e morbido. Un'altra mano? 

Sentì una voce. O forse la immaginò. Era come in una frequenza disturbata. 

Poi buio. 


 

Tornarono i suoni. 

Lontani, ovattati, come se avesse del cotone fitto fitto nelle orecchie. Non afferrava tutto. 

Tranne un inconfondibile YOYOI sparato a volumi altissimi. Fu allora che Jabura si rese conto di essere vivo, e nemmeno di essere messo tanto male. 

Cercò di muovere la testa: qualcosa era infilato nel suo naso. Allora cercò di spostare le braccia, ma doveva avere un ago o due da qualche parte. 

Tentò di muovere il bacino, ma aveva qualcosa infilato nel… ohhh cazzo, non lì. Era messo così male da non poter pisciare in autonomia? 

Qualcosa si mosse vicino alla sua mano. La strinse. 

Aprì impercettibilmente le palpebre, ma cercando di non farsi scoprire: voleva sapere chi ci fosse vicino a lui. Avvertiva qualcosa, ma non distingueva le voci. 

Liquido.

Vedeva liquido. 

Come osservare il fondo di un lago, con più fatica. 

Sentì di nuovo l'odore della pioggia, ma non aveva freddo.

 

«Si muove.» disse in fretta Califa, stanca della sua veglia. 

Gli sguardi di tutti si focalizzarono su Jabura. Lucci chiuse la finestra, dopo averla aperta di poco per lasciar entrare Hattori: la custode del pianterreno non voleva saperne, di farlo passare. Il colombino agitò le piume appena bagnate, e si acquattò sulla spalla del fidato compagno.

Kaku prese il polso di Jabura, in attesa. I battiti erano aumentati.

Lucci, Kumadori, Califa, Kaku. Rimasero tutti, persino il boss, con il fiato sospeso. 

«Provate a chiamarlo. Non ha recuperato del tutto l'udito, ma forse può sentire qualcosa.» suggerì l'infermiere. 

Gli agenti si guardarono tra loro, stringendo le labbra. Kumadori vide che nessuno prendeva l'iniziativa, e cominciò: «Noooobile amico, che da molti mesi languisci in un letto di dolore e strazio, apri le labbra assetate, schiudi i tuoi occhi stanc-» 

«Meglio qualcosa di più elementare.» suggerì l'infermiere, in imbarazzo. «Gli antidolorifici che gli abbiamo somministrato sono molto forti, potrebbe essere confuso.» 

Lucci stirò le labbra in un sorriso ironico ma si astenne dal commentare.

«Jabura, rispondi. Ci senti?» chiese Kaku con fermezza. 

 

Da qualche parte dentro di sé, Jabura rise. Non capiva un cazzo, ma quella era la voce di Kumadori! Era lì nella stanza? Era nella sua testa? Sentiva sempre più voci. Sentiva sempre la sensazione sulla mano. E la pioggia aveva ceduto il passo a un odore di colonia dolce, ricercato, da sogno erotico. Califa? 

 

Califa si avvicinò, sfiorò con l'unghia laccata di rosso l'avambraccio di Jabura. Seguì il verso della peluria, arrivò fino al polso. «Dovresti svegliarti.» disse esitante. «Mi sento davvero molesta a parlare con qualcuno che nemmeno i sente.» 

I quattro agenti osservarono il volto di Jabura. Aveva cambiato espressione: teneva le sopracciglia aggrottate, come se stesse disperatamente cercando di afferrare qualcosa.

 

Jabura non sapeva che quelli erano i primi contatti con la realtà da due mesi: era stato recuperato quasi morto dalle isole Nohbellar, dov'era in missione e dove era stato investito da una tremenda esplosione. L'obiettivo, da trovare e consegnare alla giustizia, era morto: era il collaboratore di un potente pirata, e aveva pensato che, piuttosto che finire in mano al Governo e tradire, era meglio farsi saltare in aria e trascinare con sé anche l'agente segreto che lo stava inseguendo.

I suoi colleghi l'avevano portato via, era stato trasportato d'urgenza all'ospedale militare di Supritt e lì tenuto in terapia intensiva. 

Ma a quel punto gli agenti avevano dovuto lasciarlo, e tornare a Catarina, dov'erano da poco di stanza in quel periodo. Jabura li avrebbe raggiunti appena sarebbe stato in grado di camminare sulle sue gambe.

Kumadori però non ci stava: aveva telefonato tutti i giorni all'ospedale di Supritt usando le linee riservate del Cipher per sapere come stesse l'amico, se ci fossero novità, se facesse progressi. Lucci ogni tanto gli chiedeva: "hai telefonato ancora?", e Kumadori diceva di sì: era il modo che aveva l'onorevole Lucci per non abbandonare il collega, quello stesso collega che a Enies Lobby non aveva abbandonato lui.

Kumadori, supportato da Kaku che "lo faceva solo per smetterla di sentirlo piagnucolare tutti i giorni", aveva cominciato a muoversi per riportarlo a casa, appena si fosse stabilizzato abbastanza da affrontare un viaggio: telefonate, amici di amici, favori da riscuotere.

Un mese dopo, l'autorizzazione era stata concessa. Jabura era ancora sotto sedazione, però la nave militare era stata attrezzata per farlo viaggiare in sicurezza. 

Così era tornato a casa, dai suoi colleghi.

 

«Lasciate perdere.» disse Rob Lucci di scatto, raccogliendo la giacca, l'ombrello, e avviandosi verso la porta. «Non abbiamo tempo da perdere. Ci chiamerete quando si sveglierà.» ordinò all'infermiere. 

«Idiota.»

Silenzio.

Tutti si guardarono sbigottiti tra loro. 

Poi Jabura ripeté tra i denti: «Idiota.» 

«Sei sveglio!» sussurrò Califa, seduta alla sua sinistra. 

Jabura aprì leggermente gli occhiacci infami. Aveva capito che Califa aveva parlato ma non distingueva le parole. 

«Non soffocatelo.» ammonì l'infermiere. 

«MADRE!!! TU CHE HAI RIPORTATO LO AMICO NOSTRO ALLA VITA, TU CHE SEMPRE CI PROTEGGI E CI AMI…» 

«L'avrà cacciato dall'inferno a pedate.» disse Lucci scavalcando l'ingombro della collega e andando più vicino a Jabura. Gli prese virilmente una mano e Jabura riuscì a ricambiare la stretta e a seguirlo con lo sguardo. 

«Era ora, lavativo.» disse il leader. 

 

I giorni passavano. La pioggia batteva silenziosa sopra i vetri, non dava tregua. Le previsioni del tempo non lasciavano presagire niente di buono.

Jabura però riusciva a sentire i tuoni; a volte lo svegliavano, ma tutto sommato era un bene: l'udito stava tornando. Sonnecchiava spesso. Salì la febbre, dovuta, dicevano i medici, al fatto che fosse in ospedale da tanto tempo, come reazione allo stress. 

«Non possiamo fare qualcosa?» chiese Califa, passando una mano sulla fronte calda dell'uomo. 

«Passerà.» disse la primaria. «Non vogliamo dargli farmaci non necessari.» 

«Yoyoi, non è concesso neppure apporre delle stoffe fresche sul volto madido del nostro compagno?» 

La primaria si strinse nelle spalle: «Siamo in un ospedale, mi sembra ridondante…» 

Kaku le piazzò due dita nella schiena senza una parola. 

«…ma ovviamente scelta libera!!» aggiunse in fretta la dottoressa alzando le mani.

Le pezze sulla fronte gli diedero sollievo. Era così rincoglionito da non riuscire nemmeno a trovare una battuta per schernire Lucci, ma quelle pezze sulla fronte gli davano una sensazione di fresco, e lo rilassavano.

Mosse la testa, per quel poco che poteva, cercando il contatto con le mani della ragazza. 

«Il solito molesto…» sussurrò Califa, togliendogli una pezza ormai calda dalla fronte e mettendogliene una nuova e fresca, appena strizzata. «Appena torna Kumadori, mi faccio dare il cambio»

Jabura avrebbe voluto ribattere, ma parlare era complicato. 

Ogni tanto, quando c'erano gli amici, riusciva a capire quello che dicevano, e anche a rispondere con qualche parola, ma in quei primi giorni più che altro dormiva e si godeva i suoi compagni attorno a lui. 

Califa gli aveva delicatamente tagliato le unghie, e gliele aveva limate con cura; Kumadori gli aveva lavato con pazienza i capelli, usando un secchio e una spugna, aiutato da Kaku che aveva impermeabilizzato il letto con delle grosse buste di plastica. 

E poi era arrivato Rob Lucci. 

«Che sei venuto a fare?» nemmeno due mesi di coma potevano chetare le antiche acredini. 

«A renderti presentabile, animale.» e Lucci aveva tirato fuori dalla tasca interna della giacca, facendolo scattare, un rasoio a una lama. 

«Non lo voglio un pizzetto come il tuo» 

«Credi di essere dal tuo barbiere di fiducia?» l'aveva zittito Lucci. «Ti faccio il taglio che avevi… anche se era discutibile.» 

Jabura sospirò, e strofinò una guancia contro il cuscino. Effettivamente la barba era diventata lunga, e non aveva idea delle condizioni di baffi e pizzetto. Un'infermiera gli aveva chiesto se volesse uno specchio e lui aveva risposto di no, per carità. Non aveva nemmeno la forza per reggerlo. 

Lucci si sfilò la giacca e la posò sullo schienale della sedia accanto a Jabura. Hattori spiccò un voletto, e si appollaiò sulla sponda ai piedi del letto; quel giorno la terribile custode che non lo faceva entrare non c'era.

Poi l'uomo andò a passo sicuro nel bagno della stanza, tirandosi su le maniche fino a scoprirsi gli avambracci. Ne tornò dopo pochi minuti con una bacinella piena a metà di acqua calda, che sistemò ai piedi del comodino.

Jabura aprì un occhio e mormorò: «Addirittura?» 

«Faccio le cose per bene, io.» 

Bagnò un fazzoletto, lo strizzò, e cominciò a bagnare il volto del collega, con una delicatezza inaspettata per una persona con l'hobby dell'omicidio; ma Rob Lucci era anche una persona estremamente elegante e curata, e non avrebbe permesso che una sua rasatura fosse stata da meno. 

Jabura sospirò, e rilassò le spalle. Era una sorta di permesso che dava al collega e rivale, e a Lucci non sfuggì. 

Aprì una scatola, dentro c'era della pomata da barba; vi intinse un pennello facendo schiuma, e con precisione millimetrica la mise sul volto del Lupo, ben attento a coprire tutta la barba e nient'altro, sia sulla gola che sugli zigomi alti. 

Che baffi assurdi, pensò Lucci spostandoli per mettere meglio la schiuma. Era il momento buono per tagliarli di netto. 

«Mi alzo e ti faccio il culo.» sussurrò Jabura senza aprire gli occhi, come leggendogli nel pensiero. 

«Non avrei difficoltà a sistemarti a cose normali, figurati ora.» gli ricordò il boss, parlandogli da vicino. 

Poi Lucci aprì il rasoio pieghevole monolama, e solo allora Jabura aprì un occhio, uno solo. 

Lucci alzò un sopracciglio.

Jabura, che in quel momento sembrava un anziano marinaio dalla barba bianca, diede un cenno d'assenso. 

Le mani di Lucci erano esperte; radeva con delicatezza, e decisione, e la stessa rapidità con la quale eliminava criminali sgraditi al Governo. Non un taglio, non una goccia di sangue. Alla fine eliminò i residui di schiuma con il fazzoletto umido, regolò baffi e pizzetto con un paio di forbici, e non si concesse nemmeno un millimetro in più. 

«Servito.» recitò ironicamente, alla fine, ad alta voce.

«Niente dopobarba?» lo stuzzicò Jabura. 

Che sollievo essersi sbarazzati della barba lunga! Che bella la sensazione di fresco sulle guance! 

«Tu non hai mai usato il dopobarba, cavernicolo.» 

Jabura ridacchiò. «Volevo vedere se ti ricordavi… niente male.»

Rob Lucci uscì dalla camera con l'ombrello al braccio, dopo essersi lavato le mani e dopo aver riposto tutti gli strumenti da barba in una valigina che poi lasciò nel comodino, accanto a Jabura.

Hattori pensò che quella tregua sarebbe durata pochissimo. Guardò indietro, verso la stanza di degenza e, prima che la porta si chiudesse, notò l'acerrimo rivale del suo amico che si passava una mano sul volto rasato di fresco, beandosi del lavoro appena fatto.

Oltre i vetri della finestra chiusa, la pioggia scendeva sottile, le gocce tintinnavano sulla strada e sulle pozzanghere come una cascata di spilli sulla seta.

Jabura si voltò: ricominciava a sentirli.

 

 

 

Dietro le quinte...

Ciao!! avevo voglia di scrivere del Cp9 in un contesto diverso dal solito, senza troppa trama, solo mortiammazzati, ferite e coccole... ed eccoci qui. Rigrazio @stttane_cK0 per la sua bellissima fanart che ha ispirato questa one shot.

Questa (dis)avventura si colloca durante i due anni di buio del Cp9, nel momento in cui sono stati reintegrati nel Governo Mondiale dopo i fatti di Enies Lobby. Per chi segue le mie storie, parliamo del primissimo periodo in cui gli agenti si sono stabiliti nell'arcipelago di Catarina.

Grazie per aver letto! ♥ sono così contenta di scrivere di questi ragazzacci, spero di scrivere ancora altro! ♥

Un abbraccio a tutti i lettori,

Yellow Canadair

 

  

  
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