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Autore: Werewolf1991    06/06/2023    0 recensioni
What If: Le profezie si avverano sempre, ma a volte lo fanno in maniere inaspettate. (Angewomon x Vamdemon)
Liberamente ispirata ad una fic scritta da Orochicko che l'autrice ha cancellato anni fa, e opportunamente modificata dalla sottoscritta.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Vamdemon/Myotismon, Wizardmon
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza
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Vittima, o del Ratto di Proserpina
 
 
Il freddo di quelle pietre sembrava esserle penetrato fin nell’anima ormai. Non lasciava quelle mura da non sapeva più neanche quanto e ormai aveva dimenticato cosa fosse il calore del sole sulla pelle. L’Oscurità opprimente di quel luogo le lasciava un senso di inquietudine perenne, che le causava una forte tensione.  
 
Era china su quel punto del pavimento da ore, ormai.  Le ginocchia le dolevano , aveva la schiena a pezzi ed i capelli biondi che le ricadevano scomposti in avanti. Sospirò rassegnata osservando le sue unghie sfibrate e spezzate in più punti a causa del continuo sfregamento e del contatto con l’acqua, nel frattempo tentando di ignorare i lividi violacei sulla pelle chiara, mentre ripassava per l’ennesima volta lo straccio sulle mattonelle di quei pavimenti che sembravano non essere mai stati puliti dal giorno in cui erano stati costruiti.
 
Quanto tempo era passato ormai, da quel maledetto giorno? Lo ricordava ancora come fosse ieri. Ricordava la sensazione di tradimento che aveva provato. Dopo la sconfitta apparente del suo Padrone, era avvenuto l’impensabile. Gli altri Prescelti l’avevano rifiutata. L’avevano accusata di aver quasi causato la morte di Wizarmon, e di essere una minaccia per la loro incolumità. Allora, Lui era ritornato in vita. Avrebbe potuto essere la sua occasione per riscattarsi ai loro occhi, ma così non fu.  
 
Taichi fece un accordo con lui. E l’altro lo accettò. Quando ciò avvenne, lei tentò disperatamente di salvarsi. Si gettò ai piedi dei ragazzi, implorando di non farla portare via, promettendo loro che mai e poi mai li avrebbe traditi. Si offrì persino di diventare la loro schiava.
 
Ma fu tutto inutile. La loro decisione fu lapidaria e irrevocabile.
 
Dunque, vedendo che da sola non collaborava, lui schioccò le dita, ed alcuni dei suoi servi la presero per le braccia e per le gambe, sollevandola di peso e trascinandola a forza verso la carrozza. Si dibatté disperatamente, in preda al terrore. Pianse fiumi di lacrime, e invocò il loro aiuto, poi, con uno slancio dato dalla forza della disperazione riuscì ad aggrapparsi ad uno dei ragazzi, ma un attacco del suo Digimon le fece perdere la presa, gemendo dal dolore mentre le sue dita scivolavano via, venendo spinta dentro dal colpo, senza avere il tempo di reagire, atterrando malamente sul sedile, venendo bloccata successivamente dagli altri occupanti. E così non poté evitare alle porte di richiudersi intrappolandola al loro interno quasi come le fauci fameliche di un predatore pronto a divorare la sua preda.
 
Lui non si scompose, vedendola in quelle condizioni, e lasciò che si sfogasse , godendo nel vederla in quello stato miserevole. Allora tentò di convincersi che fosse tutta una trappola. I ragazzi sarebbero tornati a prenderla, e lui l’avrebbe pagata. Inaspettatamente si lasciò urlare contro, senza reagire come di consueto.  
 
Una volta giunti al castello, dunque, la lasciò sola in una cella, senza neanche sfiorarla, attendendo che si arrendesse all’inevitabile.
 
Disse solamente che quando sarebbe stata pronta, avrebbe saputo cosa fare di lei.
 
Ancora aggrappata alla speranza che fosse tutto un piano dei ragazzi gli rispose che non avrebbe mai ceduto.
 
Passarono diversi giorni. Ogni tanto passava davanti alla sua cella e le sorrideva enigmatico. Proibì a tutti suoi servi di rivolgerle la parola e di dedicarle qualsivoglia tipo di attenzione. La isolò completamente dal resto del castello. E dal resto del mondo.
 
Dopo una settimana, proprio quando ormai questo stato di cose cominciava a pesarle, si sentì arrivare qualcuno. Riconobbe subito le voci.
 
Il suo cuore si riempì di gioia! Erano loro! Erano venuti a prenderla!
 
Dunque, sorrise piena di felicità, e li vide entrare tutti con un’aria determinata. Taichi ed Agumon, Yamato e Gabumon, Sora e Pyomon, Mimi e Palmon, Koushiro e Tentomon, Jou e Gomamon, Takeru e Patamon, ed infine, Hikari e Wizarmon.
 
A quella vista si commosse, e dunque attese quello che sarebbe avvenuto. Hikari e Wizarmon si avvicinarono alla sua cella. Quindi aprì la bocca per parlare, colma di gratitudine, ma inaspettatamente fu preceduta.
 
“E così ancora resisti eh?” Fu la domanda di Wizarmon. Queste parole così fredde la spaventarono. Ma resistette alla tentazione di cedere al panico.
 
“Wizarmon? Ma che stai dicendo?” Chiese sperando che lui le desse una spiegazione.
 
“Ancora non ti è chiaro, come stanno le cose?” Domandò allora Wizarmon, e poi il suo sguardò si incupì.
 
“Sono stato uno stupido, a fidarmi di te!”
 
E a queste parole, sbiancò.
 
“Volevi sottrarmi al mio dovere, e prendere il mio posto!”
 
Ma che significava? Ormai era completamente sconcertata. Ma le ultime parole pronunciate dal mago le diedero il colpo di grazia.
 
“Non sei tu, la Digimon di Hikari! Sono io! E tu, sei esattamente come lui! Ed è qui che devi restare!”
 
A questa rivelazione la bionda si gettò a terra, tentando disperatamente di afferrare la gamba di Wizarmon, oltre le sbarre , ma non ci riuscì. Prese per un soffio un lembo del suo mantello e gridò, disperata:
 
“Io non lo sapevo! Te lo giuro, Wizarmon! Io non sapevo nulla!”
 
Poi prese a implorare:
 
“Vi prego! Vi prego non lasciatemi qui! Vi prego, portatemi con voi! Faro tutto ciò che vorrete, ma vi prego salvatemi!”
 
Ma gli altri si strinsero intorno a Wizarmon, e Hikari allontanò la sua mano dal mantello del mago con un calcio.
 
“No. Non sono questi gli accordi!” Disse freddamente.
 
A queste parole, l’ultima speranza che la Digimon aveva cominciò a sgretolarsi.
 
“Siamo venuti qui solo ad assicurarci che il tuo padrone mantenga la parola data, tutto qui!” Aggiunse secco Taichi, guardandola con disprezzo.
 
“E sembra che lo stia facendo, quindi il nostro compito qui è finito!” Decretò, infine.
 
Poi, lentamente presero ad allontanarsi. La bionda terrorizzata volse lo sguardo a Wizarmon, rivolgendogli un’ultima implorante richiesta d’aiuto,  ma lui non si voltò.
 
Li vide allontanarsi dal castello, fino a che i portoni non si furono richiusi alle loro spalle con un tonfo sordo, stavolta in maniera definitiva.
 
In tutto quel tempo, ella aveva urlato chiedendo aiuto quasi istericamente, le mani tese verso l’unica ancora di salvezza, l’ultima possibilità che avesse di riavere la libertà. Proseguì fino a quando i polmoni non le bruciarono fortissimo e perse la voce.   
 
A quel punto cedette alla disperazione, e pianse come mai aveva fatto in vita sua. Resistette ancora qualche giorno, ma alla fine, una sera, quando egli si palesò davanti alla sua cella, attirò la sua attenzione e lentamente, gli si inginocchiò davanti, fino a genuflettersi del tutto.
 
“Visto, Angioletto? Non è stato poi così difficile, no?” Fu tutto quello che disse per poi farla uscire.  E da quel giorno iniziò per lei una nuova vita, fatta di ordini e ubbidienza assoluta. Una volta che si fu abituata, comunque, sembrò trattarla quasi con rispetto, seppur mantenendo la sua crudeltà di fondo.  
 
 Sospirò, malinconica. Quel giorno non si era fatto vivo. Era stato PicoDevimon a portarle gli ordini.
 
Quando non la usava per soddisfare le sue voglie, quasi come una bambolina del sesso, stranamente mai costringendola, cosa che la sorprese non poco la prima volta che glielo chiese e lei rifiutò, la usava come schiava per pulire il castello o ancora, come cameriera personale.
 
L’ultima poi era la cosa peggiore perché doveva subire mal sopportandoli i ghigni di scherno che le rivolgeva a causa dei vestiti che la costringeva ad indossare. Detestava quei vestiti con tutta sé stessa, li avrebbe volentieri gettati nel grande camino dello studio del Digimon. Che poi si domandava a che cosa gli servisse uno studio. Per far cosa poi?
 
Ad un tratto, mentre era intenta a strofinare gli spazi neri tra una mattonella e l’altra sentì uno scomposto batter d’ali. PicoDevimon entrò col suo solito ghignetto sfacciato e quell’aria presuntuosa che la mandava in bestia, se solo avesse potuto lo avrebbe ridotto a brandelli. Scosse la testa, quei pensieri non erano da lei, non erano pensieri da Digimon della Luce. O meglio, Ex Digimon della Luce. Erano idee distorte e malate che le venivano e potevano venirle soltanto da … lui.
 
Aveva paura persino a pensarne il nome perché puntualmente compariva con quel sorriso che tale non poteva essere definito. Era una distorsione cattiva di labbra.
 
“Padron Vamdemon ti ordina di andare nelle sue stanze.” Fu ciò che le disse il piccolo demone.
 
Sussultò spaventata, ma cerco di non darlo a vedere, non voleva mostrarsi debole di fronte a quell’esserino malvagio. Dunque, emise un respiro profondo per farsi forza, abbandonò l’impresa di lucidare a dovere quei pavimenti e alzandosi segui PicoDevimon.
 
Attraversò con trepidazione i corridoi di pietra che la separavano da lui, ignorando il vociare fastidioso di PicoDevimon  che rimbombava a causa della forte eco, nel frattempo cercando di fermare il proprio cuore dal suo scalpitarle impazzito nel petto come se volesse scappare via. Una volta arrivata davanti alla porta si sentì mancare e con mani tremanti  girò il pomello fino a sentire lo scatto della serratura.
 
Immediatamente vide l’enorme letto a baldacchino che troneggiava nella stanza. Poi lui comparve ai suoi occhi, ma c’era qualcosa che non andava, non c’era alcunché di divertito nel suo sguardo e lei sapeva benissimo che questo non era un bene.
 
“Ci hai messo più del dovuto … è mezz’ora che ti aspetto!” Disse freddo, nel frattempo dedicandole un’occhiata che le fece gelare il sangue.
 
Deglutì a vuoto, nel frattempo maledicendo mentalmente PicoDevimon che non l’aveva avvisata prima di proposito, per metterla nei guai. Ripensò all’ultima volta che questo era avvenuto e quasi scoppiò in lacrime al ricordo delle dolorose ed umilianti conseguenze.
 
L’aveva frustata talmente tanto che aveva rischiato di essere riconfigurata, poi, non contento, le aveva fatto passare una settimana incatenata per i polsi nella stessa cella nella quale l’aveva rinchiusa i primi giorni dopo il suo rientro al castello. Infine era stata costretta a passare una settimana incatenata ad una gamba del suo trono, con un collare, quasi come fosse stata un animale domestico.
 
“La mia dolce micetta!”.
 
L’aveva schernita languidamente, ogni tanto arrivando persino a farle dei grattini dietro le orecchie e sotto il mento. Aveva tentato di morderlo la prima volta, istintivamente, ma, per tutta risposta le aveva messo addosso una museruola, modificata appositamente per le sue fattezze umane. Inoltre, la catena che la tratteneva era tanto corta da non permetterle di alzarsi in piedi o di spostarsi troppo dalla sua posizione. Poteva stare solo seduta a gambe incrociate o a carponi.

Durante quei giorni aveva ricevuto in visita moltissimi Digimon di varia natura, che non avevano perso occasione di schernirla, cosa che l’aveva fatta sentire umiliata al punto da desiderare di supplicarlo di sbatterla in cella, o addirittura di frustarla di nuovo, pur di porre fine a quella straziante situazione.
 
Finché una sera, quando uno di questi, un Daemon  con il quale stava cercando di stringere un’alleanza, aveva detto che avrebbe accettato solo se in cambio gli avesse consegnato la sua prigioniera, aveva avuto una reazione che lei mai si sarebbe sognata.
 
Era certa che avrebbe acconsentito, visto quello che gli aveva fatto, e stavolta non avrebbe potuto nemmeno implorare, poiché ancora imbavagliata, ma invece lo vide scagliarsi contro il Demon Lord dell’Ira, ed intimargli di andarsene e di non osare mai più nemmeno guardarla con il tono perentorio che prometteva orribili conseguenze se non fosse stato ubbidito. Tremò allora, ricordandosi tutte le volte che lo aveva usato con lei. L'ospite a quel punto abbandonò in fretta e furia il castello mentre il suo padrone sibilò minaccioso smettendo solo quando il primo si fu allontanato del tutto.
 
Una volta che l'aura del demone svanì, prese ad accarezzarle la testa, con fare possessivo. O forse addirittura protettivo. Poi, le diede un bacio sulla fronte.
 
Questo comportamento la lasciò molto confusa, ma anche sollevata. Persino dopo averlo tradito, ancora aveva un occhio di riguardo per lei, la qual cosa le provocò un certo senso di gratitudine.
 
L’unico altro essere che l’avesse mai trattata con considerazione le aveva voltato le spalle. Gli voleva ancora bene, nonostante tutto, e non provava alcun rancore nei suoi confronti. Ma il suo tradimento l’aveva ferita moltissimo. Wizarmon ormai era acqua passata.
 
Lui no. Era letteralmente rimasto l’unico punto fermo della sua esistenza, nel bene o nel male. Dopotutto era stata al suo servizio per anni e c’era stato un periodo in cui tutto ciò che aveva desiderato era semplicemente soddisfarlo e ricevere il suo apprezzamento.  Decise, in quel momento, che avrebbe ricominciato a comportarsi così. Forse in quel modo si sarebbe risparmiata altre umiliazioni simili. Cosa che le era riuscita. Almeno fino a quel momento.
 
Si riscosse da quei pensieri e tornò a concentrarsi sulla sua situazione attuale. Prese un respiro profondo e chinò la testa, in segno di sottomissione.    
 
“Io … ecco io… sono stata avvisata solo ora, lo giuro.” Pigolò intimorita.
 
Chiuse gli occhi, in attesa della frustata che però, non arrivò.
 
Sentì invece le sue mani calde sui fianchi e una sommessa risata che le vibrava vicino all’orecchio.
 
“Tremi come un gattino, sta tranquilla, non ti punirò, per stavolta.”
 
A queste parole, un’ondata di puro sollievo l’avvolse, facendola quasi crollare in ginocchio.   
 
“Spogliati.”
 
 Un ordine secco, indiscutibile, mentre le labbra carnose di Vamdemon le scostavano i lunghi capelli biondi dall’orecchio mordicchiandone il lobo quasi dolcemente. Mugolò di piacere, auto-maledicendosi per quel segno di debolezza che scatenò nel Digimon dietro di lei un lampo di vittoria.
 
“Si, padrone.”
 
“Bravo, Angioletto.”
 
Ubbidì, meccanicamente, quasi in trance, mentre le sue mani cominciarono a carezzarle i fianchi con movimenti lenti e ritmati, come a rassicurarla.
 
Ubbidì, perché non era solo la paura a guidarla. Non più, almeno.
 
Ubbidì perché in fondo in fondo, aveva cominciato ad amare le sue carezze ed i suoi baci.
 
Ubbidì, Angewomon , perché forse si stava innamorando di quel vampiro apparentemente senza cuore.
 
Poi, lui le disse tre parole. Tre parole che le fecero capire esattamente come stavano le cose fra loro. E finalmente trovò pace.
  
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