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Autore: Challenger    03/07/2023    0 recensioni
Il vero amore è più forte di qualunque veleno. E il perdono è il migliore fra gli antidoti.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Guardai l’orologio: le 18.00 di uno schifosissimo venerdì. A questo punto potevo anche tornarmene a casa, non avrei concluso niente quel giorno. Mi ero convinto del fatto che, se fossi rimasto per ore e ore seduto sul muretto che divideva la strada dalla spiaggia, avrei trovato qualche soggetto interessante da ritrarre. Invece non fu così. Le aspettative che avevo erano troppo alte. Cercavo qualcuno di particolarmente bello, o brutto, oppure con una caratteristica ben precisa, qualcuno fuori dal comune e del quale non puoi fare a meno di squadrare e formulare ipotesi e congetture per mille motivi differenti. Invece niente di niente. Avevo abbozzato più ritratti in sette ore che nell’arco di un anno. Accidenti, avevo consumato un blocco sano!
Provai un ultima volta a ritrarre gli scogli in lontananza; credevo di aver visto un gruppo di ragazze, poco più che adolescenti, tuffarsi dalla parte più alta. Tra di loro ce n’era una davvero graziosa. I capelli rosa, il costume azzurro e la pelle bianchissima mi ricordarono una creatura mitologica: la sirena. Ecco, avrei ritratto la ragazza con sembianze di sirena mentre cantava in attesa di prede da catturare e divorare.
Dopo un po’ mi stufai anche di quella trovata; lasciai il disegno a metà.
Era ora di andare.
Da quando avevo scoperto l’inganno di Matteo, tornare a casa per me era diventata una tortura. Non riuscivo a concentrarmi, né a fare le cose più banali. Mi innervosiva anche il solo fatto di passare davanti alla camera dei miei genitori per andare in bagno. Ogni scusa era buona per uscire e starmene fuori più tempo possibile.
Sospirai e rimuginai un po’. Pensavo a come avevo distrutto la mia vita, a come avevo devastato l’esistenza di Andrea, a quanto lo avessi fatto soffrire. Avevo tutto e invece di tenermelo ben stretto l’avevo gettato in mare in cambio dell’assaggio di un frutto proibito. Ero stato stupido come Eva, mi ero fatto convincere dalle false promesse di un egoista bugiardo, buttando nel cesso il paradiso. Tra le tante scelte sbagliate che avevo preso nella vita, di sicuro questa era la peggiore. Riconobbi di aver fatto una mastodontica cazzata nel credere ad uno che mi aveva spezzato il cuore già una volta, e tutto perché avevo ceduto al dubbio che Andrea mi avesse fatto la stessa cosa, quando invece lui aveva problemi ben più seri a cui pensare.
Se avevo scelto di credere a Matteo, era solo perché in quel momento la mia paura più grande era quella di perdere Andrea, una cosa che non avrei sopportato. Così avevo agito d’istinto, giocando in anticipo e buttandomi fra le braccia di un macchinatore scorretto. Ma dopo aver scoperto il suo bluff era troppo tardi per tornare indietro e tentare una rimonta.
Inutile starmene seduto lì a rimuginare ancora, non sarebbe servito a nulla.
Chiusi il blocco da disegno e mi alzai. Raccolsi l’astuccio con la destra e con il blocco sotto il braccio sinistro, scavalcai il muretto senza guardare.
Rimbalzai all’indietro come se fossi stato colpito da un’enorme fitball. Atterrai sulle natiche, picchiando duramente l’osso sacro.
Riverso sul marciapiede, dolorante per la botta appena presa, venni investito anche dai rimproveri.
«Guarda dove vai, cretino!» urlò una voce isterica, appartenente ad una donna di mezza età che ricordava davvero la palla da ginnastica usata per lo yoga. Se ne andò con il marito senza nemmeno chiedermi come stavo.
Mi faceva male la schiena, la massaggiai e poi cercai di alzarmi, tipo una tartaruga che tenta di rimettersi in piedi oscillando da una parte all’altra. Riuscii solo a mettermi seduto, mi accontentai. Per il momento, almeno.
Intanto spolverai le braccia e la maglietta che si erano riempite di sabbia, quella che i bagnanti, e il vento inclemente, trasportavano sulla strada.
«Che palle!» imprecai, notando una sbucciatura sul palmo della mano sinistra, quella con cui avevo tentato di attutire il colpo.
«Sei sempre il solito. Non te smentisci mai» disse una voce maschile. Guardai davanti a me: due belle gambe, muscolose e abbronzate, si erano piazzate vicino ai miei piedi. Un tatuaggio tribale girava intorno allo stinco e al polpaccio destro.
«Già! Sono il solito imbranato» risposi scazzato, senza degnare di uno sguardo lo sconosciuto che mi aveva rivolto parola, e senza rendermi conto che quello non era un mio amico, bensì un estraneo; ero impegnato a raccogliere le matite colorate e le penne che erano volate fuori dall’astuccio quando quella stupida grassona mi era venuta addosso.
«Serve ‘na mano?» chiese. Anche se mi ostinavo a non guardarlo, sapevo che stava sorridendo. Non capivo perché lo sconosciuto continuasse a parlare con me e ad offrirmi il suo aiuto. Che cavolo voleva? Non aveva mai visto nessuno umiliato e con il culo per terra?!
Afferrai la matita che si trovava in mezzo ai suoi piedi. Scarpe da ginnastica e calzini di spugna tirati giù fino alla caviglia: uno sportivo, ovvio! Chi altri poteva impietosirsi nel vedermi buttato per terra a raccogliere stupide cianfrusaglie se non uno sportivo? Solo gli sportivi hanno l’energia necessaria per aiutare la gente pigra come me a rialzarsi da terra.
«No. Non mi serve nessun aiuto!». Mi inginocchiai per stare più comodo, ma, nel farlo, con la testa sfiorai l’uomo di fronte a me. Avevo assunto una posizione molto ambigua: la mia faccia era a un tiro di schioppo dal suo fucile. E da quel che vedevo era anche un gran bel pezzo di fucile.
I pantaloncini sportivi che indossava, oltre ad incorniciare le sue belle gambe, mettevano in risalto la zona intima.
Ovviamente, la scelta di mettermi in ginocchio risultò sbagliata.
Deglutii molto lentamente mentre il mio sguardo — maledettamente imbarazzato! — rimaneva incollato al cavallo dello sconosciuto.
«Vabbè, allora vado» pronunciò la frase quasi ridendo. Il tono canzonatorio mi fece riscuotere dal torpore che mi aveva annebbiato i sensi.
Scossi la testa come per scrollarmi di dosso un pensiero che mi si era appiccicato addosso, infettandomi con le sue malvagie radici.
Alzai la testa per vedere l’uomo che stava per andar via, ma il sole mi accecò e dovetti schermare gli occhi con la mano. Feci una smorfia di fastidio, dalla mano che avevo alzato per ripararmi ruzzolarono, come massi staccatisi dalla montagna, dei granelli di sabbia che, con una precisione millimetrica, beccarono la caruncola lacrimale. Mi stropicciai gli occhi, ormai arrossanti e lacrimanti, ma riuscii lo stesso a squadrare la parte superiore delle belle gambe che ancora non si erano mosse da lì.
Era un uomo alto, possente. La canottiera bianca di cotone, bagnata di sudore, sembrava troppo piccola per un torace ampio come il suo. Se avesse fatto un movimento sbagliato, l’avrebbe lacerata tanto era in tensione il tessuto. Sul petto ricadevano auricolari neri, penzolavano ogni volta che l’uomo spostava il peso da una gamba all’altra. Gli occhiali scuri coprivano metà del viso, il cappello, con la visiera che faceva da parasole al collo, nascondeva il colore dei capelli, che doveva essere scuro a giudicare dai peli della barba che circondavano una bocca perfetta.
Sorrideva appena. Un sorrisino soddisfatto, quasi mimetico, come quello della Gioconda.
Il sudore, inoltre, lucidava la pelle abbronzata. Stava correndo, ma si era fermato solo per aiutare questo povero disgraziato che aveva avuto pure l’ardire di trattarlo male.
Mi porse una mano, gliela presi e lasciai che mi tirasse su.
«Grazie».
La musica che usciva dagli auricolari era forte, gli piaceva ascoltarla a volume altissimo. A dirla tutta, era piuttosto fastidiosa, d’altronde era musica house, ed era il minimo tenerla a volume spropositato. Sul braccio aveva una fascia che fungeva da contenitore per il cellulare. Spinse un pulsante sul lato del telefono e gli auricolari si ammutolirono.
«Figurate» disse, il sorriso gli si smorzò sul viso quando mi chiese «te sei fatto male?».
«Sì» risposi di getto, senza riflettere, ma vedendo la sua espressione triste mi corressi «un po’… cioè, no. Tutto ok» sorrisi. Ma era un sorriso falso e maldestro. E lui lo capì.
«Me dispiace».
Sollevai la mano e schiaffeggiai l’aria «tranquillo, passerà», sorrisi.
Andrea si abbassò per raccogliere il mio blocco da disegno e il resto delle penne. Di nuovo in piedi, me li passò.
Li presi «grazie. Non serviva che ti disturbassi».
Alzò le spalle. Ruotò il braccio destro verso di sé, armeggiò con il cellulare e gli auricolari tornarono a pompare musica.
«Alla prossima caduta» sorrise, infilò le cuffie nelle orecchie e si preparò per andarsene.
Lo bloccai prima che potesse fare un passo.
«Andrea…».
Tolse gli auricolari, lasciandoli dondolare sul petto «sì?».
Ed ora che dovevo dirgli? Perché l’avevo fermato se poi non sapevo cosa fare dopo? «Niente. Scusami» mollai il suo braccio. Attorno all’avambraccio c’era la fascia bianca, copriva la cicatrice del tatuaggio con il mio nome. Mi fece male guardarla, ma dovevo accettare l’idea che io per lui non ero più niente. Solo un odioso e orrendo sfregio che gli deturpava il braccio.
«Come mai sei venuto a Ostia?» la sua domanda a bruciapelo mi spiazzò.
Sbattei velocemente le palpebre per la sorpresa «perché…» mi zittii un momento, pensavo ad una scusa convincente. Sono d’accordo con voi, ad Ostia si va per il mare, ma io avevo sostato per ore vicino allo stabilimento che distava poche centinaia di metri da casa di Andrea, non era esattamente una coincidenza. Sappiamo tutti che sarei potuto benissimo andare in un qualsiasi altro stabilimento, preferibilmente il più lontano possibile da lui, invece avevo scelto il nostro.
«Perché qui mi sento a casa». Gli dissi la verità, il cervello stava per andarmi a fuoco nel cercare la scusa perfetta, scusa che lui comunque non avrebbe mai bevuto. «Ora però scusami, devo proprio andare. Ti avrò fatto perdere un sacco di tempo. Thomas ti starà aspettando» sorrisi imbarazzato, e incazzato con me stesso per aver tirato in ballo Thomas.
No, ragazzi, non chiedetemi per quale motivo l’avessi fatto perché non lo so nemmeno io.
Il solo pensiero che Thomas, con un anello al dito, preparava la cena per il suo paparino mi dava il voltastomaco. Pensare a loro due insieme mi dava il voltastomaco.
Quando avevo finalmente messo a fuoco la figura di Andrea, e me l’ero ritrovato dritto, bello e sudato davanti a me, per un momento, uno soltanto, avevo dimenticato tutto quello che era successo. Per quell’istante Andrea era ancora mio. Il minuto successivo era tutto svanito, la realtà mi aveva travolto con la stessa forza di uno tsunami.
Controllò l’ora sul display del telefono.
«Vôi vení a pijà ‘n caffè?» chiese fissandomi.
Rimasi ancora senza parole. «No, grazie. Non mi va di disturbare».
«Vabbè. Allora ciao». Rimise le cuffie nelle orecchie e si avviò.
Mandai giù il groppo alla gola. Non era il caso di piangere davanti a centinaia di persone che sfilano accanto a me o che correvano per non perdere l’autobus. Non volevo attirare altra attenzione.
Appoggiai il blocco e l’astuccio sul muretto, erano diventati come macigni. Dovetti sedermi anche io. Le gambe erano pesanti, come se il sangue fosse affluito tutto laggiù e mi costringesse a rimanere piantato là dov’ero, senza possibilità di muovermi di un millimetro.
Decisi che mi sarei fossilizzato lì, sarei diventato parte integrante del muretto sul quel poggiavo il culo.
«’Ndo ce l’hai la macchina?».
Mi voltai di scatto. Andrea. Era tornato indietro.
«Cosa?» feci stordito. La domanda mi aveva confuso ancora di più le idee.
«La macchina. ‘Ndo l’hai lasciata?».
«Perché vuoi saperlo?».
«T’accompagno. Ho visto il botto che hai fatto, e scommetto che te fa parecchio male camminà».
In effetti, aveva ragione. Camminare, o semplicemente muovere un muscolo al di sotto dell’osso sacro mi faceva malissimo. Ma me ne ero accorto solo dopo che Andrea me lo aveva detto, prima di allora ero concentrato su lui.
«Non c’è bisogno che mi accompagni. Sto bene, tranquillo» provai ad alzarmi senza fare smorfie di dolore; volevo fare l’eroe, ma quella era una parte che non mi era mai riuscita bene.
Con un abile riflesso mi afferrò prima che ricadessi sul travertino che ricopriva il muretto per poi finire a faccia avanti sulla sabbia.
Rise «sempre er solito sei». Scoppiai a ridere anche io.
«Forse è meglio se annàmo prima a casa mia. Te riposi e poi te fai vení a ripijà da Matteo, perché così non pôi guidà».
Piansi. Fu più forte di me, non fui in grado di trattenermi. Il dolore mi fece sedere, come se avesse premuto con forza sulle spalle, obbligandomi a ripiegarmi su me stesso.  
Andrea si sedette accanto a me, pose un braccio sulle mie spalle e mi tirò a sé.
Coprii il viso con entrambe le mani, non volevo che mi vedesse così. Anzi, non volevo che mi consolasse. Non volevo essere consolato da un uomo sposato. Perché Andrea era sposato con Thomas. E me lo dovevo ricordare! Avevo già disintegrato il nostro rapporto, non potevo distruggere anche quello che aveva con Thomas. Il mio tocco, invece di tramutare tutto in oro come re Mida, trasformava tutto in merda. Qualsiasi cosa toccassi la sbriciolavo, come se al posto delle mani avessi bombe nucleari in procinto di detonare.
«Avete litigato?».
Tirai su con il naso, passai un polso sotto le narici e le pulii. «No» lo guardai «ci siamo lasciati il giorno del mio compleanno».
Andrea riportò il braccio al suo fianco. Aveva un’espressione seria in volto. «Non lo sapevo».
Guardai da un’altra parte, sentivo l’imbarazzo separarmi mille miglia da lui.
«Devo andare» dissi alzandomi e accusando una fitta lancinante che risalì lungo la colonna vertebrale, un bruciore venuto dall’inferno solo per torturami ulteriormente.
Mentre prendevo il blocco da disegno, Andrea mi afferrò per il polso. Mi voltai verso di lui, che disse «aspetta». Era ancora seduto; aveva appeso gli occhiali allo scolo della canottiera.
Quell’unica parola mi fece venire i brividi.
Perché mai Andrea non voleva lasciarmi andar via? Non era certo il tipo da sbatterti in faccia le cazzate che avevi fatto e che ti si erano ritorte contro, quindi non capivo il motivo che lo spingeva ancora a trattenermi.
Fissai gli abissi infiniti che aveva al posto degli occhi. Avevo dimenticato quanto fossero belli e tristi allo stesso tempo. Avevo dimenticato come quegli occhi neri mi facessero sentire. Avevo dimenticato quanto mi avessero amato. Abnegazione totale.
La mia presenza metteva in pericolo il suo matrimonio. Stavolta non avrei permesso a me stesso di rovinare la felicità di Andrea con il mio egoismo. Ma più lo guardavo e più il desiderio cresceva, ogni cellula del corpo mi gridava a gran voce di portarmelo via e riprendermi ciò che era mio.
Cazzo, no! Ma che stavo facendo? Stavo nuovamente cadendo nella trappola.
Dovevo agire in fretta o me ne sarei pentito per tutta la vita.
Mi feci coraggio «no» la voce mi spezzò in gola «non posso farti questo. Ti prego, lasciami andare». Provai a strattonare il polso che Andrea teneva nella sua mano callosa. La debole protesta non portò a nulla.
«Aspetta» sussurrò, continuando a fissarmi.
L’energia per tenerlo a distanza si stava esaurendo. Rimaneva poco tempo.
«Dimenticami, Andrea» tirai via il braccio più forte che potei, me lo ritrovai arrotolato addosso come quando dalle mani scappa un metro a nastro.
Si alzò di scatto e mi afferrò le braccia, stritolandomele. «No, non voglio» replicò serio.
Sbarrai gli occhi, sorpreso dalla sua risposta. Ripreso il controllo, cercai di ribellarmi o, almeno,  allentare la morsa che mi costringeva come una fisarmonica.
«Non è questo quello che realmente vuoi. Sei solo confuso».
Allentò la presa.
«È nella tua natura aiutare gli altri. Ora mi vedi triste e ti viene naturale aiutarmi, vuoi che io stia bene, nonostante quello che ti ho fatto».
Interruppi un attimo il discorso per dargli modo di replicare.
Non lo fece, perciò continuai, ma solo per finire «odiami, Andrea. Sarebbe più facile per tutti, soprattutto per te». Lo fissai ancora qualche secondo prima di andarmene.
«L’ho fatto» disse. Mi voltai. «T’ho odiato pe ‘n po’. Ma quella fase l’ho superata. Lo dovresti fà pure te. Basta odiasse, non serve a nessuno».
Asciugai una lacrima che era riuscita a sfuggire ai controlli di sicurezza.
«Viè a casa co me», e senza aspettare il mio assenso, mise sottobraccio il blocco, l’astuccio in tasca e passò il braccio libero dietro la mia schiena per sostenermi durante il tragitto.
Non parlai fin quando arrivammo davanti al portone di casa sua. Non ricordavo fosse intaccato così tanto dalla ruggine, e nemmeno che il vetro della parte inferiore fosse spaccato.
«Sò stato io» ammise senza che gli chiedessi niente «l’ho rotto co ‘n calcio la sera che sò rientrato qua dopo che…» si schiarì la voce «dopo te e Matteo, insomma».
Lo ringraziai tra me e me per non aver usato alcuna volgarità nel menzionare la sera in questione.
Camminai gobbo fino alle scale, poi Andrea mi chiese se avessi bisogno d’aiuto, ma declinai. Scherzosamente mi propose pure di portarmi su a cavalcioni come faceva un tempo, ormai lontano. Gli sorrisi e rifiutai gentilmente anche quell’offerta.
Lentamente salii, seguito da Andrea. Non lo aveva detto apertamente, ma si era messo dietro di me nel caso in cui, a causa del dolore, avessi perso l’equilibrio. Lui sarebbe stato lì per salvarmi.
Sulla porta, gli chiesi «sicuro che a Thomas non dia fastidio la mia presenza?».
Spostò gli occhi sulla serratura «sicuro» aprì e mi sorrise.
Da quanto non entravo là dentro? Mi sembrava passato un secolo. All’improvviso fui colto da mille dubbi: rimasi sulla soglia a pensare.
Andrea, che era già entrato e posava la mia roba sul tavolo, tornò indietro non vedendomi accanto a lui.
«Te lo porto qua fôri il caffè? O preferisci berlo sul divano come la gente normale?» scherzò.
Io non me la sentii di replicare con una battuta, quindi risposi seriamente «posso?».
Andrea ripiegò le labbra nell’angolo sinistro della bocca, mi agguantò per la maglietta e mi buttò dentro.
L’odore era sempre lo stesso, quello di Andrea. L’odore di pulito. E i ricordi si affollarono tutti insieme nella mente, impedendomi anche di pensare.
«Non me ricordavo che fossi così scemo» mi diede un buffetto sulla spalla.
Sorrisi, finalmente.
Mi guardai in giro: la lampada da terra era al suo posto, accanto al divano; la libreria era piena dei miei libri; il plastico che avevo costruito per la tesi era sulla mensola insieme ad altre mie cianfrusaglie; i quadri erano di nuovo appesi alle pareti. C’era tutto, non mancava nulla. Meglio, mi correggo, una cosa mancava: la presenza di Thomas. Di lui non c’era traccia, era tornata ad essere la casa che avevo lasciato circa un anno prima.
Ero forse tornato nel passato? Dov’è che avevo parcheggiato la DeLorean?
Andrea si era accorto che mi stavo guardando intorno e che, inevitabilmente, mi ponevo anche tante domande.
«Quando è venuto Marco ho dovuto sgomberà» la sua voce mi arrivò alle spalle, sussultai «non volevo che toccasse le cose túa».
Dunque, non aveva buttato via nulla come avevo ipotizzato io. Aveva conservato tutto e messo al sicuro le mie cose per evitare che quel pazzo di suo cugino le distruggesse per farmi un dispetto.
«A Thomas non dà fastidio? Lui sa che questa roba è mia?».
Ritirò le labbra all’interno della bocca, come se avesse addentato un pezzo di limone; guardò in basso «no».
Oh, mamma! Questa poi!
«Se me lo avessi detto, sarei tornato a prenderle. Scusami, Andrea, non volevo metterti in difficoltà con tuo marito».
Mi portai una mano alla bocca per ammonirla, quasi avessi bestemmiato pronunciando la parola “marito”.
‘Dio… Andrea aveva un marito. La presa di coscienza mi spiazzò per un tempo che parve infinito.
Un marito, riflettei… mi ero sempre visto io nelle vesti di “marito di Andrea”, e invece…
Andrea fu sorpreso quanto me. Una goccia di sudore scese dalla fronte, scorrendo poi sulla tempia e nascondendosi negli anfratti della barba lunga, similmente alla condensa che scivola via da una lattina gelata.
«Scusami… i-io… sono davvero un idiota. Quello che fai o che dici a Thomas non è affar mio».
«Tranquillo». Feci difficoltà a sentirlo. Il volume della voce si era abbassato quasi a diventare un sussurro. Se ne andò in cucina; lo sentii armeggiare con qualcosa, probabilmente con la macchinetta del caffè.
Lo seguii.
«Andrea, dov’è Thomas?».
Non rispose, mi dava le spalle.
Ripetei la domanda. Silenzio radio.
«Andrea, perché Thomas non è qui?».
Scrollò le spalle come se cercasse di liberarsi di un impiccio. «Perché non c’è mai stato».
«Che vuol dire ‘non c’è mai stato’?» domandai sbalordito.
Si voltò, posò la caffettiera sul lavabo «non è mai entrato dentro ‘sta casa».
«Cosa? Ma come è possibile?». Fui costretto a sedermi, un improvviso capogiro mi fece quasi perdere l’equilibrio.
«Non l’ho mai portato qua» si sedette anche lui, al lato opposto al mio.
«Ma… come facevate? Voglio dire, dove vi incontravate? Dove dormivate insieme, dove facevate l’amore?» mi bloccai, troppe domande indiscrete «scusami, non devi rispondere. Sono cose intime, non ho alcun diritto di entrare nella tua vita privata» arrossii violentemente, e mi concentrai sul dolore alla schiena.
Lui non si scompose «lo portavo da mi’ padre. Thomas sapeva che vivevo co lui, non sapeva della casa de Ostia. Oppure stavamo a casa sua».
Mi lasciai sfuggire «ma perché?».
Si abbandonò sullo schienale e, guardandomi fisso, rivelò una verità inattesa «perché questa è casa tua» portò gli occhi oltre me «né lui né altri hanno mai messo piede dentro casa nostra».
Aveva appena detto “casa nostra”? Avevo sentito bene?
Oddio, stavo per svenire sul tavolo.
Alzò le spalle con fare noncurante «non volevo che er ricordo tuo fosse contaminato da altri».
Questo era troppo. All’improvviso vidi solo buio.
Quando rinvenni, la prima cosa che mi colpì furono le pareti bianche della stanza. Dove mi trovavo? A casa dei miei? In ospedale?
La testa girava e faceva male. Non ricordavo nulla.
«Mamma?» provai a chiamare Agata, magari lei sapeva cosa mi fosse successo.
«Me dispiace, ce sto solo io. Te devi accontentà de me».
A fatica voltai la testa in direzione della voce.
Andrea.
Era dannatamente bello!
Sorrideva, ma dal suo volto traspariva preoccupazione.
«Dove siamo?».
«A casa». Una frase ambigua ora che mi tornava in mente la nostra ultima conversazione.
Socchiusi le palpebre, la luce della abat-jour mi feriva gli occhi «a casa? Dove precisamente?».
«In camera» ecco di nuovo l’ambiguità, si affrettò ad aggiungere «mia. Camera mia». Il suo volto si velò di tristezza. Era colpa mia? Lo avevo ferito domandando chiarimenti? O era per il fatto che ci trovassimo di nuovo nella camera in cui lo avevo ucciso il giorno che aveva scoperto il mio tradimento?
Mi accarezzò il viso, cosciente delle mie preoccupazioni.
Scoppiai a piangere per il gesto dolce e delicato che mi aveva regalato e che non meritavo.
Gli presi la mano e gliela baciai, poi me la tenni stretta sulla guancia «Andrea, perdonami. Sono un coglione, non merito nulla da te» singhiozzai due o tre volte prima di proseguire «dovresti disprezzarmi e invece ti prendi ancora cura di me dopo tutto quello che ti ho fatto. Mi hai riaccolto nella tua casa senza tanti complimenti e…» non riuscii a completare la frase, il pianto si era impossessato di me come un demone maligno che rosicchiava la mia anima infetta.
«Il passato è passato. Avemo sofferto entrambi abbastanza. Basta così» si alzò dalla sedia, che aveva collocato vicino alla sponda del letto per starmi accanto e vigilare sulle mie condizioni di salute, per darmi un bacio sulla fronte. Quando lo fece, chiusi gli occhi per addentrarmi nei ricordi lontani e bearmi della sensazione di pace che solo Andrea sapeva infondermi.
«Andrea» bisbigliai con voce da bimbo spaventato dai mostri e gli occhi ancora chiusi. Avevo il terrore di aprirli e scoprire che fosse stato tutto un sogno.
«Sì?».
«Per favore, resta».
Sentii il materasso piegarsi sotto il suo peso. Si sdraiò accanto a me, senza toccarmi.
Gli chiesi cosa fosse successo tra lui e Thomas e lui mi chiese cosa fosse successo tra me e Matteo. Mi disse che ci aveva ripensato, che il matrimonio con Thomas era uno sbaglio, così aveva lasciato il ragazzo in aeroporto e se n’era andato. Thomas aveva scelto di andare da solo in America, anche lui non era convinto fino in fondo della relazione, era ancora troppo giovane per impegnarsi. Si erano lasciati da buoni amici. Poi fu il mio turno di raccontare la storia. Con poche parole gli rivelai come avevo scoperto della gravidanza della moglie e l’ovvia conclusione che ne sarebbe derivata: Matteo non avrebbe mai abbandonato la famiglia per me.
Dopo il consueto silenzio imbarazzante, gli chiesi per quale motivo fossi finito nel suo letto. Scoprii che, mentre parlavamo in cucina, fui colto da uno svenimento improvviso che mi fece cadere dalla sedia e battere la testa sul pavimento. Adesso si spiegava l’emicrania e l’espressione preoccupata di Andrea.
A spiegazioni finite, ci ritrovammo a guardarci nella semioscurità. Ci eravamo voltati simultaneamente, come se avessimo risposto entrambi allo stesso segnale.
La nostra intesa resisteva ancora.
Il respiro si fece più veloce, scalpitava come un bambino al momento dello scarto dei regali di Natale. Il petto di Andrea faceva su e giù irregolarmente, il ritmo era alterato.
Mi avvicinai a lui spostando la testa in avanti sul cuscino, subito dopo lui fece lo stesso. Eravamo a circa quindici centimetri dalla faccia l’uno dell’altro. Sentivo l’aria che usciva dal suo naso sulla mia bocca. Istintivamente gli accarezzai la guancia coperta dalla barba folta; sorrisi in risposta al suo. Anche lui mi stava accarezzando la guancia.
Mi sistemai completamente sul fianco per stare più comodo e contemplare meglio il viso perfetto di Andrea. Anche lui cambiò posizione, imitando la mia.
Feci scorrere la mano lungo il suo profilo, lui fece lo stesso con me. Le sue dita si fermarono sul mio fianco e lo strinsero per trascinarmi da lui. Adesso i nostri corpi si sfioravano.
Le nostre erezioni si sfioravano.
«Tu lo vuoi?» gli chiesi con voce tremante. Evitando di toccarlo ancora, non volevo che si sentisse obbligato.
«E te lo vôi?» mi chiese di rimando.
«Solo se lo vuoi anche tu».
«Lo voglio» mormorò, e la sua voce baritonale mi fece infiammare corpo e anima.
Allora lo baciai; spinsi il bacino sul suo e Andrea mi afferrò una natica per palparla per bene.
Ti amo, avrei voluto dirgli. Ma non lo feci. Non era il momento giusto.
«Andrea…».
«Sì?».
«Mi sei mancato».
«Pure te». Mi baciò lui stavolta, e nel frattempo infilava la mano nei miei pantaloni.
Anche le mie mani tornarono ad esplorare un territorio conosciuto, scoprendo nuove zone erogene.
Facemmo l’amore per un’ora, con calma e dolcezza mai usate prima. Godemmo dei nostri corpi familiari eppure estranei. C’era ancora della distanza fra di noi, ci stavamo ritrovando piano piano, muovendo passetti prudenti ma decisi.
Andrea era sopra di me, mi penetrava delicatamente, come una carezza. Il suo corpo sudato scivolava sul mio provocandomi un’eccitazione febbrile, ne volevo di più, sempre di più. Mi aggrappavo ai dorsali e inarcavo la schiena (nonostante il dolore lancinante che non aveva smesso di torturami) spingendomi verso di lui per farlo entrare più in profondità. Volevo fondermi con lui e non lasciarlo mai più.
«Oh, Andrea…» riuscii a non concludere la frase con un “ti amo”.
Sollevò il busto da me per guardarmi «l’ho sognato tante volte ‘sto momento» con avidità cercò la mia mano, riuscì a catturarla nel buio e stingerla nella sua, poi spinse forte il bacino per affondare ancora un po’ il pene dentro di me. Gli risposi con un ululato di piacere e dolore. Di nuovo, bloccai un “ti amo”.
Contrasse il viso per lo sforzo, stava per venire.
Lo sentii allontanarsi da me.
«No» lo cinsi in un abbraccio per trattenerlo e riabbassarlo su di me «vienimi dentro» dissi quasi implorante, costringendolo a rimanere dov’era.
Sorrise. Venne poco dopo.
Si lasciò cadere da un lato, mi appiccicai al suo corpo sudato e affaticato e, con la testa sul suo petto, mi rannicchiai per poi addormentarmi cinque minuti più tardi.
Al mio risveglio Andrea non c’era. Lo chiamai. Eccolo che si affacciava dalla porta della camera. Nella semioscurità non avevo notato il cambiamento. La camera di Andrea era stata ristrutturata.
Le pareti erano tinteggiate di bianco, le macchie di umidità rimosse. Gli infissi della finestra adesso erano in PVC. I mobili erano diversi, in stile moderno; il letto fungeva anche da contenitore, aveva una spalliera bassa coperta di stoffa blu. Era l’unica stanza della casa ad aver subito delle modifiche. Aveva addirittura cambiato la porta…
E come dargli torto? In fondo, era là dentro che era successa la tragedia, e l’unico modo per esorcizzare i demoni era darle una bella ripulita.
«Dormito bene?» sorrise. «La schiena e la testa come vanno?».
Gli feci un sorriso a trentadue denti «non dormivo così bene da non so quanto tempo. La schiena va meglio, grazie. La testa gira ancora un po’, ma nulla di preoccupante». Lo invitai a sedersi sul letto accanto a me.
Appena si sedette, lo baciai. «Ahό, aspetta» mi allontanò da lui; non capii il perché.
«Scusa, credevo che…».
«…che ce fossimo rimessi insieme?».
Arrossii. Il suo tono di scherno mi fece sentire stupido, anche perché la risposta alla sua domanda era “sì, credevo che ci fossimo rimessi insieme dopo la notte scorsa”.
«No» mentii, «è solo che…» abbassai gli occhi sul lenzuolo e tirai su le gambe per avere qualcosa da abbracciare.
«Ah, ecco. Quello de ieri sera non conta niente. Il fatto che avemo scopato non significa che le cose se sò aggiustate pe miracolo».
Le sue parole crudeli e bastarde mi fecero piangere. “Scopato”, aveva detto… sapeva quanto odiassi quella parola, malgrado ciò aveva scelto proprio quella. Avrebbe potuto dire “andati a letto”, sarebbe stato più formale ma comunque più elegante di “scopare”.
«No, hai ragione. Scusa, ho travisato io la situazione» sorrisi «che sciocco che sono!» asciugai le lacrime «sono sempre stato troppo sensibile. Abbiamo condiviso solo un momento di leggerezza».
Accennò un sì con la testa.
«Ti dispiace se mi faccio una doccia prima di andarmene?» chiesi con finta disinvoltura.
«Fai pure» si alzò «tanto lo sai a ‘ndo sta il bagno» sorrise e mi strofinò le ginocchia da sopra il lenzuolo. Gli sorrisi anch’io. Dovevo recitare la commedia, no?
Prima di sparire nella doccia, mi lasciai cadere sul materasso. Voltandomi di lato accarezzai la parte vuota del letto, immaginai di toccare lui.
Dopo essermi lavato, andai in cucina. Andrea faceva colazione.
«Grazie di tutto».
«Vai già via?» chiese con la bocca piena.
«Ehm… sì». Perché questa domanda? Secondo lui sarei dovuto rimanere ancora a lungo? A fare che?
«Ah» pulì le mani battendole l’una sull’altra, come una sorta di applauso «vabbè. Se ricapiti a Ostia, famme ‘no squillo, magari s’annàmo a pijà qualcosa» disse mentre faceva inabissare la tazza nel lavandino.
«Certo. Volentieri». Mi staccai dallo stipite della porta per andare via.
«Mattì».
Tornai indietro, aspettai che dicesse altro.
«Vôi fà colazione?» sorrise «non è saggio annà in giro senza avé prima fatto colazione».
Si accostò fin quando a separarci non rimase che un palmo.
«No, grazie. Hai già fatto abbastanza». Non sorrisi.
«Ah» venne più vicino. Istintivamente mi ritrassi, tirandomi un po’ indietro, ma lui mi afferrò e mi spinse addosso allo stipite. Affondò la sua lingua, dal sapore di caffèlatte, nella mia bocca «e non vôi nemmeno questo?» mi sbatté addosso la sua erezione.
Il suo gesto mi incattivì. Non gli avrei permesso di trattarmi come un giochino sessuale solo per soddisfare la sua sete di vendetta.
Costrinsi i miei occhi ad inchiodarsi nei suoi, quasi glieli infilassi dentro battendoci sopra con un martello, e con coraggio, che non credevo di avere, gli dissi «tu non vuoi scopare» utilizzando quell’odiosa parola con tutto il disprezzo di cui fui capace «tu vuoi solo farmi male». Tenni a bada le lacrime, non potevo permettermi di piangere proprio adesso.
Andrea conficcò in profondità le dita nella mia carne; feci una smorfia di dolore, senza però dirgli di smettere.
«No, non è vero» un impercettibile tremolio emerse dalla sua voce. Aveva paura. Aveva paura perché aveva capito che lo avevo smascherato.
La notte precedente, quando mi aveva detto “ho sognato tante volte questo momento” non lo aveva fatto perché voleva tornare con me, ma perché era l’occasione giusta per procurarmi dolore fisico, per punirmi di essere andato a letto con Matteo.
Ero rinchiuso nel suo abbraccio, ma lo tenevo lontano da me puntando i gomiti sul suo petto.
«Sì, invece» ribattei con gli occhi gonfi di pianto «mi hai fatto male quando me lo hai spinto dentro. E sì, mi è anche piaciuto in quel momento, ma ciò non toglie che tu mi abbia fatto male di proposito» lo rimproverai aspramente.
Inorridito, mi lasciò andare «no… te lo giuro. Ero solo parecchio eccitato, non l’ho fatto de proposito». Non riuscivo a decifrare la sua espressione: dispiacere? Incredulità? Rabbia per accuse infondate?
«Se è questo che vuoi, allora fallo».
Mi guardò confuso.
«Se credi che farmi male possa aiutarti a dimenticare, allora fallo», altri due secondi e mi sarei lasciato cadere e morire sul pavimento della sua cucina. «Voglio che tu lo faccia. Dai, andiamo in camera tua». Gli strinsi debolmente il polso per trascinarlo nell’altra stanza. Riuscii a portarlo fino in salotto.
Si liberò dalla presa lasciando semplicemente scivolare via la mano dal legaccio che le mia dita avevano formato.
«No. Non è quello che voglio» obiettò. Il suo sguardo duro mi fece sentire più piccolo di una formica davanti alla scarpa che stava per schiacciarla.
Urlai, esasperato e vicino ad una crisi di pianto isterico «allora cos’è che vuoi?» sventolando le braccia in aria peggio di un mulinello.
«Te».
Ecco che la pressione che il pianto esercitava dentro i miei occhi ruppe la diga che avrebbe dovuto contenerlo. Fu uno scoppio così grande e inaspettato che quasi stramazzai al suolo per il dolore. Gli occhi mi uscirono quasi dalle orbite.
Urlavo come se fossi stato io ad essere trafitto da ventitré pugnalate anziché Cesare. Ogni vena del corpo trasportava lana infuocata, che veniva distribuita in tutto il corpo, facendolo sanguinare dall’interno.
«Bugiardo! Sei solo un bugiardo!» gridavo, tenendomi lo stomaco per lo sforzo.
Andrea era immobile davanti a me, si limitava a guardarmi e niente di più.
Lo so, ero patetico, non c’è bisogno che lo diciate anche voi.
«Se davvero mi avessi voluto non mi avresti trattato così!».
«Così come?» fu la sua risposta stizzita, insieme ad una lenta alzata di spalle che voleva dire “e come altro avrei dovuto comportarmi con un traditore?”.
Tirai su col naso, gli passai sotto una mano tremante per pulire il moccio che non aveva intenzione di arrestare la sua corsa contro il tempo per arrivare il prima possibile sulla bocca e colare giù fino al collo. Voleva battere il record del mondo di Usain Bolt, il bastardo!
«Tu mi hai scopato, Andrea!» gli gridai contro, arrabbiato.
Vi starete chiedendo se avessi usato il termine “scopato” come sinonimo di “stupro” ma anche “ti sei approfittato della mia vulnerabilità”, giusto? Ebbene sì, signori. Era l’unico modo per ferirlo e rendergli pan per focaccia per le parole crudeli con cui aveva definito la nostra notte insieme.
Una lama di luce entrò dalla finestra del salotto, Andrea si nascose nell’ombra per non esserne colpito, poi con un sorriso di scherno rabbioso «le cose se fanno in due. Ce stavi pure te ieri sera, se non sbaglio. Anzi, sei stato te a pijà l’iniziativa, se ben ricordo! Quindi se proprio lo volemo dí, sei stato te a scopà me!» puntualizzò. E di certo non potevo dargli torto, almeno in parte, perché lo corressi dicendo «eh, no. Io ho preso l’iniziativa, ma non ti ho scopato, io ho fatto l’amore con te. È diverso».
Strinse un pungo e la mascella. Cosa voleva dire? Stava per picchiarmi?
Cominciavo ad avere paura, ma non di un eventuale pestaggio, no. Avevo paura che se fossi andato avanti il fragile rapporto che avevo costruito la sera prima sarebbe andato distrutto per sempre e sarebbe stato irrecuperabile.
Mi asciugai in fretta gli occhi per andarmene da lì il prima possibile.
«Scusa. Sono davvero un idiota. Me ne vado». Una vertigine mi fece perdere l’equilibrio, dovetti sorreggermi al tavolo vicino a me.
Andrea sussultò, pronto a tenermi nel caso fossi caduto.
Il caldo mattutino mi aveva prosciugato le forze, mi curvai in avanti perché avevo fatto un movimento sbagliato con la schiena e l’unico modo per non sentire il dolore era piegarsi a novanta.
«Mettete a sede» Andrea si era mosso senza far rumore ed era accanto a me per aiutarmi a mettermi seduto sulla sedia che sporgeva per metà da sotto il tavolo.
Tentai di ribellarmi alle sue mani forti che cercavano il modo migliore per afferrarmi senza farmi male «no, lasciami. Devo andare via».
Mi tratteneva, non avrebbe desistito.
«Ti ho detto di lasciarmi! Lasciami! Andrea, lasciami!» gridai fuori di me dalla rabbia. Non volevo essere toccato da lui.
Ancora in piedi, lo spintonai per tenerlo alla larga ma invece di allontanare lui fui io a cadere all’indietro, sbattendo l’osso sacro (già martoriato) allo spigolo del tavolo, quasi fossi stato investito da un potente e violento spostamento d’aria.
Stramazzai a terra tra disperate grida di dolore.
Senza dire una parola, Andrea si chinò su di me e mi prese in braccio. Mi strinsi più che potei al suo collo, l’umiliazione mi incoraggiò a piangere.
Quando ero con lui dimenticavo la mia età, tornavo ad essere il ragazzino capriccioso e sensibile che ero stato un tempo. Con lui mi sentivo al sicuro, non dovevo temere nulla, c’era lui a proteggermi. Ma ora ero vulnerabile su tutti i fronti, non avevo alcuna difesa, perché era lui la mia difesa. Mi sentivo impotente e spacciato, abbandonato al mio destino.
Rivolevo Andrea. Rivolevo il mio Andrea.
Sottovoce gli chiedevo scusa.
Mi fece sdraiare in posizione prona e mi disse di rimanere fermo dov’ero, lui sarebbe andato a prendere del ghiaccio. C’era un so che di freddo e formale nella sua voce che mi fece rabbrividire. Avevo perso l’unica possibilità di istaurare un rapporto amicale con lui, e tutto perché avevo voluto polemizzare su una cazzo di parola! Mi sarei dovuto accontentare della splendida notte passata insieme e non rompere il cazzo. Invece avevo dovuto contrariarlo e sputare sul piccolo passo che avevamo compiuto per tornare almeno ad avere una conversazione civile. Avevo soffiato via quella vaga orma che avevamo appena impresso sulla polvere. Non gli avevo dato nemmeno il tempo di farla assorbire che già l’avevo cancellata con una bella passata di scopa.
Bravo Mattia. Bravo coglione. Sei il campione dei minchioni!
Andrea tornò con la borsa del ghiaccio, sollevò la maglietta e pose i cubetti chiusi ermeticamente sull’osso sacro.
«Dovresti annà dal medico. C’hai ‘n ematoma troppo grande sulla schiena» tolse il ghiaccio per esaminarlo.
«Non importa» affondai il viso nel cuscino, ma lo risollevai subito quando percepii le mani calde di Andrea che massaggiavano la parte offesa del mio corpo. Lo guardai con un misto di incredulità, riconoscenza e tristezza.
Con la faccia rivolta alla parete, piansi ancora, scusandomi per l’ennesima volta.
«Basta co le scuse».
«Scusa, non posso farne a meno» a forza di singhiozzare e urlare mi si era infiammata la gola e la voce era diventata roca, quasi artificiale.
«Ho detto basta, Mattì» la sua voce invece era un alito di vento leggero soffiato in primavera. Rabbrividii avvertendo le sue labbra morbide posarsi sulla mia nuca.
Mi aveva baciato. Andrea mi aveva baciato!
Girai la faccia solo per metà, l’altra la feci scomparire nel cuscino. L’unico occhio che usciva dal nascondiglio era velato di lacrime e gonfio come un pallone, vedevo la figura di Andrea sfocata, come se fosse circondata da un fitto banco di nebbia.
«Dormi ‘n po’. Te ce riporto io a casa più tardi» si alzò dal letto per abbassare la tapparella, poi sparì. Chiusi gli occhi e mi addormentai sfinito.
Al mio risveglio Andrea era accanto a me. Mi svegliò il tocco delicato della mano che mi accarezzava i capelli, a malapena uno sfioramento.
Restammo in silenzio per un po’. Andrea mi accarezzava la fronte, io lo fissavo. 
«Come va?».
Tardai a rispondere, corroso dall’eterno dubbio: verità o menzogna? «Non lo so» era la risposta corretta.
Lui annuì. Andrea non era mai stato un tipo loquace, ma stavolta il suo silenzio mi fece male, come se mi avesse schiaffeggiato.
«Tu non mi perdonerai mai, vero?».
Sospirò, pensando a come rispondermi gentilmente “esatto, stronzo. Muori male”.
«Sai che ore sono?».
«Le due de pomeriggio. Perché?».
Battei un pugno sul materasso «cazzo!».
«Che è successo?». Andrea non sembrava curarsi del mio stato di agitazione. Era perfettamente calmo.
«Tra mezz’ora ho una riunione con il mio team. Cazzo, l’avevo completamente dimenticata!».
«Falla online, te presto il computer. Ormai è tardi pe tornà a Roma».
Come faceva ad avere una soluzione per tutto?
«No. Non è urgente, posso rimandarla a domani. Oggi proprio non me la sento di vedere o sentire nessuno, specie in questo stato pietoso» mi indicai.
«Come te pare. Se stai meglio, t’accompagno a casa».
La freddezza delle parole mi travolsero come un iceberg staccatosi dalla banchisa.
«Andrea» piagnucolai, trattenendolo vicino a me «puoi rimanere ancora un po’?».
«Quanto vôi». Lisciò il dorso della mia mano con il pollice.
Passarono dieci minuti durante i quali Andrea non aveva staccato per un secondo gli occhi dal cellulare, quando all’improvviso sparò una domanda «e te che vôi, Mattì?».
La domandava mi spaventò.
Accusai il colpo, accasciandomi di più sul materasso, quasi liquefacendomi.
«Cioè?».
«Prima m’hai chiesto che volevo io, e t’ho risposto. Mό te faccio la stessa domanda».
Rivoglio il mio Andrea, ma non lo dissi.
«Rispondi, per piacere» il tono era lo stesso di un commissario durante un interrogatorio, distaccato e autoritario.
«Non ha senso dirlo. Quello che voglio non posso averlo». Mi misi a sedere sul letto, appoggiai la testa al muro, non riuscivo a tenerla ferma sul collo, vacillava da una parte all’altra.
«È un unicorno, per caso?» si fece beffe di me, e mi strappò una risata, una vera risata. Era da molto che non mi capitava di ridere di cuore.
Tornai serio «no. Rivoglio la mia vita. Rivoglio il mio Andrea» alla fine confessai quello che dovevo confessare, inutile portarlo alle lunghe. Rimasi a fissarlo nella speranza di captare qualche segnale positivo, o comunque qualcosa che mi desse l’illusione di poterci riprovare ancora.
«Quell’Andrea è morto» si alzò in fretta e furia.
Piansi in silenzio.
Be’, che dire? Se il mio Andrea era morto, ero morto anche io.
Sentii suonare il pianoforte. Con sforzo sovraumano, rotolai giù dal letto per capire se era solo frutto della mia fantasia o la pura e semplice realtà.
Affacciato dalla porta, osservai Andrea curvo sullo strumento musicale. Ebbene sì, stava suonando.
Cantava una canzone che non avevo mai sentito. Una sua composizione, forse?
Il ritmo veloce ed energico ti coinvolgeva intimamente, la voglia di ballare diventava istintiva. Rimasi in ascolto seminascosto dallo stipite, spiando Andrea e la vitalità con cui infiammava lo strumento.
«Rimane solo il ricordo di un viso pallido,
un sorriso accennato,
un addio inaspettato.
Ma sei tu, sei tu.
Solamente tu.
La mia vita sei tu.
Portami via con te, amore mio.
Non lasciarmi solo al buio,
ho tanta paura, sai?
Senza te mi sento perso,
dove sei, amore mio?
Portami via con te, ovunque tu vada.
Ti aspetterò fino alla fine dei tempi.
Tu ed io,
solo noi due contro il mondo.
Amami ancora,
torna da me e amami.
Il tuo profumo sulla mia camicia
mi parla di noi,
della nostra vita insieme,
ormai finita, distrutta.
Ma io sono ancora qui,
ti aspetto.
Portami via con te, amore mio
ovunque tu vada,
portami con te.
Torna da me, ricominciamo daccapo.
Ti aspetterò fino alla fine dei tempi.
La mia vita sei tu.»
“La mia vita sei tu”, la frase più bella che possa essere pronunciata, soprattutto se a farlo è la persona che ami di più al mondo mentre ti guarda negli occhi.
Andrea continuava a fissarmi, aspettando una mia qualsiasi reazione.
Dietro una facciata impassibile si nascondeva il suo vero volto: la timidezza.
Trepidava, potevo sentirlo dentro di me.
Scivolai via dalla camera da letto per posizionarmi di fronte a lui.
«L’hai composta tu?».
Annuì.
«È bellissima. Complimenti».
«Grazie».
Mi scappò una risatina, forse per il nervoso o forse perché non ero ben cosciente di ciò che stava accadendo «scommetto che a Thomas è piaciuta tantissimo. Sai, ti ho immaginato spesso suonare per lui. Ne ero profondamente invidioso».
Perché diavolo avevo menzionato quel ragazzino? ‘Dio, ero davvero il campione olimpico dei minchioni!
«Non ho mai suonato pe Thomas. E non ho mai composto canzoni o musiche pe lui. Io suono, canto e compongo solo pe te» rispose serio, senza sbattere le palpebre. Il cuore doveva pompargli a velocità estrema perché sentivo i battiti fracassargli la gabbia toracica, un martello pneumatico avrebbe fatto meno rumore.
Una violenta febbre mi colpì nell’istante stesso in cui pronunciò “io suono, canto e compongo solo per te”. Mi aveva appena detto “ti amo, per me sei sempre stato l’unico” senza farlo direttamente, ma nel suo personalissimo modo: la musica.
La canzone era stata composta per me. Ero io la sua vita.
Capitolai per terra, in preda ad un’eccitazione fredda. Andrea mi fu subito accanto, mi sollevò fra le braccia e con la paura nella voce mi chiamò «Mattì! Mattia, che c’hai?».
Era disperato, prima di allora non aveva mostrato il minimo coinvolgimento emotivo, adesso era esploso tutto insieme.
Sospeso tra la veglia e l’oblio dissi flebilmente «Andrea, sei un uomo straordinario. Se non esistessi dovrebbero inventarti» e sorrisi con sforzo, le energie mi stavano abbandonando di nuovo.
«Mattì, non fà scherzi» Andrea, in preda al panico, mi scosse per cercare di farmi riprendere i sensi.
«Cazzo, Mattì! T’ho già perso troppe volte, non te voglio perde mai più!» avviluppò con dita gelide e sudate la mascella e scrollò la testa da un lato all’altro «ahό! Non morí, o t’ammazzo!». Mi prese anche a schiaffi.
Aprii appena gli occhi «tienimi stretto, non lasciarmi». Non se lo fece ripetere due volte: sentii i nostri toraci diventare uno solo. Quel contatto mi infuse nuova vita «Andrea, ti amo» dissi con voce forte e chiara.
Lui mi sorrise «cazzo, se te amo pure io!».
In preda ad un improvviso rinvigorimento delle membra, sollevai le braccia penzolanti e lo abbracciai.
Mi riportò in camera, adagiandomi sul letto. Si sdraiò con me e parlammo.
Mi feci spiegare per quale motivo mi avesse detto che il mio Andrea era morto, disse che dopo la fine della nostra relazione qualcosa dentro di lui si era rotto e questo lo aveva portato a riflettere su stesso e aveva capito che doveva cambiare, doveva aprirsi di più. Disse anche che capiva il perché lo avessi tradito, nell’ultimo periodo della nostra storia mi aveva trascurato e tenuto all’oscuro di molti fatti riguardanti la sua famiglia ed il mio allontanamento era stato inevitabile. Lo rassicurai dicendo che la maggior parte della colpa era mia, e che sì, l’avevo tradito perché lui mi teneva a distanza ma anche perché ero convinto che pure lui avesse un amante, tuttavia lo sbaglio più grosso lo avevo commesso io, lui non aveva nulla da rimproverarsi.
Gli chiesi anche perché la mattina si era comportato da stronzo, disse che era nervoso, aveva paura che per me fosse stata solo “una botta e via” in memoria dei vecchi tempi o che lo avessi fatto solo per far dispetto a Matteo, in pratica aveva messo le mani avanti per non ritrovarsi con la testa fasciata. Lo rassicurai anche su questo. Per tutto il tempo, non avevo fatto altro che pensare a quanto lo amassi e a quanto avrei voluto cancellare “l’errore Matteo” dalla nostra vita.
«Quando hai composto la canzone?».
«Quasi subito. Forse un paio de mesi dopo che se semo lasciati» rispose guardando il soffitto.
Rotolai su un fianco, misi una mano sotto il cuscino per rialzarlo, poi domandai smaliziato «qual è il titolo?».
Si voltò verso di me, sorrise «Mattia».
Arrossii e mi raggomitolai su me stesso.
Andrea si mise seduto e invitò anche me a farlo. «Cosa c’è?».
Srotolò la fascia che gli copriva l’avambraccio.
No… non ci potevo credere! Portai una mano alla bocca, spalancata per l’incredulità.
Il tatuaggio era ancora lì!
«Andrea, ma…» balbettai qualcosa di sconnesso poi finii decentemente la frase «non lo avevi cancellato?».
«No» scosse la testa «chi te l’ha detto che l’avevo cancellato?» chiese, confuso.
«Be’, nessuno. Credevo che la benda servisse a coprire la cicatrice del laser».
«Serviva solo a me. Ogni volta che lo guardavo me venivi in mente te. Era impossibile vive così» disse triste, portando lo sguardo in basso.
Gli accarezzai la guancia «mi dispiace averti fatto soffrire tanto».
Mi baciò, come risposta mi bastava e avanzava.
Facemmo l’amore, godendocelo fino in fondo. Godemmo dell’amore ritrovato.
Nudi e sudati ci stringemmo l’uno all’altro per non separarci mai più.
«Mattì».
«Sì?».
«Te devo dí ‘na cosa».
Mi venne da ribattere “non sarai mica incinto?”, ma non era il momento di scherzare, l’espressione seria di Andrea suggeriva di ascoltarlo attentamente.
«Dimmi pure».
«Voglio annà piano».
Si formò un groppo in gola che mi impedì di parlare.
«Non dico de no, ma voglio annàcce coi piedi de piombi stavolta. Voglio fà le cose co calma».
Era l’equivalente di “scusa, ma non mi fido ancora abbastanza di te”.
«Iniziamo co ‘na frequentazione tranquilla e poi vedemo come se evolve nel tempo».
Mentre parlava guardavo il suo petto. Indossava ancora la collana d’acciaio che gli aveva regalato la madre. Contavo i peli scuri che lo ricoprivano, non volevo ascoltare quel che diceva. Credevo di essere al sicuro ormai. Ero convinto che le cose si fossero aggiustate e messe in chiaro, invece non avevo capito un cazzo!
«So che non è quello che t’aspettavi, ma a me serve ‘n po’ de tempo».
Continuavo a rimanere muto e a far finta di non ascoltare.
«Mattì, me lo concedi?» c’era dell’insistenza nella voce, dovevo dire qualcosa.
«Capisco. Per te non deve essere facile, non sai se puoi fidarti o meno» giocherellai con i suoi peli «ma la risposta è sì. Sì, posso darti tutto il tempo che ti serve. Se questo vuol dire avere la possibilità di tornare con te, allora sono disposto a qualunque cosa».
Mi imposi di non guardarlo o sarei scoppiato a piangere come un bambino, incaponendomi di avere tutto e subito.
Andrea impresse le labbra sulla mia fronte «grazie, piccolo».
Il mio cuore sussultò. Era passata una vita da quando Andrea mi aveva chiamato così. Lo tirai prepotentemente verso di me per schiacciarmi su di lui, volevo provare ancora la sensazione di protezione che mi infondeva l’abbraccio del mio Andrea.
Nascosto fra le sue braccia, gli chiesi timidamente «nella canzone dicevi di avere paura. Era vero? Hai avuto paura?».
Sospirò. L’aria fredda soffiata via dalle narici investì bruscamente il mio collo, facendomi rabbrividire. Tremai nel sentire il suo debole «sì».
Cercai con tutte le forze di rendere muti i singulti. Schiarivo la voce per trattenermi. Ma Andrea non era stupido, aveva capito che c’era qualcosa che non andava.
«Mattì, non fà così».
«Mi dispiace…» vinse il pianto, allora mi rifugiai ancora un po’ in Andrea «mi dispiace di averti fatto soffrire così tanto… sono una pessima persona! Un maledetto egoista!».
Mi stipò sempre più fra le sue braccia possenti, fino a farmi mancare il respiro «fa parte del passato. Tranquillo, piccolo».
Piansi più forte.
«No… no…» mi ribellai alla sua stretta e gli voltai le spalle «come ho potuto farti questo? Non meritavi una carognata del genere».
«Mattì, avemo sofferto tutti e due, chi in un modo e chi in un altro. Basta fassene ‘na colpa» tornò a posizionarsi accanto a me, pelle contro pelle.
«No, Andrea. Tu hai sofferto, la mia è solo la giusta conseguenza delle ignobili azioni di cui mi sono macchiato» singhiozzai incazzato con me stesso.
«Te c’hai paura?».
Mi girai verso di lui con occhi spalancati «cosa?».
«Hai mai provato paura da quando se semo lasciati? O adesso?».
«Sì…» confessai flebilmente, quasi fossi vittima di un incantesimo «ogni giorno da allora. Perché?».
«Allora hai pagato la cazzata fatta. Perciò basta chiede scusa e soffrí pe come m’hai fatto stà». Si piegò per riprendere il lenzuolo abbandonato ai nostri piedi; ci coprì entrambi.
«T’ho perdonato tanto tempo fa» sussurrò.
«Dici davvero?».
«Sì. Fallo pure te, Mattì. Perdònate e vai avanti. Annàmo avanti» un bacio schioccò sulla mia fronte. Infilai una gamba fra quelle di Andrea.
«’Dio, quanto ti amo, Andrea» chiusi gli occhi e mi addormentai fra le sue braccia, ma non prima di sentire «ti amo, amore mio».
Sorrisi, felice di essere stato chiamato “amore mio” dall’uomo che amavo.
 
   
 
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