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Autore: summers001    04/07/2023    8 recensioni
Oscar&Andrè | What if? |
What if: Alain avesse salvato Oscar quel tragico 14 luglio?
“E’ tisi.” Sentenziò il dottore alla fine. Rosalie alla fine scoppiò in lacrime.
Tu lo sapevi, Andrè? No, no che non lo sapevi. Non le avresti mai permesso di tornare in caserma se lo avessi saputo. Qualche cosa l’avresti fatta. Di chi era la colpa allora? Sua, per non avertelo detto? Che dovevo fare io invece? Volevo prendere il tuo posto ma non sapevo neanche da dove cominciare. Volevo restare a Parigi, morire là. Non sapevo neanche che potevo farmene altrimenti della mia vita al di fuori di quelle scelte improvvisate. Cercai in lei le mie risposte. Lei si faceva girare e rivoltare come una bambola. Non mi guardava, non mi pensava, non lo faceva con nessuno. Mi montò una rabbia dentro. Ci stavamo tutti preoccupando come degli idioti, quando lei si impegnava a lasciarsi andare perché le era morto il fidanzato, come Dianne.
“Lo sapevi?” le chiesi. Mi trattenni dal tirarle un ceffone o sputarle addosso.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alain de Soisson, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Cominciò tutto il 12 luglio 1789.

Erano arrivati ordini inquietanti quel pomeriggio: lo stato si era schierato apertamente contro il popolo, contro di noi. Avevamo passato la notte a parlarne. Alla fine ce ne saremmo andati: non avremmo tirato una sola pallottola contro la povera gente, piuttosto avremmo mollato tutto e così decidemmo. Stavamo facendo i bagagli. Smontavamo tutto e mettevamo le nostre cose da parte nella speranza che se fossimo morti qualcuno le avrebbe recapitate ai nostri familiari. Ai loro familiari. I miei sarebbero andati ad una vicina di casa di cui neanche conoscevo il nome.
C’era un gran vociare, ma nessuno che parlasse con un altro. Era solo un’accozzaglia di bestemmie e parole senza senso. Eravamo come stonati, ubriachi. Alcuni anche stanchi.

“Alain.” mi sentii chiamare da dietro. Eri tu Andrè, stranamente allegro. Mi desti una discreta pacca sulla spalla e ti mettesti accanto, davanti alla tua branda, collezionando insieme a me le tue cose. Credo avessi intuito perché lo stessimo facendo noi. Interpretai i tuoi gesti automatici che copiavano i nostri, come una dichiarazione pubblica.

“Andrè.” Risposi e con la coda dell’occhio notai l’espressione da ebete che tenevi in faccia. Eri troppo allegro per i miei gusti. Mi voltai e ti guardai meglio: avevi proprio una faccia da fesso. Ebbi il sospetto. L’avevo vista anche altrove quella faccia. Cazzo, ce l’avrò avuta anch’io un milione di volte! Ma no, mi dicevo, non può essere. “Che hai da ridere?”

All’epoca non volevo crederci, ormai lo pensavo impossibile. Tu invece mi guardavi e sorridevi con tutta la faccia. Sembrava che niente te l’avrebbe cambiata. Ti giravi per rimettere in ordine le tue cose, piegando le coperte addirittura, mentre io avevo completamente abbandonato l’idea ed avevo arrotolato tutto alla rinfusa in un sacco, che con tutta probabilità non sarebbe arrivato mai a nessuno.

“Che è successo?” ti chiesi fingendo pura e semplice curiosità, mentre mi montava dentro una gelosia assillante. “Non fare lo stronzo!”

Mi guardasti di nuovo. Chiudesti finalmente la bocca, stavi quasi per parlare, ma poi scrollasti le spalle. Guardasti lontano con gli occhi, dentro il muro, ripensando a chissà che cosa. Forse ricordando. Sorridesti di nuovo.

“Quindi…?” Te lo chiesi con gli occhi e tu sembrasti confermare guardandomi di nuovo.

“Noo!” gli feci stavolta a voce alta dandoti una pacca sulla spalla che lo smosse.

“Smettila!” mi intimasti solo. Non volevi che scherzassi su quell’argomento.

Alzai le mani, nascosi la ferita che quella rivelazione mi provocò. Fu come una pugnalata, un coltellaccio al centro del petto che non mi diede il tempo di sanguinare. Poi entrò lei. Si guardò attorno, cercò te, Andrè, come faceva ogni volta. Sorrise appena e poi nascose quella smorfia abbassando il capo e coprendosi le labbra con il dorso della mano guantata. La vedesti anche tu e le rispondesti senza parole, di nuovo con quella faccia da ebete. Non ebbi più dubbi. Non che prima me ne fossero venuti.

Provai la tentazione di trascinarti fuori, dirti di portarla via da lì, farti capire che avreste rischiato molto, tutto. “Proteggila” volevo dirti. E ti avrei costretto a suon di cazzotti. In tutto questo mi ero dimenticato dei tuoi occhi. Prima di definire i dettagli del mio piano però lei cominciò a parlare. Fu appassionata e dichiarò le sue scelte davanti a tutti. Scelte che ci commossero, incuriosirono, appassionarono ed incitarono: una donna che ha tutto che sceglie di rinunciare a tutto ed avere niente per uno di noi. Prendemmo noi allora la decisione di seguirla. Se lei, se voi volevate combattere, non vi avremmo lasciati soli. Non vi avrei fatti ammazzare.

Incitati tutti se ne andarono. Ai cavalli! Ti trattenni perché aspettassi mentre la bolgia di soldati ci superava. Alla fine rimanemmo nello stanzone soli io e te. Era la mia ultima occasione per parlarti. Ti avrei detto solo “portala via”, ma me la trovai accanto e di fronte a te.

“Alain.” Mi disse solo. Mi guardò, voleva che me ne andassi. Vi guardai implorante come a chiedere un ultimo minuto col mio amico, prima di cederti del tutto. Lei però aveva negli occhi ancora l’eccitazione di quella dichiarazione pubblica e ribelle. Lo feci allora. Me ne andai e mi misi ad aspettare dietro la porta che tu uscisti. Neanche voltai le spalle che le tue mani erano sui suoi fianchi, dietro le spalle, il collo, i capelli, tra i vestiti. Sentivo persino da là quel rumore sospetto, divenuto un po’ imbarazzare, della stoffa arrotolata tra le mani. Ti sentii stringerla. Sentii la schiena di lei sbattere contro le assi di legno dei letti. Cazzo, questi facevano sul serio, pensai. 

“Non devi farlo.” le dicesti poi tu tra il rumore dei baci “Non devi farlo.”

“Va bene.” Ti rispose solo lei remissiva, così tanto che non la riconobbi e pensai che non doveva andare così, che forse l’amore o quell’amore non era per lei. Che si stava trasformando, perdendo qualcosa e non doveva. Che mi piaceva quel qualcosa, teneva vivo pure me e non l’avrei trovato mai più in nessun altra. Avrei voluto proteggerla da te, ma non mi muovevo di un passo, perché per quanto ci potessi provare io rimanevo sempre escluso da voi due, ormai lo sapevo da tempo. 

“Non decido io per te, capito?” le dicesti di nuovo ed eri serio. 

“Va bene.” Rispose di nuovo lei a voce più bassa ancora, come se sapesse che c’ero io da qualche parte ad ascoltare. Aveva appena la punta di un sorriso tra i denti.

“Decidiamo insieme.”

“Va bene.”

“Smettila!” facesti tu alla fine, ridendo ed anche lei rispose ancora ridendo di nuovo con “va bene”, senza riuscire a pronunciare solo due parole tra le risate. Eravate due bambini che giocavano. Mi arresi proprio in quel momento. Eravate felici. Mi dissi che andava bene così. Sarei morto in ogni caso.
 
***
 
A sorpresa non fui io a morire.

Andrè, moristi tu quel giorno.

Vedesti anche tu cosa fece la tua donna. Corse in testa al gruppo come una furia, urlando a squarciagola per spaventare gli avversari, come una bestia ferita. So che avresti preferito lei, ma toccò a me tenerti quasi in braccio per portarti al sicuro. Proprio per quello riuscii a contare tutte le volte che venne per assicurarsi che tu stessi bene: undici.

Arrivammo dietro alle trincee improvvisate da quel tuo amico, Bernard. Trattenesti il dolore quando ti facemmo scendere da cavallo, facesti solo una smorfia muta mordendoti la guancia. Oscar ti raggiunse subito, ci urlò di fare piano, di non farti male. Non che avremmo mai voluto.

“Non sono messo poi tanto male.” Dicesti. Non so se vaneggiassi o lo volessi lei e noi.

Oscar forzò un sorriso. Ingoiava e respirava forte per nascondere le lacrime, che lasciò uscire solo dopo, quando i medici si furono pronunciati. “Stai benissimo.” Ti disse invece e poi sorridesti pure tu. Fu l’ultima volta che ti vidi sorridere, sempre con la faccia da ebete.

Assistemmo tutti al momento in cui i tuoi occhi si chiusero per sempre. Le urla di Oscar si sentirono in tutta Parigi, o quasi. Temetti che ci venissero a prendere.

Spezzarono anche me.

Pianse tutte le lacrime che aveva. Urlò fino a che non ebbe più fiato. Non lasciò avvicinare nessuno, ti protesse persino da noi, imprecando e tirando pugni a vuoto. Si disperò così tanto sul tuo corpo ancora caldo, che rimase senza forze. Se ne rimase accasciata sul tuo corpo, come se da un momento all’altro potessi svegliarti, abbracciarla e dirle che andava tutto bene. Qualcuno ci fece notare che stesse tenendo un morto tra le braccia. Grazie tanto, non ci eravamo arrivati! Solo allora provammo ad avvicinarci. Portammo il tuo corpo in una chiesa insieme alle spoglie di tanti altri commilitoni. Continuò a tenerti per mano, quasi spaventata di lasciarti solo lungo tutto il tragitto. S’inginocchiò e rimase lì davanti alla tua bara, poggiata con la guancia sulle assi di legno, gli occhi sul tuo viso e la mano lungo il tuo braccio suoi tuoi vestiti. Allontanai tutti e la lasciai lì, credendo che più tardi nella notte, quando si fosse sentita pronta, ci avrebbe raggiunti. Non successe mai.

Poco prima dell’alba andai a cercarla. Mi capitò di pensare che mi avresti ucciso se non l’avessi riportata sana e salva, prima di ricordarmi che il mio amico non poteva più farlo. Girai mezza Parigi senza trovarla. Al mattino mandai a fanculo i miei buoni propositi e mi unii alla folla. Fu allora che la vidi. Era in un vicolo. Aveva gli occhi spenti e spaventati: il comandante delle guardie, una donna, che non aveva avuto paura di battersi a duello con me, con dei banditi, con l’esercito del re, che dava ordini a uomini rozzi come noi, una donna con le palle così, era spaventata.

Pianse. Si aggrappò alla mia uniforme. Mi pareva rotta. L’avevo creduta gelida, senza nessun sentimento, che avevo visto invece esplodere negli ultimi due giorni. Aveva così tanto amore e dolore da rompersi. Era questo che vedevi quindi, Andrè? Oscar viveva di passioni nascoste, che bruciavano. Pensai che non fosse forte come te però, che di quell’amore e dolore avevi sofferto tutta la vita. Lei senza di te, Andrè, non vive invece.

Decisi di prendere il tuo posto. Decisi che dovevo tenerla in piedi perché non morisse. Nascosi la mia passione egoista dietro una promessa fatta al mio migliore amico appena defunto. Mi vergognai, ma la guidai a fare quello che doveva, dicendomi che la libertà del popolo che guadagnammo giustificasse le mie azioni, anzi le aveva rese necessarie. Ne avevamo il dovere morale. Cercai di sollevarla dicendole che era quello che avresti voluto anche tu. Avevamo bisogno delle sue capacità militari.

Sotto la Bastiglia, la vidi farsi furia e vincemmo grazie a lei, a quel fuoco che le bruciava dentro e pure fuori. Non so come poi vidi i fucili puntati. La portai via ma non fui veloce abbastanza.

Uno mi colpì alla spalla. Sanguinai fino a notte fonda, così tanto da rimanere intontito per giorni. Lei fu colpita due volte. Cominciò allora un lungo calvario.
 
***
 
La portai a casa della sua amica Rosalie.

Mi trovai di fronte Bernard e per poco non ebbi un colpo, Andrè. Pensai fossi uscito già dalla tomba per perseguitarmi. Forse cominciai a maturare allora un senso di colpa. Rosalie però curò le ferite di Oscar.

Lei rimase febbrile per una settimana, con quelle dannate pallottole che s’erano conficcate nella sua schiena. Venne un dottore qualche giorno dopo. Tolse via il metallo mentre io le tenevo ferme braccia e gambe, ma nonostante questo la febbre non andò via. Due giorni dopo lo presi per i vestiti e gli chiesi ancora una volta cosa cazzo stesse andando storto e cosa dovevamo fare. Mi rispose di ingoiarmela una pallottola e controllare da me se non mi venisse quanto meno la cacarella. Per lui era normale che Oscar fosse ancora in quelle condizioni. Stava a letto, buttata dentro a delle lenzuola sudate ed ormai anche sporche di sangue, siero e piscio. Quella stanza puzzava da morire. Tirai dentro Rosalie e le feci annusare le pareti, come aveva fatto quel medico con me le chiesi se lei riuscisse a respirare dentro quel puzzo.

Il giorno dopo trovai la finestra aperta, le lenzuola bianche, il dottore che le cambiava le pezze sulla fronte e la pelle di Oscar brillante e bianca da far paura. “Qualcosa non va.” Disse quello sistemandosi il monocolo tra il naso ed il sopracciglio.

“Che razza di dottore siete? Sono giorni che ve lo sto dicendo!” mi lamentai.

Poi quello tolse le lenzuola e scoprì una macchia di sangue. Andrè, c’era così tanto sangue che mi impressionai pure io. Ci teneva il petto dentro. Pareva quasi a mollo dentro a quella macchia sulle lenzuola.

“Le ho cambiate pochi minuti fa.” fece Rosalie confusa ed intontita.

Sembravano tutti sapere cosa significassero quelle rivelazioni. Rosalie quasi scoppiava a piangere. Si guardavano tra di loro, chiedendosi chi avrebbe dovuto dirmi chissà cosa. Allora cos’era quel sangue: le ferite, le mestruazioni, cosa? Stavo per chiederle, quando un colpo di tosse mi tolse il fiato. Prima debole, poi violento come in un crescendo lirico di un’opera teatrale. Alla fine dalla bocca di Oscar uscì sputo, catarro, altro sangue e chissà che altro.

“E’ tisi.” Sentenziò il dottore alla fine. Rosalie alla fine scoppiò in lacrime.

Tu lo sapevi, Andrè? No, no che non lo sapevi. Non le avresti mai permesso di tornare in caserma se lo avessi saputo. Qualche cosa l’avresti fatta. Di chi era la colpa allora? Sua, per non avertelo detto? Che dovevo fare io invece? Volevo prendere il tuo posto ma non sapevo neanche da dove cominciare. Volevo restare a Parigi, morire là. Non sapevo neanche che cazzo potevo farmene altrimenti della mia vita al di fuori di quelle scelte improvvisate. Cercai in lei le mie risposte. Lei si faceva girare e rivoltare come una bambola. Non mi guardava, non mi pensava, non lo faceva con nessuno. Mi montò una rabbia dentro. Ci stavamo tutti preoccupando come degli idioti, quando lei si impegnava a lasciarsi andare perché le era morto il fidanzato, come Dian e. Che cazzo.

“Lo sapevi?” le chiesi. Mi trattenni dal tirarle un ceffone o sputarle addosso.

Mi aspettavo che facesse di sì o di no con la testa, invece non si girò neppure, il che non fece altro che farmi incazzare ancora di più. E tu che eri morto per lei, l’avevi salvata scambiandola con la tua vita. E per lei questo non valeva niente. La tua morte non valeva niente. Avevo perso un amico e lei se ne fotteva. Avevo perso anche un sentimento che mi teneva in piedi. Ed io stupido che avevo pensato di provare qualcosa per una così.

Me ne andai sbattendo la porta. Voleva morire? Bene, per me era morta.
 
***
 
Mi rifiutai di presentarmi ancora.

Non aiutai lei, non aiutai Rosalie, né Bernard o Robespierre. Niente, nessuno. Non ero come te. Mi chiusi in una taverna e mi ubriacai non so neanche per quanto tempo. Me ne andavo solo per tornare a dormire, ogni notte in un letto diverso, pagando delle prostitute, usandole per sfinirmi. Solo così riuscivo ad addormentarmi.

Durai qualche settimana, poi cominciai a sentire il rimorso e la nausea. Vomitai in un vicolo puzzolente per tutta una notte, cercando di porvi rimedio con altro vino. Mi trovò là Rosalie la mattina successiva. S’era incappucciata neanche fosse una ladra. Girava per le strade di Parigi con un mantello in testa come se avesse paura di essere riconosciuta.

Era settembre ed io ero ubriaco da quella notte di luglio.

Rosalie mi disse che le ferite di Oscar erano guarite, ma aveva bisogno di aiuto. Non usciva da quella stanza, non si alzava dal letto. Piangeva in silenzio. E non si spiegava da dove cacciasse quelle lacrime perché non l’aveva vista bere e mangiare ormai da settimane. Era impossibile, ovviamente. Imparai poi che aveva la tendenza ad esagerare quella donna, ma con tutto quell’alcol in corpo non feci fatica a crederlo.

Seguì una conversazione strana. “Non sei l’unico, sai. Fa a tutti quell’effetto.” Mi disse Rosalie. “Ero innamorata di lei quando ero a palazzo Jarjayes. Buffo, no?” mi disse. Scoppiai a ridere. Immaginai lei ed Oscar a letto a scopare. Sì, certo, io innamorato! Della tua donna, Andrè, poi!

Sta di fatto che la mattina dopo mi presentai. Mi misi a fianco al suo letto, pronto a recitare un discorso che avevo imparato a memoria per strada, sulla vita e la morte, su Diane e mia madre, salvo poi improvvisarlo del tutto. La chiamai e lei non mi guardò neppure. Chiuse gli occhi per evitare di vedermi. Ci riprovai, e niente, ma prima di farmi spazientire tirai fuori la mia arma vincente: “Andrè è morto per salvarti la vita. Dovresti almeno provarci. O vuoi che sia morto per niente?”

A sentire quelle parole si tirò su e mi suonò un ceffone. Non le diedi nemmeno la soddisfazione di tenermi la guancia dolorante. La afferrai per le mani e le puntai un dito davanti agli occhi. “Hai solo un altro giorno da femminuccia, poi ti alzi, mangi, bevi e fai finta che ti interessi qualcosa di questi poveri fessi che ti sono attorno”.

Mi guardò come fece quel giorno prima della Bastiglia: persa. Se l’ho conosciuta almeno un po’, dovette vedere davanti a sé centinaia o migliaia di giorni vuoti da riempire ed il pensiero dovette spaventarla.
Per la cronaca, non funzionò nemmeno quello. O così credevo.
 
***
 
“Dobbiamo fare qualcosa.” Sentenziò Rosalie qualche sera dopo, mettendoci tutti attorno al tavolo di casa sua. Eravamo io, lei e suo marito.

“Bene,” le feci per accontentarla “spara tutto, piagnucolona. Facci sentire che hai in mente stavolta.” Avrei voluto essere più cattivo per insultarla, perché non è che non mi ero proprio impegnato in quella storia. Anzi. Mi ero ingoiato il mio orgoglio ferito. Avevo ammesso a me stesso di essermi innamorato della donna del mio migliore amico. Stavo là davvero a prendermi cura di una inferma.

Rosalie non si scompose per niente. Pensai lì per lì che era una donna più forte di quel che pensavo. L’avevo sottovalutata. Si schiarì la voce e cominciò a dire che dovevamo pensare prima alla tisi e portarla in un posto dove poteva respirare aria fresca, magari vicino al mare, come le aveva consigliato il dottore. Raccontò a noi tutti che il tempo avrebbe guarito le altre ferite. Noi, che di ferite ne avevamo avute a centinaia. “Dobbiamo portarla via.” Disse alla fine.

Fu allora che la vidi arrivare. Aveva la presenza di uno spirito. Si muoveva così lentamente da passare inosservata e senza fare il minimo rumore. Era così magra da confondersi con le crepe dei muri. La vidi dagli occhi. Quell’azzurro fuoco mi inchiodò sulla sedia e mi lasciò senza parole. Rosalie la chiamò, Bernard provò ad avvicinarsi. Io mi tirai su ed allungai una mano, senza parole. Nel mio egoismo ero felice di vederla in piedi, anche ferita, arrabbiata. Mi mancava la sua furia, la sua rabbia tutto in una volta. La volevo là a prenderci a calci tutti, per esserci seduti a tavolino per decidere della sua vita senza di lei, come se fosse nostra. A fare, come mi avevi sempre raccontato, come aveva fatto suo padre per lei.  

Lessi disgusto invece nei suoi occhi. Pensai di farle schifo, per quello che le avevo detto forse, e pensai di farmi schifo anche da solo però per ben altro. Che già mi ubriacavo tutte le sere per dimenticare che volevo prendere il tuo posto nella sua vita. Che scopavo con tante femmine che si portavano via solo i miei soldi pensando che ci fosse lei al loro posto. Non avevo bisogno anche di quello sguardo.

“Che hai sentito?” le chiesi.

Chissà che cosa la schifava tanto. Forse il fatto che tutti noi volessimo andare avanti anche se te ne eri andato. Forse il fatto che credeva che tu fossi più importante di noi, come lo eri per lei. Forse il fatto che volessimo portarla lontano, fuori dalle nostre case, come se non fosse più un problema nostro. Forse era delusa dal fatto che lei ci aveva dato tutto quello che aveva e noi ce ne liberassimo così, a calci in culo. Sta di fatto che lei arretrò, come a volersi separare da noi. Guardò la porta, come se potesse davvero considerare l’idea. Si guardò le spalle, come se tu potessi darle una mano.

“Domani ce ne andiamo io e te. Piantiamo la bandierina su un pezzo di terra e ci mettiamo a coltivare il grano.” Non so neanche da dove mi venne l’idea. Dovevo allontanarmi anch’io e dovevo farlo tempo addietro. Dovetti sorprendere tutti, perché mi guardavano con una faccia. Tutti tranne lei. Lei storse le labbra, mi congelò con lo sguardo tanto che mi misi paura.
 
***
 
Mantenni la promessa.

Non ebbi nemmeno bisogno di caricarmela in spalla. Camminò da sola fino ad un carretto che arrangiammo a carrozza. Lei stava là dentro, io a cavallo a guida. Mentre ce ne andavamo e correvamo nel vento, la guardavo da davanti a dietro a fissare Parigi per l’ultima volta, Versailles, i prati su cui aveva passato le sue estati, i palazzi dei grandi signori che immaginai a torto che avesse frequentato. Lasciava quel posto senza di te. Passava il tempo e lo spazio dacché tu te ne eri andato. Il paesaggio cambiava. Chissà se lo vedeva sotto tutti quei capelli biondi trascinati dal vento che la coprivano tutta.

Allontanarmi e pensare di fare il contadino mi fece sentire come se stessi facendo ammenda. Non stavo curando solo lei, ma anche me ed il mio senso di colpa. Potevo rimediare allo schifo. Stavo immolando la mia vita comoda e senza senso nella speranza di aiutarla davvero a sopravvivere. Non potevo chiederti scusa, ma almeno volevo guardarmi allo specchio la mattina, non volevo più dimenticarmi chi ero. Mi sentii subito meglio. Oscar non l’avrebbe capito subito, ma era la cosa migliore per lei, l’unico modo per salvarsi.

In campagna Oscar sembrava aver dimenticato l’apatia della città. Si alzava tutte le mattine, mangiava ed usciva. Non so neanche dove andasse. Non la seguii mai. Per quel che ne so poteva vagabondare tra i campi o ciondolare sul bordo di un fiume decidendo quando ammazzarsi. Tornava la sera e mangiava di nuovo. Sembrò prendersi cura di sé nonostante le sue fughe misteriose, come se si stesse prendendo cura però di un altro essere umano o del suo guscio, mentre dentro non c’era niente. Aveva lo sguardo vuoto. All’inizio non mi rivolse la parola per giorni, poi solo buon giorno e buona sera. Alla fine divenni l’unica persona con cui parlasse, almeno credo.

Sapevo però che c’era ancora qualcosa che non andava. La tosse non cambiava. Aveva sempre freddo, tant’è che cominciò a girare con una coperta addosso. E poi mangiava ma non ingrassava, neanche se l’avessi imbottita di burro. Brutto segno, giusto, Andrè?

In inverno smise di andarsene camminando in giro. Notai che aveva l’affanno appena s’alzava dal letto e che si muoveva come se pesasse chissà quanto. Una mattina mi chiese di aiutarla ad alzarsi dal letto mentre cercava di far leva sul gomito. Allora capii. Sarebbe morta, triste come una miserabile, credendosi sola, in un mondo di merda che l’aveva rifiutata ed allontanata. Era un modo penoso di morire. Speravo ne venissimo a capo un giorno o l’altro, che sistemasse le cose che aveva in sospeso. Magari che mi dicesse di salutare la sua famiglia.

La invitai a raggiungermi per guardare il tramonto. Lo facevo tutti i giorni, a volte penavo a Diane, a volte alla Francia, a quello che avevo perso, alle persone che non c’erano più. Anche a te. Quel momento della giornata mi creava un vuoto nel petto. Forse speravo che facesse lo stesso effetto anche a lei.

Oscar non venne il primo giorno, né il secondo. Era gennaio del 1790 quando mi raggiunse. Camminava piano a passi incerti, quasi cadendo di lato. Non c’era più niente del passo deciso da comandante delle guardie, né della donna con le palle che era stata un tempo. Si sedette accanto a me su di un sasso enorme, davanti alle colline coltivate. Il tramonto era arancione, i campi arati, scuri di terra, gli alberi erano spogli. Da lontano si vedeva il mare.

Non avevamo scambiato troppe chiacchiere in quei mesi, ma là davanti quel vuoto nel petto mi disse cosa dovevo dire. C’era una cosa che volevo sapere, da te più che da lei. “Andrè non mi ha mai raccontato cosa successe quella sera.” Le chiesi e lei sorrise. Rividi nel suo sguardo lo stesso da fesso che avevo visto stampato sulla tua faccia quella mattina del 13 luglio. “Cosa ha spinto una contessa nelle braccia del suo attendente?”.

Oscar sorrise di nuovo. Per un attimo gioii come un fesso anch’io e cominciai a sperare che ci fosse rimasto qualcosa dentro di lei. “E’ questo che lui ti ha raccontato? Che era solo il mio attendente?” Mi guardava con apprensione, come ad un bambino arrogate, troppo giovane per capire il mondo, l’amore ed il dolore. E persino la vostra storia. Mi guardava come se ci fosse stato così tanto altro che io ignoravo.

Scrollai le spalle. Mi accorsi che non sapevo nulla, che tutto quello che sapevo io erano pregiudizi e storielle che mi ero creato in testa. Che in realtà non ti ero mai stato a sentire.

Oscar tirò un sospiro e guardò verso il tramonto. “Andrè era...” Cominciò a piangere piano avvolgendosi meglio nella coperta. Guardò lontano, verso i campi, cercò di nascondere così le lacrime, fino a quando dovette decidere che non importava che qualcuno le vedesse. Si lasciò andare, singhiozzando dopo mesi. “Ogni volta che mi giravo, c’era lui.”

Una piccola parte di me si ricordò di quando ti avevo visto soffrire per quella donna, troppo debole per vivere ora senza di te. Mi parve piccola, piena di rimpianti e nostalgie. “Ma era sempre dietro.” Mi sembrò di infierire, dovetti mordermi la lingua per non tornare a parlare di stato, ricchezza e miseria.

Oscar scosse il capo e sorrise. “Non lo è mai stato.”

Notai che sorrideva quando parlava di te. Mi raccontò delle vostre lezioni di storia e latino, dei pomeriggi nei prati, gli inverni in biblioteca, i balli di corte. Che per lei tua nonna era vostra nonna. Aveva voglia di continuare. Passammo le sere successive a ricostruire un racconto dopo l’altro quella che era la tua storia. Divenni il custode della tua infanzia ed adolescenza. Mi raccontò di quando ti immolavi al posto suo per proteggerla dal padre, che le prendevi da lui e poi pure da tua nonna, ma che lei ti veniva a cercare e dormiva nel tuo letto con la testa vicino ai tuoi piedi. Mi disse che ogni volta che lei si cacciavi nei guai, tu la tiravi fuori come se tu avessi un sesto senso. Io però ho vissuto con te dietro alle quinte. “Ma quale sesto senso!” le feci “Andrè pensava sempre alla cosa peggiore che ti potesse succedere e ti correva dietro a controllare!”

Da allora cominciò a raccontarmi alla sera, di ritorno dai campi uno qualunque dei vostri episodi. Dovette pensarci per tutto il giorno per ricordare ogni minimo particolare. Trovò consolazione in quelle serate alla luce del camino. Ogni sera mi raccontava un episodio diverso della vostra vita insieme. Una volta avevi tu dodici anni e lei undici e nascondevate giocattoli sotto terra in una scatola di latta, quella dopo poco più di trenta e tu la accompagnavi ad un ballo vestita di tutto punto per un altro.

“Ne ho anch’io di storie su Andrè che tu non sai.” La ammonii una sera mente mi versavo del vino. Mi guardò piegando il capo curiosa. “Non stava sempre con te, sai?”

Le raccontai di quella volta in taverna, Andrè, hai presente? Era ancora una donna misteriosa la tua. Ricca, lo sapevo, ma non ci avevi detto che faceva anche il comandante delle guardie. Ti incitammo io e gli altri ragazzi a provarci con una di quelle ragazzine che aspettavano solo il soldato buono che le sposasse e le passasse il rancio. T’avvicinasti, le parlasti. La vedemmo darti un bacio sulla guancia. Sembrava fatta, invece tu tornasti indietro e mi facesti l’occhiolino, dandomi una pacca sulla spalla ed invitandomi ad andare da lei.

Una sera mi raccontò lei di come perdesti un occhio, l’altra le raccontai io di quando ci siamo conosciuti. Lei mi raccontò delle gare che facevate a cavallo di ritorno da Versailles, di come non la lasciassi vincere quelle poche volte che ti trovavi in vantaggio. Ti immaginai a gridare vittoria. Io le raccontai di come avevi protetto Gerard quando era appena arrivato. La storia più strana di tutte fu quando insegnasti a Rosalie a ballare. Addirittura mi disse che tu parlavi il latino.

Restituirle qualcosa di te mi fece sentire giorno dopo giorno più leggero. Le vidi ricomparire il sorriso, in mezzo a tutta quella nostalgia. Attraverso le sue storie mi accorsi di provare finalmente qualcosa, di aspettare e sperare di vivere anch’io. Mi stavo io prendendo cura di lei, ma in realtà era lei a prendersi cura di me, aiutandomi con quel senso di vuoto che mi aveva preso da quando ero rimasto solo. Ero pronto per vivere, ma non potevo ancora farlo: dovevo accompagnarla piano piano.

Mi sentivo più sereno.

 
***
 
Si è spenta piano, Andrè.

Le storie che mi raccontava divennero col tempo sempre più brevi. Alla sera andava a dormire sempre un po’ prima. Di notte dormiva sempre un po’ in più ed al mattino fu sempre più difficile svegliarla, tanto che più di una volta ebbi paura che fosse morta nel sonno.

Non ha sofferto. Non più di quanto facesse da un anno a quella parte. Io mi sono sentito sollevato. Finalmente sarebbe stata di nuovo con te. Quel lungo calvario si era chiuso. Ti avrebbe raccontato di quello che avevamo fatto negli ultimi mesi e tu mi avresti persino perdonato.

Qualche anno dopo mi raggiunse Rosalie. Mi fece una strana richiesta, mi chiese di che colore Oscar preferisse le rose. Non lo so, non gliel’ho mai chiesto, ma sapevo cosa tu avresti risposto. Bianche.





 



Angolo dell'autrice
Non so cosa sia. Mi è venuto di getto ed eccola qui :) spero solo abbia un senso a questo punto ahah
In questi giorni spero di aggiornare anche le altre cose rimaste appese. Grazie per chiunque è qui ancora a leggermi :) scrivere e condividere con voi è qualcosa che non riesco a smettere di fare, a cui penso spesso durante la giornata.  
  
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