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Autore: mystery_koopa    05/07/2023    5 recensioni
Galileo Galilei, tormentato dalla febbre sul letto di morte, rivive uno dei momenti più tragici della Storia della sua città natale, Pisa: la distruzione del suo porto ad opera di Genova in seguito alla sconfitta nella battaglia della Meloria.
✠ Storia partecipante al contest "Viaggi nel tempo" indetto da Artnifa sul Forum di EFP.
Vincitrice dell'Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale agli "Oscar della Penna 2024" indetti sul Forum Ferisce la Penna.
Genere: Angst, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo, Epoca moderna (1492/1789)
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LE ULTIME LUCI DEL PORTO

 
Pisa, 1290
 
Il numero delle torri del porto sembra variare al calare del sole.
Quando ancora il cielo è tinto d’arancio le vedo tutte e quattro, ma già quando i toni scendono verso il blu vedo ne scorgo solo due: la mia vista, con l’avanzare degli anni, si è fatta sempre più debole…
Poco più tardi, tutto si fa nero e resta solo il bagliore del faro a splendere verso l’orizzonte.

Rivolgendo lo sguardo a sud, vedo scomparire dall’acqua le ultime increspature generate dalle navi che sono riuscite a gettare l’ancora in porto appena in tempo, prima della chiusura della catena poste all’imboccatura.
Guardandola così, l’apertura meridionale di Porto Pisano sembra una premonizione del destino passato e presente della città. Le ricchezze si aprono di fronte, verso il mare aperto, mentre le minacce vengono lasciate alle spalle: gli eserciti di terra, Firenze, le flotte liguri da nord-ovest.

Forse, io solo so cosa succederà questa notte. Non so né ne comprendo il perché, ma conosco esattamente il momento in cui mi trovo: non ci sono segnali né precise indicazioni, ma è come rivivere un ricordo, rammentandone ogni dettaglio che lo scorrere del tempo ha concesso alla mia memoria.
Forse, però, ciò che sta accadendo è ormai chiaro a tutti gli abitanti della città, riparati nei forti e nelle chiese, aggrappati all’unica speranza di quella grande catena tirata tra la Magnale e la Formice.1 Saranno sicuramente impegnati in una preghiera vana, come vano sarà anche l’identico auspicio di settantatré anni più avanti.2 E come lo saranno le mie preghiere di verità, che ripetutamente sarò costretto a rinnegare.

Non posso vederle, ma nella distanza so che ci sono, poste in carovana3, le galere genovesi. Sento lo sbattere dei remi e delle onde, che ostacolate da quei legni impregnati di salsedine perdono la regolarità del loro frangersi contro i moli.
Sono già trascorsi sei anni4 da quando queste stesse navi hanno segnato l’inizio del declino della città e delle sue terre, mia patria di nascita e adozione.5

Mi giungono alle orecchie alcune voci: quelle alla rada sono sempre più chiare e vicine, mentre si riducono a flebili sussurri quelle provenienti dalla terraferma, dove parimenti ogni luce è stata spenta. La Pieve di San Niccolò, il Fondacum, la Domus Magna: la loro oscurità accresce soltanto il perenne buio che da anni mi pervade lo sguardo, e che è soltanto ora si è leggermente diradato.
Sembra tutto un deserto, uno spettro, come se già il porto fosse stato interrato, per sempre sepolto sotto colate di sabbia e cemento, lasciato a sé come i frammenti del crollato Faro della Meloria.

Alzo lo sguardo al cielo, dove le geometriche traiettorie del volo dei gabbiani sono state sostituite dalle stelle. Nonostante ciò che sta per accadere mi sento calmo, come se esse mi stessero familiarmente accogliendo a casa.

 
*

Passano ore prima della comparsa di una seconda luce, nient’altro che il preludio dello spegnimento della prima.6 Sapevo sarebbe accaduto, anche se non quando: più volte mi sono illuso di aver scorto un bagliore al largo, nell’oscurità, ma dev’essere sempre stato nient’altro che un inganno della mia pupilla consumata, stanca di farmi vivere un ulteriore dolore.

Nell’inesorabile attesa mi ero accasciato al suolo, portandomi le mani alle tempie nel vano tentativo di placare la febbre che sentivo sempre più insistentemente. In alcuni istanti, il legno delle vecchie assi umide su cui giaccio mi sembra tramutarsi in un comodo materasso di paglia e piume, e le voci provenienti dalle navi si confondono con quelle di medici e suore. Forse Virginia7 mi sta chiamando: quasi dimenticavo per quanto tempo non avessi sentito la sua voce.
Ma il dolore alla testa e alla schiena non cessa, e adesso se ne aggiunge uno ulteriore, al petto.

È alla fine di questi pensieri, che si rincorrono e sembrano vivere all’interno della mia mente, che una luce compare da ovest: è come un’alba inversa, avversa, il crepuscolo sulla gloria ora passata di questa terra.
Non passa molto tempo prima che un sordo rumore metallico rimbombi nell’aria e nell’acqua, allo spezzarsi degli anelli e delle speranze, completamente vanificate.
Forse anche gli abitanti dell’antica città campana8 si sentirono così più di cent’anni or sono, quando fummo noi pisani a spezzare le catene della Costiera e ad interrare porto e flotta della nostra più grande rivale dell’epoca.

Stranamente, ricordo con piacere i momenti di noia in cui studiai questi fatti, costretto poiché il mio insegnante riteneva la Storia fondamentale ai fini della dialettica.9 Ma inesorabilmente mi distraevo ogni pochi istanti con gli occhi al cielo, rivolti al futuro, alla scienza, cercando di spezzare i vincoli del passato che in quei momenti mi sembravano costituiti dalle carte storiche. O almeno, così figurava il me ragazzo, ancora illuso che col tempo il cambiamento sarebbe stato accolto da ogni mente, e non solo da quella meno timorosa delle pene e della morte a cui gli innovatori di ogni tempo sono sempre andati incontro.

E invece, vivendola, la sonora sensazione dello spezzarsi di quella catena non mi ha colpito con altro se non che con il più profondo orrore, accresciuto dalla consapevolezza di non aver potuto avvertire alcun’anima viva della tragedia che si sarebbe consumata nella notte.
Ma è giusto così. Dio non avrebbe mai potuto concedermi di cambiare il passato, pur avendomi donato la possibilità di vederlo, anche se in questo momento un mio intervento non avrebbe potuto essere minimamente influente. Egli è il solo a poter dare parole di conforto ai disperati, anche quando la distruzione di tutto ciò che hanno sempre conosciuto appare inevitabile.
E anche quando in suo nome sono pronunciate le più crudeli condanne ed estorte le più false abiure; come se non ci fosse peccato più grave della negazione della verità del mondo da Lui creato.

 
*

Riapro gli occhi senza ricordare quando né come li abbia chiusi, perdendo la cognizione del mondo. Il bagliore del sole li colpisce subito, circondato da un vasto alone che non scompare nemmeno ponendo le mani a chiudere le palpebre.
Eppure era da tanto, troppo tempo che i miei occhi non funzionavano così bene, tanto che, se non avessi passato la vita a osservarlo, sarei stato vicino alla dimenticanza stessa dell’aspetto del nostro astro.

Provando ad alzarmi, fatico a respirare a causa di una nube di polvere improvvisamente sollevatasi a seguito di un boato che quasi copre persino il rumore del mare. Che fosse stato esso stesso a svegliarmi?
Sono ancora su quel vecchio pontile che sembra puntare dritto verso l’orizzonte, con vista sul porto e su quelle torri che, fino alla notte precedente, avevano retto la grande catena. Ma per quanto provi a guardare più attentamente, sforzando di tenere aperti gli occhi resi roventi da terra e luce, di esse non ne resta che una, con la base già avvolta dalle fiamme; e so di non poter incolpare la mia vista carente, per la scomparsa delle precedenti. Nulla è più com’era prima del tramonto.

I detriti riempiono lo spazio interno delle acque portuali e dei moli circostanti, fumanti quelli in superficie, talmente ingombranti da raggiungere quasi il pelo dell’acqua quelli sommersi. A giudicare dalla loro colorazione, per quanto sia possibile intuire con tale limitata visibilità, la Torre del Formice era stata l’ultima a crollare, sovrastando i cumuli di pietra in cui erano state ridotte le precedenti. Delle poche navi che s’erano ancorate la sera precedente, riparandosi prima della chiusura della catena, nemmeno l’ombra.
Ce n’è solo una, posta esattamente all’imbocco dello scalo, una larga caracca commerciale con la croce di San Giorgio, e non più quella occitana10, a impreziosirle le vele. So che quello è il posto giusto affinché adempia alla propria funzione: piena di materiali da costruzione, essa non è che il primo passo dell’interramento di quelle acque che così tanta gloria ci avevano portato, e che ora ci stanno togliendo.

Sola la Fraschetta, la Torre più piccola e antica, è ancora in piedi e brucia.
So che anch’essa cadrà, per poi essere ricostruita e ancora distrutta nel corso dei decenni. Eppure, come lo era stata catena la notte precedente, sembra ora essere un ultimo appiglio per la speranza, l’ultimo coraggioso baluardo che strenuamente si oppone allo spargimento di sale che avrebbe condannato Pisa intera, insieme al suo porto.

Mi stranisce parlare della morte di una città, sapendo che pur non splendente come prima sarebbe riuscita a prosperare nei commerci per un altro secolo, restando poi ricca anche sotto il dominio toscano. Sarà che in essa rivedo me, ormai vecchio, cieco e finito. Muto, inascoltato.
E spero che, come Pisa stessa, non lo resterò per sempre: che ci sia qualcosa della mia opera che sopravviverà ai roghi e alla dimenticanza.
La torre continua ad ardere e il fumo a espandersi anche verso l’entroterra, dove persino la Pieve è stata rasa al suolo. Per uno scherzo del vento, se non del destino, una folata d’aria lo porta anche verso di me, riempiendomi per l’ennesima volta gli occhi di nero e le narici di cenere.
Tossisco sempre più forte, quasi come se il petto mi stia venendo strappato dal torso, fino a perdere i sensi.

 
*
 
Arcetri, 1642

Scosso dalle febbri, giace sul letto e respira faticosamente. Apre gli occhi a intermittenza, provando invano a focalizzare un punto sul soffitto, forse per aiutare il debole corpo ad alzarsi.
Intorno a lui, il veloce agitarsi dei medici nei giorni precedenti è stato sostituito dal silenzio del giovane Viviani, seduto accanto al letto, e di Evangelista Torricelli, leggermente in disparte.
Le parole di Galileo Galilei risultano sconnesse, vagano tra gli astri, il pendolo, la Chiesa, Alessandra11, Marina e i figli… e tornano infine alla città natale, Pisa, riferendosi a una sua distruzione mai avvenuta.

Una suora del vicino convento di San Matteo gli posa una pezza bagnata sulla fronte e inizia a pregare sottovoce, quasi con timore. È il suo modo di accompagnare verso il cielo un’anima che vi ha sempre abitato.




Note:
1) Le due principali torri poste all’ingresso di Porto Pisano. Per motivi difensivi, tra esse era tirata una grande catena in modo da impedire l’ingresso alle navi nemiche.
2) Seconda distruzione di Porto Pisano ad opera dei fiorentini, 1373.
3) Le galee/galere, nell’ingresso al porto, procedevano in carovana per ottimizzare gli spazi ristretti. Durante le battaglie, invece, si aprivano a ventaglio tenendo come fulcro l’ammiraglia.
4) Battaglia della Meloria, 1284.
5) La famiglia Galilei era infatti originaria di Firenze. Il padre di Galileo, Vincenzo, si trasferì a Pisa per motivazioni economiche.
6) Secondo la tradizione, i genovesi riuscirono a spezzare la catena di Porto Pisano grazie all’intuizione del fabbro Carlo Noceti, che suggerì di riscaldarla col fuoco per indebolirne la tenuta.
7) Virginia Galilei, figlia dello scienziato. Fu suora e lo accudì come durante gli arresti domiciliari ad Arcetri fino alla sua morte nel 1634.
8) Amalfi.
9) Prima di iscriverlo alla facoltà di medicina, il padre di Galileo Galilei gli fece prendere lezioni di dialettica.
10) Simboli rispettivamente di Genova e Pisa.
11) Alessandra Bocchinieri, sorella della nuora di Galilei, con cui egli ebbe una fitta corrispondenza negli ultimi anni.



 
  
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