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Autore: Ruta    05/07/2023    0 recensioni
Non tornano dopo cinque anni. Neanche dopo il sesto. O dopo il settimo.
Tra la fine del settimo e l'inizio dell'ottavo qualcosa inizia a cambiare. Non smette di sperare, non pensa che lo farà mai. Semplicemente smette di aspettare.
Il bunker rimane irraggiungibile; le sue chiamate radio ancora non ricevono risposta.
Clarke continua a vivere i suoi tempi di pace, anche se quella pace ha assunto contorni da guerra nel suo cuore.
[5 stagione Canon Divergence. Lo Spacekru non torna dopo sei anni, ma dieci. Bellarke. AU - Queste Oscure Materie]
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Madi, Octavia Blake
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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I

Non tornano dopo cinque anni. Neanche dopo il sesto. O dopo il settimo.

Tra la fine del settimo e l'inizio dell'ottavo qualcosa inizia a cambiare. Non smette di sperare, non pensa che lo farà mai. Semplicemente smette di aspettare.

Il bunker rimane irraggiungibile; le sue chiamate radio ancora non ricevono risposta.

Clarke continua a vivere i suoi tempi di pace, anche se quella pace ha assunto contorni da guerra nel suo cuore.

Nella primavera del sesto anno, un arrivo inaspettato la costringe a riconsiderare tutto ciò che credeva vero e a impugnare di nuovo le armi.

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I will call them my people

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I will call them my people, which were not my people; and her beloved, which was not beloved.

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"Vi aiuterò, se voi aprirete il bunker."

Hyp è raggomitolato sulla sua spalla e non riesce a distogliere lo sguardo dal daimon di Diyoza.

Clarke non può biasimarlo. Anche lei sta avendo problemi di concentrazione. È un armadillo. È la prima volta che ne vede uno. La sua corazza scintilla come ferro di spada nella penombra, un baluginio di pericolo che invita alla cautela. 

L'espressione di Diyoza è impenetrabile quanto le scaglie della sua anima. "Perché dovrei assecondare la tua richiesta?"

È una domanda legittima, ciò nonostante prova una scintilla di noia. Due apocalissi e ancora le vecchie domande, il solito egoismo congenito e l'istinto di preservazione destinato unicamente ai propri simili.

"Siamo tutto ciò che resta della razza umana," risponde, cercando di tenere a bada il livore che prova, il desiderio di dirle che questa è la mia casa. Queste sono le mie regole. Prendere o lasciare. Si morde la lingua. Lei ha bisogno di Diyoza più di quanto Diyoza abbia bisogno di lei. Lo sanno entrambe ed è inutile girarci attorno.

"Non voglio che mia figlia cresca nel vecchio mondo. Do tu des. Ci stai?"

Le tende la mano.

I secondi si trasformano in un minuto. Nessuna delle due batte ciglio, muove un muscolo. In piedi accanto a Diyoza, Shaw e il suo daimon-cornacchia si agitano inquieti.

Alla fine Diyoza le porge la sua per stringerla. La presa è forte e ferma, così come lo è la sua voce mentre elenca con funzionale praticità le sue condizioni. "Voglio una mappa della Valle. Voglio che venga ripartita equamente prima di aprire quel maledetto bunker."

Clarke annuisce. La coda di Hyp smette di battere nervosamente contro la sua schiena.

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Il pulviscolo riempie il suo campo visivo, ma non le impedisce di vedere oltre.

Non importa quanti anni siano trascorsi, Atalanta rimane la cosa più colorata su cui abbia mai posato lo sguardo. La testolina blu cobalto, la gola rossa, la coda purpurea e il piumaggio del resto del corpo di quel verde petrolio vibrante.

Ricorda un altro giorno. Una porta aperta sull'ignoto e poi l'esplosione sensoriale. L'aria satura degli odori della foresta e le grida di giubilo di cento adolescenti che scoprivano per la prima volta cosa significhi respirare a pieni polmoni senza sentirsi in colpa. L'euforia di chi assaggia per la prima volta la libertà di essere sé stesso.

La nostalgia dei vecchi giorni alla Navicella è così acuta che potrebbe piangere.

Hyp strofina la testa contro il suo collo in un gesto che è in parte conforto e in parte ammonimento. Giusto. Non è il momento di lasciarsi andare a un viaggio nei ricordi. Clarke fa un passo in avanti per uscire dalla polvere e dalla luce che entrano a fiotti dallo squarcio nel soffitto da cui si è appena calata.

La regina-guerriera che le va incontro non assomiglia alla ragazza del passato. Sembra un'immagine strappata da un racconto mitologico. Come Pentesilea, la regina delle Amazzoni.

"Octavia," dice. La vede battere le palpebre, ancora quell'espressione frastornata, come se stesse avendo difficoltà a ricordarsi dell'esistenza del sole, come se si stesse risvegliando dall'orrore di un lungo incubo. Metà del volto è coperto da pittura tribale, come un tatuaggio che inneggia all'ostinazione di chi non ha ceduto e non è mai caduto, che esorta alla violenza.

"Clarke?" Gracchia. Anche la sua voce è diversa. Aspra, rauca. Come se avesse trascorso gli ultimi anni ad urlare così forte da riempirsi di sangue le corde vocali. Riconosce facilmente i sintomi. Sa cosa si prova. "Dov'è mio fratello?"

Clarke deglutisce a vuoto. Improvvisamente le sembra di essere finita in una tempesta di sabbia. "Mi dispiace."

Octavia sembra capire. Strizza gli occhi che per una frazione di secondo esprimono la stessa sofferenza che le trafigge il petto a ondate regolari da sei anni a questa parte.  Non è più semplicemente il dolore prolungato di un'amputazione, di un arto fantasma. È lutto. È già pronta a vedere quel dolore esplodere, trasformato in qualcosa di potente, mutato in rabbia, e a diventare rosso sangue come la vendetta.

Clarke non aggiunge altro. Octavia non glielo permette. Quando la abbraccia, muscoli d'acciaio e pura forza, si sente una ladra. Sta rubando il momento di qualcun altro. Non è a lei che dovrebbe essere diretta questa gioia indomabile. "Sono felice che almeno tu sia qui."

La riunione è di breve durata. Diyoza scende insieme a McCreary e Clarke la osserva attentamente mentre parla con Octavia. Studia le loro reazioni.

Hyp le fa notare le incrostazioni di sangue sul pavimento, le grate di ferro, il trono nell'angolo e sbagliato, le sussurra all'orecchio. Sempre la voce della ragione. C'è qualcosa di orribile e sbagliato. Respiri anche tu la paura?

Quando Diyoza domanda quante persone salveranno, Octavia risponde prima che lei possa aprire bocca. "Settecentoquarantadue."

Diyoza non batte ciglio, nonostante il numero sia decisamente inferiore rispetto a quello preventivato. "Possiamo portarne due alla volta." Già operativa, si volta per rivolgersi alla folla che osserva da dietro le grate, immobile e in silenzio. Troppo immobile, troppo in silenzio.

"Non ancora," lei interviene, superando la sensazione di malessere e freddo che le si è incuneata nelle ossa. Entrambe le donne si voltano a osservarla e non sa cosa sia peggio, se l'acciglio di Diyoza o l'inespressività di Octavia.

Clarke si avvicina all'ultima, conscia degli sguardi riottosi del gruppo di guardie che circondano Octavia, di quelli della folla che seguono ogni sua mossa. Si china in avanti in modo che sia l'unica a sentire. "Mandali via,” sussurra. “Dobbiamo parlare."

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"La Valle è nostra. Ci spetta di diritto."

"Perché? Pensi che essendo arrivati qui prima, tu possa arrogarti il diritto di precedenza?"

"Così non va," dice Hyp. Lei non potrebbe essere più d'accordo.

"Smettetela," ordina seccamente. "Diyoza, dammi un attimo da sola con lei."

Anche una volta che la porta si richiude, l'espressione belligerante sul viso affilato di Octavia non subisce mutamenti.

"Cosa vuoi, Clarke?" Atalanta le vola incontro, la sua voce un tempo trillante ora ha un suono acuto e tagliente simile a un fischio. "Non hai alcun potere qui."

"No, ma voi l'avete," lei risponde senza la minima esitazione. Sta iniziando a riconoscere la minaccia pendente nello sguardo di Octavia. Sa cosa vuol dire e le spezza il cuore. È il senso di colpa del sopravvissuto, la vergogna mista al rimorso. "Non so cosa vi sia successo in questi anni. Posso immaginarlo. Ci sono passata anch'io. Portiamo il fardello perché non debbano portarlo loro."

Le ciglia di Octavia fremono come ali palpitanti, come le piume di Atalanta. Creano ombre inquiete sui suoi zigomi pronunciati. Evidenziano brutalmente l'estrema magrezza e gettano una luce drammatica su quale, esattamente, possa essere stata la sua scelta impossibile.

"Qualunque scelta tu sia stata costretta a prendere, per quanto orribile sia stata, era necessaria e vi ha permesso di sopravvivere."

Atalanta svolazza vicino alla guancia di Octavia che in risposta fa una smorfia. "Quattrocentocinquantotto morti."

I soliti Blake. Nonostante le differenze, è sempre incredibile notare quanto si somiglino. Il pensiero non ha la solita esasperata tenerezza. Al contrario la riempie di rammarico, di pungente tristezza.

"Settecento ancora vivi," replica Hyp al suo posto quando la sua assenza di risposta sta diventando palese. La sua coda le si attorciglia attorno al collo in una carezza di conforto e parte dell'agonia ritorna ad essere sopportabile, retrocede come la risacca.

"Non capisci.” L’allarme con cui la guarda è anche dubbio tormentoso. L’angoscia di Octavia è la stessa che l’ha perseguitata per mesi prima di incontrare Madi. Unica superstite in un mondo di cenere e incombente minaccia. Ricorda la paura e la pietà per sé stessa, l’oppressione e il delirio del mondo intero esacerbati dalla solitudine. “Se non ho quella Valle, cosa avrò ottenuto? A cosa è servito tutto quello che ho fatto?”

Clarke sente le parole che non ha pronunciato. Cosa mi rimane? Oltre il rimpianto e il cordoglio? Oltre l’orrore di ciò che sono stata costretta a fare, di cosa sono diventata?

Al che lei vorrebbe rispondere: hai me. Ti rimango io.

Sa che non sarebbe sufficiente. Lui sarebbe bastato, forse. La sua presenza sarebbe stata sufficiente a risvegliare una scintilla di umanità. Nel suo caso, invece, sa bene di non avere questa influenza. 

E nonostante tutto, non c’è nulla di sbagliato nel provare. Fa un passo in avanti e vede Hyp fare altrettanto, accostarsi a Octavia e muovere la coda come se volesse accoccolarsi contro di lei.

“È servito a farti arrivare fin qui, ti ha portato ad oggi. Esattamente a questo. Fai la scelta giusta. Dimentica il passato. Possiamo vivere in pace. Queste persone non sono una minaccia se tu non le rendi tali.”

Aspetta e osserva con il fiato sospeso la donna e il daimon che ha di fronte. Lo sguardo intenso che Octavia e Atalanta si scambiano le fa provare un brivido di speranza. Forse possono ancora trovare una soluzione, un compromesso. Forse-   

“Non sono come te,” dice Octavia e la speranza di Clarke arde come un sempreverde divorato dalle fiamme dell’Inferno. “Non rinnegherò chi sono solo perché è conveniente. Avrò quella Valle e se non sei con me allora sei contro di me. Sei un tutt'uno con Wronku o sei un nemico del Wronku. Scegli.”

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Diyoza la squadra da capo a piedi, a braccia incrociate. “Deduco che non sia andata come avevi sperato,” commenta.

Clarke non sa se ridere o piangere. “È un eufemismo.”

“Ho bisogno di sapere da che parte stai, Wanheda.”

Wanheda. Il passato che torna a bussare. Chiude gli occhi e sospira, ma è come gettare sale su una ferita che non si è mai cicatrizzata. “Le notizie viaggiano veloci.”

“Solo se sei abbastanza sveglio da separare le utili dal ciarpame. Dal poco che ho potuto osservare, sembri l'unica che non brama la guerra. Mi dispiacerebbe essere costretta a rendere tua figlia un’orfana. Te lo chiederò un'altra volta. Da che parte stai?”

Clarke ripensa all’ostilità di Octavia. Non può fingere di non vedere la verità che è alla luce del sole, ignorare la sua smania feroce di vendetta contro la crudeltà che il mondo le ha scagliato contro da quando è nata.

“Dalla parte di chi sceglie la pace.”

Diyoza non distoglie lo sguardo dal suo. C’è recalcitrante approvazione, un invito al cameratismo che Clarke non si sente ancora pronta ad accettare. “Ti avevo promesso che avrei aperto il bunker. Ho mantenuto la mia parte dell'accordo. Ora tocca a te fare la tua.”

È giusto. Clarke annuisce. “Parlerò con mia madre.”

“E la tua amica? Non sembra propensa a trovare un punto d'accordo.”

Il respiro di Hyp è irregolare e sente il corpo del suo daimon contorcersi sotto la giacca di pelle come se fosse in preda agli spasmi. L’incontro con Octavia li ha scossi più di quanto entrambi siano pronti ad ammettere. “Ho già un piano per quello.” Non sa ancora se è pronta a fare il necessario per portarlo a compimento, ma è una preoccupazione per dopo.

Ovviamente Diyoza è lesta a cogliere la sua esitazione. “Ucciderla sarebbe la soluzione più veloce. Entrambe abbiamo visto abbastanza campi di battaglia da sapere che la solfa che ogni vita ha valore è una favoletta. Una vita in cambio di quelle di centinaia vale un po' di cinismo e una coscienza sporca.”

Lo sarebbe, è vero.

“Tieni a lei,” dice Diyoza. “Più di quanto tu tenga agli altri. Perché?”

Le risposte potrebbero essere molteplici. Senso di colpa. Non si è mai perdonata per averla abbandonata fuori dal bunker. Affetto. Malgrado gli screzi, Octavia rimane parte della sua famiglia. In ultimo, quello che ha il sopravvento è-

“Conoscevo suo fratello.” Un altro spasmo. Invece di emettere un guaito, Hyp affonda i canini nella sua spalla. La fitta di sofferenza che la trafigge in quel punto è qualcosa di accettabile e preferibile al dolore che le trancia il petto. “Se fosse qui farebbe tutto ciò che è in suo potere per proteggerla. Mia sorella, una mia responsabilità, è quello che diceva.”

I suoi occhi sono asciutti, ma devono lasciare trapelare più di quello che preferirebbe. La comprensione di Diyoza non è condiscendenza, ma l’empatia che Octavia sembra impossibilitata a provare.  

“Ammirabile, lo ammetto. Ma sai cos'altro è il tuo amico? Non è qui. Il resto di noi lo è e siamo noi a dover fare i conti con lei. Hai fatto la tua scelta?”

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“Natrona.”

Hyp sta ringhiando e Clarke si chiede come siano arrivate a questo punto. Antagoniste invece che alleate. Su fronti opposti di una guerra inutile che avrebbe potuto concludersi senza alcuno spargimento di sangue. Peggio ancora, che avrebbero potuto evitare sin dall’inizio se solo Octavia fosse stata meno orgogliosa e accecata dalla sua stessa ingordigia. Consumata com’è dal potere.   

Forse lo è. Forse Octavia ha ragione e Clarke è davvero la traditrice che la accusa di essere.

Ripensa a Madi, costretta nella stessa fossa di combattimento in cui si trova ora lei. Ripensa a Diyoza, alla protuberanza che la giacca servirà a nascondere ancora per poco. Ripensa a sua madre, perseguitata dal fantasma di Kane come lei lo è dai fantasmi degli amici che ha perso nel Praimfaya, la sua seconda famiglia. Ci sono persone che non è più disposta a perdere e se per tenerle al sicuro essere considerata una traditrice dalla sua stessa gente è l’unica arma nel suo arsenale, allora così sia.   

“No, non lo sono. Tu lo sei,” dice e raccoglie la spada che le è stata lanciata dalle tribune.

Quando Octavia le si avventa contro, Clarke reagisce. Non per colpire o contrattaccare, ma in difesa. Viso contro viso, la lama dell’una puntata alla gola dell’altra, cerca di non pensare a Bellamy, a quello che penserebbe di lei vedendola impugnare un’arma contro sua sorella.

“Stai anteponendo i tuoi interessi al bene collettivo. Possiamo ancora avere la pace. Potremmo, se tu fossi disposta a cedere il potere. La tua parola non è più legge. Gli anni bui sono finiti.”

Octavia si divincola dalla presa con un grido di miseria e disperazione, quello di un leone ferito. Un altro attacco, questa volta più violento di quelli che l’hanno preceduto, reso spietato dalla forza brutale e dalla frustrazione.

A Clarke non resta che continuare a bloccare, schivare e parare la furia del suo assalto, aspettando una breccia. Il suo obiettivo è incapacitarla, anche se è una strategia rischiosa. Octavia non è più la ragazza di un tempo e sei anni di pace hanno trasformato il suo corpo in qualcosa di diverso dalla macchina letale che invece è rimasto quello di Octavia.

È fortuna sfacciata e un colpo andato a segno a decretare la fine del combattimento. Mentre la spada di Octavia le affonda nel fianco, Hyp si scaglia contro Octavia che, presa alla sprovvista, allenta la presa attorno all’elsa. È tutto ciò di cui lei ha bisogno. Clarke è già in ginocchio, le basta muovere la gamba per sbilanciarla quel tanto che basta a farla ribaltare e cadere. Atalanta vola verso di lei, ma Hyp è più veloce e la trattiene.

Con uno sforzo sovrumano si alza, afferra la sua spada e la getta lontano da entrambe. Non è così ingenua da credere che Octavia sia pronta a riconoscere la sconfitta. Non estrae la spada di Octavia. È pazza, ma non fino a questo punto. Il dolore al fianco è atroce e le annebbia la vista, ma Clarke ha provato di peggio. Tenendola bloccata con una mano, si rivolge alle persone accalcate dietro le grate di ferro. “Ascoltatemi, non deve per forza andare in questo modo! La guerra può essere evitata! Non è l'unica scelta!”

La sua voce è stentorea nel silenzio tombale. L’odio e la rabbia negli occhi di Octavia sono evidenti.

Prima di accorgersi di loro, lo sente.

L’improvviso silenzio di centinaia di persone che trattengono il respiro come di fronte a qualcosa di miracoloso e l’odio di Octavia che non era diretto a lei, non soltanto almeno.

Un titolo onorifico che sperava di non ascoltare mai più, esattamente come il suo.

Heda.”

Basajaun si fa largo nell’arena di combattimento e tutti i daimon degli astanti si inchinano al suo passaggio come di fronte al signore dei boschi. L’orrore e la sorpresa scalzano il dolore quando Clarke se ne accorge. Bas ha assunto la sua forma definitiva. Non è un cervo come il daimon di Lexa, ma qualcosa di altrettanto imponente e regale. Un kudu, il manto grigio-blu e il corpo possente come quello di un bufalo, con un palco di corna maestose lunghe almeno mezzo metro.

“Madi, no. Cosa hai fatto?”

Madi, la sua piccola natblida, la osserva con gli occhi del passato, quelli di qualcuno a cui lei ha detto addio molte vite fa: occhi resi intensi da ciglia lunghissime nel contorno di una maschera da guerriera. “Quello che avresti fatto tu se avessi potuto. Ho fatto quello che andava fatto.” Il suo sguardo la supera per concentrarsi su Octavia e la sua espressione si indurisce. “Il mio popolo, una mia responsabilità.”

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Diyoza la affianca, la postura da soldato e le braccia immobili contro i fianchi, ma Clarke sa che se fossero sole le passerebbe protettivamente attorno al grembo.

Insieme osservano la scena sottostante: l’incoronazione di una regina-bambina.

Clarke continua a respirare nonostante il crepacuore. Si tiene l’addome bendato come se fosse quello la causa del dolore che sta provando. I singulti di Hyp non sono altrettanto silenziosi.

“La ascolteranno?” domanda Diyoza.

“In lei risiedono le coscienze dei Comandanti che l'hanno preceduta. La ascolteranno,” dice come una promessa. In realtà è una preghiera. “Per loro è un atto di fede.”

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“Abbiamo un problema.”

Qual è la novità, borbotta Hyp e Clarke ricaccia dentro di sé una risata amara. Sono sull’orlo di un precipizio, ad un passo dall’ennesima e insensata guerra per il dominio dell’ultimo scampolo di vita sul pianeta e la stanchezza la sta consumando come un fuoco impossibile da spegnere.

Diyoza ha smesso di parlare. Non importa. Clarke ha capito quanto basta.  McCreary non ha mantenuto l’accordo. Di fronte a un potenziale attacco missilistico non ci vorrà molto prima che Madi si senta costretta a impugnare le armi e a scendere sul campo di battaglia. Sua figlia può essere una pacifista, ma ha reso chiaro di essere una ferma sostenitrice della legge del taglione. È categorica, giusta, senza alcuna misericordia verso coloro che sono stati giudicati immeritevoli di riceverla. 

“Mia madre?” domanda, anche se conosce già la risposta. Le carte sono sempre contro di lei.

“Ostaggio di McCreary,” risponde Diyoza prevedibilmente.

“Pensi che Shaw cederà?”

Zeke conosce i rischi di sbloccare i codici di lancio del missile. Tuttavia, malgrado la spavalderia, è un uomo buono. In questo frangente potrebbe rappresentare la rovina di tutti loro.

“Potrebbe, se torturassero Abby di fronte a lui.”

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“Dimmi che hai un piano,” dice Hyp nel marasma generale.  

“È rischioso,” dice Clarke.

Hyp le mostra il suo ghigno ringhiante. “Quando mai non lo è?”

Clarke non dovrebbe ridere, ma non riesce a trattenersi.

Diyoza e il suo daimon li guardano come se fossero impazziti. Forse lo sono. Forse lo sono sempre stati. La verità è che lei e Hyp sanno, statisticamente parlando, che questi sono i pochi momenti di sanità mentale, rare tregue tra una catastrofe e l’altra.

“Perciò è guerra?” domanda la donna e questa volta la preoccupazione è tale che non bada a celare l’abbraccio protettivo con cui si stringe il basso ventre.

Clarke vorrebbe che le cose fossero andate diversamente. Vorrebbe avere il poter di tornare indietro nel tempo e ricominciare daccapo. Si chiede dove abbia sbagliato di preciso. Quale concatenazione di eventi abbia portato a questo epilogo. Cosa avrebbe dovuto fare per non arrivare a questo punto di non ritorno.

Più di ogni altra cosa, vorrebbe guardare la donna che le è di fronte e darle una risposta diversa. Le circostanze esulano dalla sua volontà ed è con la morte nel cuore che risponde: “È guerra.”

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Il risultato dell’impasse in cui si trovano può solo sfociare in risultati drammatici.

Clarke cerca lo sguardo di sua madre e lo trova un attimo prima della fine. Diyoza ha la pistola puntata contro il suo ventre e gli occhi iniettati di sangue di McCreary la osservano come se fosse la prima volta che la vedono davvero, come se stessero mettendo a fuoco il mondo per la prima volta da tempo immemore. Quando si accorge di Shaw è troppo tardi. Due colpi partono, sparati contemporaneamente. McCreary muore sul colpo. Sua madre no.

Mentre Diyoza ordina a Shaw di arrestare il conto alla rovescia, Clarke corre al capezzale di sua madre. Una sola occhiata alla ferita le basta per sapere che non c'è nulla da fare.

Il piumaggio blu di Cassiel è già tinto di rosso e il sangue non accenna a fermarsi.

Non riesce a respirare. Non riesce a parlare. Non riesce neppure a formulare un pensiero coerente oltre al fatto che non può perdere anche lei, non così, non dopo che l’ha appena ritrovata.

Abby allunga una mano tremante verso il suo viso. Clarke la stringe tra le sue. Non è la donna confusa dalle droghe delle ultime settimane, ma la madre che ricorda: amorevole, audace e forte. "Sei stata brava," sussurra e il suo respiro è rantolante, ha il rumore umido del sangue che deve averle riempito i polmoni. Parlare deve essere un'agonia. "Sono così fiera di te, Clarke. Così fiera."

Non lasciarmi. Non posso perdere anche te.

Il verso che emette non è umano. Non proviene da lei. Hyp guaisce un'altra volta. Qualcosa dentro di lei si spezza mentre la luce abbandona gli occhi di sua madre e Cassiel ritorna ad essere Polvere.

Continua ad abbracciare il suo corpo senza vita per un tempo che le pare incalcolabile con Hyp raggomitolato tra di loro, impietrito.

"Clarke." La voce di Diyoza è imperiosa, ma serba una traccia simpatetica. La raggiunge nella foschia del cordoglio. "Devi alzarti. So che adesso ti sembra impossibile, ma lo supererai."

Tutto in lei rigetta l'idea. (Verrà un momento, un paio di anni più tardi, una sera di disperazione e rabbiosa impotenza spesa a bere liquore di pessima qualità distillato dalla resina degli alberi, in cui Diyoza le racconterà la verità dietro la cicatrice che le marchia la gola. Verrà il giorno in cui la donna che le sta di fronte sarà per lei una compagna, amica e alleata, in cui riempirà un vuoto che Clarke si era convinta che nessuno mai sarebbe stato più capace di riempire. Quel giorno non è oggi.)

Quando si sente afferrare per il gomito, sussulta e poi Shaw stravolge il suo mondo un'altra volta, facendo tremare il terreno sotto i suoi piedi. "Si tratta di Madi. C'è stato un problema al villaggio."

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Dopo che la capsula è sigillata, Clarke crolla sulle ginocchia, cercando di tenere insieme i pezzi di sé stessa.

Il dolore che la attraversa supera di gran lunga qualsiasi ferita da battaglia le sia mai stata inferta. È come attraversare il Praimfaya. Essere trafitta da mille lame di vetro nelle dune del deserto. Perdere suo padre, Wells, Finn, Lexa, Bellamy, sua madre tutto daccapo.

Poi lo sente. Come un sussulto dentro di lei, una contrattura nello spazio. Sbatte le palpebre e oltre il velo delle lacrime, la realtà si fa largo dentro di lei come un uragano. Per un lungo, terribile istante Hyperion sembra essere fatto interamente di luce. No, è inesatto. La luce filtra come tra le fenditure in una roccia.

Quando la luce si ritrae, la Polvere si ricompatta nella figura di un corpo massiccio di crepuscolo e ombra.

“Mai più,” lui dice. Suona come un giuramento, sacro e indissolubile ed eterno.

Anche la sua voce è cambiata. È più profonda. Cavernosa. Come l'abisso che sono stati costretti ad attraversare innumerevoli volte per risalire in superfice.

La lacerazione dentro di lei si richiude, forgiata nel fuoco come il metallo più resistente, temprata nella perdita e in un lutto di troppo.

Mai più.

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Ore, giorni, mesi più tardi, rannicchiata contro la nuova forma di Hyp, nella sua mente le appare tutto fin troppo chiaramente.

Clarke pensa a quanto strano sia il destino. Dacché ha memoria, è sempre stata abituata al peso del corpo del suo daimon contro il suo. Corpi di piccole dimensioni, anche prima che si stabilizzasse nella sua forma definitiva. A differenza dei terrestri, i cui daimon tendono ad essere imponenti e robusti, tutti i daimon sull’Arca hanno sempre scelto forme che non occupassero troppo spazio dal momento che lo spazio vitale era già così limitato.

È strano rendersi conto che la sua anima sia diventata tanto più grande di lei. Tuttavia ha anche senso, pensa. È profondamente conscia del vuoto che contiene e che non può essere colmato. Adesso guardare negli occhi di Hyp, per quanto confortante rimanga, è diventato anche sopportare il buio della sua anima, accettare il peso delle sue fragilità e della sua inadeguatezza.

Lui sembra leggerle dentro come sempre. “Siamo qualcosa di più delle cicatrici che ci portiamo addosso,” dice. “Siamo sopravvissuti.”

Allora perché si sente morire?

Clarke nasconde il viso nella sua pelliccia biondo rossiccia e se anche le sue guance sono striate, non c’è nessuno a farglielo notare. “Lo credi davvero?”

Hyp le lecca una guancia finché non c’è più traccia di lacrime. I suoi occhi giallo dorati riflettono il cielo stellato. “Devo.”

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N/a:

Ricordo quando ho iniziato a scrivere questa storia. È stato anni fa e l'eccitazione dell'uscita dell'ultima stagione mi aveva riempito la mente delle idee più straordinarie e stravaganti. Poi ho visto la settima stagione, o meglio ho iniziato, e quell'eccitazione è stata spazzata via brutalmente.

È rimasta a prendere polvere per molto tempo sul mio pc. Non so cosa mia abbia spinto a riprenderla in mano. Forse semplicemente la nostalgia o il desiderio egoistico di farle vedere la luce del sole, di non lasciarla incompleta.

Questa è solo la prima parte. Il secondo capitolo è raccontato dal punto di vista di Bellamy ed è praticamente abbozzato. L'idea di raccontare la storia lasciando trapelare le emozioni dei personaggi attraverso le reazioni dei loro daimon era così attraente, anche se è stato più difficile metterla in esecuzione di quanto avessi inizialmente preventivato. E nonostante tutto ciò eccomi qui, con qualcosa che spero sia quantomeno passabile e che vi abbia trasmesso un'emozione di qualche sorta. Spero di arrivare presto con il secondo capitolo, nel frattempo vi mando un abbraccio e se posso permettermi, consiglio calorosamente e caldamente a chi fosse interessato al genere dell'animazione di correre a vedere NIMONA (nel caso in cui la mia icona non avesse reso chiaro che questo film è la mia ultima e più recente ossessione LOL).

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Daimon (forme/nomi):

Clarke > Hyperion/prima un ermellino e poi una lince

Octavia > Atalanta/un colibrì

Madi > Basajaun/un kudu

Diyoza >un armadillo

Abby >Cassiel/una ghiandaia azzurra

  
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