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Autore: Star_Rover    10/07/2023    3 recensioni
Guadalcanal, 1942.
Dopo mesi di estenuanti combattimenti su un’isola ostile e selvaggia, i marines abbandonati a se stessi hanno ormai perso la speranza.
Durante una missione notturna, il soldato scelto Phil Larkin si addentra solo nella giungla.
Circondato dal nemico e tormentato da deliri febbrili, Phil si abbandona a una forza misteriosa che risveglia i più profondi istinti primordiali.
Genere: Azione, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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paige95, che mi ha invogliata a scrivere una storia con protagonista un marine^^

 
Il cerchio rosso
 
Questa è la parte più primitiva del mondo.
- Jack London, a riguardo delle Isole Salomone.
 
Mesi di guerra moderna nella giungla primitiva avevano strappato loro di dosso ogni bardatura di civiltà storicamente evoluta e li avevano lasciati di nuovo nudi e tremanti alla mercé di un dio sconosciuto.
- Robert Leckie (1st Marine Division)

 

 
L’allarme antiaereo fece scappare i Cuccioli [1] nelle loro buche. I marines invece, che ormai sopravvivevano da mesi su quell’isola, rimasero tranquillamente sulla spiaggia, sdraiati sulla sabbia per riposare, o appollaiati sui tronchi caduti per bere dalle noci di cocco.
Quando una ventina di Bettie scortati dagli Zero sorvolarono la costa nessuno di loro si preoccupò. Restarono ad osservare il cielo rabbuiarsi, poi il terreno iniziò a tremare.
Grida di bellica esaltazione invasero la spiaggia, alternandosi ai lamenti e alle urla di terrore che giungevano dalla boscaglia.
«Wow, meglio del quattro luglio!» affermò qualcuno con vivo entusiasmo.
«Ma dove diamine è finita la Cactus? [2] Volevo divertirmi un po’!» si lamentò un altro, deluso per la mancanza di emozionanti scontri ad alta quota.
«Tranquillo quando torneranno indietro quei bastardi troveranno una bella sorpresa!»
Phil Larkin bevve fino all’ultima goccia dal dolce frutto delle palme del Lunga. Dissetarsi era diventato un problema, al fiume si rischiava di ammalarsi di dissenteria, mentre nella foresta ogni pozza poteva essere avvelenata dal nemico.
Phil gettò via la noce di cocco e si rimise il fucile in spalla, il suo turno di guardia stava per iniziare.
Lungo la strada si imbatté in un novellino rannicchiato nella sua buca, pallido e tremante. Ritrovato un po’ di coraggio, il soldatino riemerse timidamente in superficie.
Il marine gli rivolse un sorriso sghembo.
Il Cucciolo rimase in silenzio, ancora atterrito dall’eco delle bombe.
Phil lo guardò in volto, non poteva avere più di diciotto anni. Avrebbe potuto essere suo fratello, che in quel momento si trovava dall’altra parte del mondo a combattere i nazisti.
Al ricordo del fratello Phil si intenerì e fu buono nei confronti di quel giovane.
«Non bombardano mai la spiaggia» disse semplicemente. Poi voltò le spalle e lasciò il novellino ad affrontare la sua paura.
 
Era trascorsa più di un’ora dall’incursione nemica sull’isola quando Larkin avvertì il rumore dei motori. Sollevò il naso all’insù, tra le nubi un Wildcat era impegnato in una spietata battaglia contro due Zero.
Phil si portò una mano alla fronte per ripararsi dal sole ed osservare meglio lo svolgimento dello scontro.
Il Wildcat si gettò in picchiata per superare gli avversari in velocità. All’improvviso effettuò una brusca virata e tornò all’attacco. Dopo qualche acrobazia il pilota americano si portò alla coda di uno Zero, lo seguì oscillando per ridurre la distanza, alla fine premette il bottone delle mitragliatrici. I colpi furono diretti e precisi, lo Zero esplose con un botto, disperdendo frammenti metallici con una pioggia di detriti.
Il Wildcat era già pronto a sforacchiare le ali dell’altro avversario, ma nel momento cruciale rimase senza munizioni. Il pilota non si arrese, imperterrito, continuò l’inseguimento. I due velivoli danzarono in aria per la gioia e la meraviglia dei marines, che a terra si godevano uno spettacolo di giri della morte e voli rovesciati.
Finalmente il caccia americano riuscì a colpire con la sua elica la coda del nemico. Lo Zero si sfasciò precipitando nel vuoto.
Phil non fu sorpreso nel non vedere la nuvola di seta volteggiare in aria, il loro nemico preferiva affrontare la morte piuttosto che sopravvivere all’infamante sconfitta.
Anche il Wildcat stava cadendo a tutta velocità in una ripida picchiata verticale. Larkin intuì che il velivolo si sarebbe schiantato nel boschetto di palme.
Il pilota era ancora bloccato all’interno del suo apparecchio. Phil pensò che sarebbe stato terribile per un americano fare la fine di un kamikaze.
Improvvisamente lo sportello di salvataggio cedette, il pilota aprì il paracadute appena in tempo per non sfracellarsi sulla baia argentata, fu trasportato dal vento e atterrò bruscamente sulla spiaggia.
Larkin fu uno dei primi a soccorrere l’eroico aviatore. Se quell’uomo credeva di essere appena scampato alla morte, probabilmente cambiò idea nel momento in cui Phil gli diede la sua accoglienza a Guadalcanal.
«Benvenuto all’inferno»
 
Tra i dannati di Guadalcanal c’era anche chi ormai aveva perso il senno. Era facile riconoscerli, alcuni se ne stavano sempre muti con lo sguardo perso nel vuoto, altri ti guardavano dritto negli occhi con i loro sguardi indemoniati, a volte ridevano, oppure sputavano bestemmie o altre oscenità. Ma in fondo, chi non era impazzito in quella guerra?
Phil non si faceva troppe domande, così come gli aveva suggerito il sergente Allen. Dovevano uccidere giapponesi, e chi si era fottuto il cervello era dannatamente bravo in questo.
Colson non era pazzo, ma avido. Per questo non dimenticava mai il suo coltello per squarciare le mandibole dei nemici, il suo sacco di denti d’oro diventava sempre più pesante.
Phil dubitava che Colson pensasse di diventare ricco, nessuno credeva davvero di sopravvivere alla guerra. Quel macabro passatempo però teneva impegnati, per alcuni era diventato persino divertente.
Larkin non aveva mai pensato ai trofei di guerra, soltanto una volta aveva rubato una pistola giapponese da un cadavere. Era stato un gesto impulsivo, per provare il brivido del barbaro saccheggio. Tornato sulla spiaggia, aveva subito scambiato il suo souvenir nipponico per dei barattoli di ciliegie appartenenti all’Esercito americano. Non si era affatto pentito di questo.
 
Al crepuscolo Phil si distese sulla sabbia, fumando la sua ultima Lucky Strike ed osservando l’orizzonte. La marina statunitense si era ritirata, erano rimasti soli, abbandonati su quell’isola maledetta.
Dunque era questa la verità? I marines erano pedine sacrificabili sulla grande scacchiera della guerra?
In fondo, a chi poteva importare di quell’insignificante isola nei Mari del Sud?  Prima di salpare dalla Nuova Zelanda, nessuno di loro aveva mai sentito parlare di un posto chiamato Guadalcanal.   
Phil era immerso in questi pensieri quando ad un tratto qualcuno poggiò una mano sulla sua spalla.
Subito riconobbe il tocco deciso di Lew.
«Hey Phil, tutto bene?» 
Egli sollevò leggermente lo sguardo, limitandosi ad annuire in silenzio.  
«Ti è passata la febbre?»
«Credo di sì, mi sento meglio»
«Devi andare dal Doc a farti dare un’occhiata» disse l’amico con tono severo.
L’altro scosse la testa: «in ogni caso non potrebbe fare nulla»
«Sono solo preoccupato per te» 
«Sono ancora in grado di combattere. Questa è l’unica cosa importante» fu la pragmatica risposta.
Lew fu costretto a rinunciare, ormai conosceva bene il suo compagno, sapeva di non poter far altro che fidarsi di lui. Inevitabilmente ripensò a quando si erano conosciuti al campo di addestramento. Phil era un giovanotto di buona famiglia, studiava letteratura al college e giocava a baseball.
Lew si rattristò nel pensare a come era Larkin prima della guerra. Quei mesi a Guadalcanal avevano trasformato un giovane aitante e muscoloso in uno scheletro ambulante, con il viso scavato dalla fame e gli occhi spenti.   
Phil non scriveva più, impugnava il fucile e sparava ai giapponesi. Questo era ciò per cui era stato addestrato, questo era l’unico motivo per cui si trovava lì.
Lew si riprese da quei pensieri e mestamente tornò alla sua postazione.
Larkin si rialzò in piedi e recuperò la pala, le trincee non erano mai abbastanza profonde.  
 
Quella notte Phil uscì in pattuglia con la sua squadra. I marines si muovevano cautamente nella foresta, prestando attenzione ad ogni rumore. L’eco della giungla era misterioso e inquietante, il nemico avrebbe potuto nascondersi ovunque.  I giapponesi non erano l’unico pericolo a Guadalcanal, oltre a innumerevoli malattie c’erano anche animali feroci, se i marinai temevano gli squali come gli aviatori che conservavano capsule di clorina [3], a terra erano i coccodrilli a bramare la carne umana.
Phil aveva sentito decine di storie riguardanti la morte sull’isola, e l’esperienza gli aveva confermato che la maggior parte dovevano essere vere. Non stentava a credere anche alle vecchie leggende, secondo cui quelle terre erano abitate da indigeni cannibali. Era come una maledizione, la giungla di Guadalcanal era crudele e spietata, chiunque vi si addentrava veniva contagiato dallo stesso veleno. 
Un lampo irruppe nell’oscurità, il temporale scoppiò poco dopo. La pioggia tropicale era una cascata, nemmeno la fitta vegetazione poteva fornire un riparo. I vestiti si inzuppavano, appesantendo il carico dei soldati e affaticando la lenta marcia.
Gli americani affondavano gli stivali nel fango, con i piedi martoriati e sanguinanti, mentre l’umidità penetrava nelle ossa e la rogna da fungo degradava la carne in putrefazione.
Addentrandosi nella giungla i soldati furono asfissiati dal tanfo che risaliva dalle paludi. Felci e orchidee ostacolavano il passaggio, enormi radici spuntavano dal terreno. 
Phil si fermò all’improvviso, avvertì la testa pesante, le gambe cedettero e fu costretto a poggiarsi al tronco di un albero.
Il giovane tentò di reprimere l’intensa sensazione di nausea che aveva iniziato a diffondersi nel suo corpo. La vista si annebbiò e intorno a lui faticò a distinguere le sagome dei suoi compagni tra le fronde.
Era certo che sarebbe svenuto, ma riuscì a trovare la forza di restare in piedi. Lentamente mosse un passo dopo l’altro, inghiottito dal pantano. Non era la prima volta che veniva colpito da una crisi improvvisa, le sue condizioni però stavano peggiorando.
«Larkin! Forza, dobbiamo muoverci!»
La voce di Skinny lo riportò alla realtà, la forza di volontà riuscì ancora una volta a prevalere sulla debolezza fisica.
Phil riprese il controllo del suo corpo, sostenendo il passo con i suoi compagni.
 
Oltre a una barriera di radici di baniano, i marines si imbatterono in una terribile scoperta. Cadaveri gonfi e anemici pendevano dagli alberi, si trattava di prigionieri americani.
Un soldato era stato legato a un tronco e brutalmente torturato per avere informazioni. Dalle profonde ferite e le orribili mutilazioni era facile dedurre che non avesse parlato.
«Maledetti! Sono davvero dei bastardi!» ringhiò Skinny, rosso di rabbia.
Phil si limitò a distogliere lo sguardo, più per rispetto che per disgusto. Ormai non provava più ribrezzo per le atrocità compiute in quella guerra.
Al loro arrivo sull’isola i marines erano animati dal desiderio di vendetta nato dopo Pearl Harbor. Dal primo scontro l’odio era divampato come un incendio. Non era solo la guerra. Inizialmente Phil l’aveva sospettato, ed ora ne era certo, a Guadalcanal l’uomo si spogliava della sua civiltà per tornare a sopravvivere nella giungla.
 
L’artiglieria americana aveva respinto con successo l’ultimo attacco nemico. A prova di ciò, al termine della boscaglia, Phil e i suoi compagni trovarono decine di cadaveri giapponesi nell’erba alta. Si era trattato di un vero massacro.
«Perché non si arrendono?» domandò Skinny, incapace di comprendere la cieca ostinazione del nemico.  
«Perché sono giapponesi» rispose semplicemente Larkin.
I marines superarono anche quella macabra radura, rientrando nella foresta.
 
La squadra si fermò ad esaminare i margini del sentiero. Il nemico aveva mal coperto le sue tracce, segnalando la sua presenza.
Phil obbedì agli ordini del comandante e tornò indietro per controllare che i giapponesi non li stessero seguendo. Si appostò tra il fogliame, attendendo nell’ombra.
Il tempo scorreva lentamente, l’acqua colava dall’elmetto, i piedi dolevano nella melma.
Larkin tentava di rimanere vigile, ma la mente giocava brutti scherzi a causa della febbre. Le ombre e i sussurri nel buio…erano reali?
Ciò che non poteva confonderlo era il rumore degli spari. Scoppiarono all’improvviso, una raffica dopo l’altra, come lampi nella notte. Era un’imboscata.
Istintivamente Larkin tentò di raggiungere i suoi compagni, zigzagando tra le palme il più velocemente possibile. La sua corsa si arrestò quando l’artiglieria giapponese spostò il tiro, rendendo impossibile l’attraversamento del boschetto.
Larkin rimase bloccato nel mezzo dello scontro a fuoco, gli americani si stavano ritirando, i giapponesi resistevano.
In quella tempesta di fuoco Phil si ritrovò solo e impotente. Si rannicchiò a terra, attendendo di poter sgattaiolare nel buio verso le linee statunitensi. Azzardò voltare le spalle al nemico, e in quel momento fu colpito alla spalla. Fu costretto a stringere i denti per trattenere il grido di dolore. Si accasciò nel sottobosco, tentando di nascondersi nella folta vegetazione. Phil percepì la stoffa appiccicata alla pelle, la camicia era zuppa d’acqua, sangue e sudore. Ebbe la sensazione di soffocare in quella fossa umida, ma non trovò il coraggio di muoversi. Mentre gli spari si disperdevano in lontananza, Larkin perse conoscenza.
 
Phil si risvegliò all’alba, era solo nella foresta. Avrebbe voluto urlare, ma sarebbe stato solo un rischio inutile. Attirare il nemico non era la scelta migliore, nessuno sarebbe giunto in suo soccorso.
Larkin sentì la testa pesante, la fronte era madida di sudore. Ebbe la sensazione di star fluttuando in un mare di nebbia.
Si guardò intorno, riconoscendo solo immagini sfocate. Strinse il fucile, convinto di udire voci nella foresta. I giapponesi erano ovunque, balzavano fuori dalla vegetazione al grido di «Banzai», con i loro fucili e le loro lame. Animati da una follia omicida, assettati di sangue, pronti a sacrificarsi per l’Imperatore.
Nella sua mente si succedevano ricordi frammentati della battaglia di Bloody Ridge.
Quando riaprì gli occhi Tipper era davanti a lui, si avvicinò pian piano, sussurrando dolcemente al suo orecchio per rassicurarlo.
«Va tutto bene, sono io…Tipper!»
Larkin scosse la testa: «no, tu non puoi essere qui»
«Certo che sono qui. Avevamo promesso di proteggerci a vicenda, ed ora tu hai bisogno di me»
Phil era certo di essere vittima delle allucinazioni, il suo compagno era morto tra le sue braccia, affogando nel suo stesso sangue. Il suo sguardo di terrore tornava a tormentarlo ogni notte.
Larkin avvertì le lacrime scendere sul viso: «Tip…mi dispiace. Avrei voluto aiutarti, davvero. Ma era troppo tardi, l’emorragia non si fermava»
Tipper sembrò non comprendere le sue parole.
«Coraggio, alzati! Devi raggiungere la spiaggia e tornare dai tuoi compagni»
«Non…non posso»
«Certo che puoi. Ti ricordi il giorno dello sbarco? Hai attraversato l’intera spiaggia sotto al fuoco nemico con Harry ferito sulle spalle. L’hai fatto perché sei un buon marine Phil»
«Adesso è diverso, Tip» replicò con triste rassegnazione.
«Per favore, alzati. Non hai più molto tempo»
Larkin si sentì in dovere di seguire quei preziosi consigli, recuperò tutte le sue forze per uscire dal suo nascondiglio e lentamente si arrampicò sulla collina di fango.
Prima di lasciare il boschetto, si voltò un’ultima volta, ma non vide più nessuno. Tipper era scomparso.
 
Phil arrancò strisciando, sotto di lui la terra trasudava sangue, poteva sentire l’odore della morte penetrare nelle narici. Le mosche ronzavano intorno alla ferita aperta, le formiche tentavano di arrampicarsi sulle sue braccia, rettili sconosciuti sibilavano sopra la sua testa. 
Larkin si sdraiò nel fango. Era stanco, le forze lo stavano abbandonando.
Era ormai convinto di non avere più speranze, quando all’improvviso si sentì avvolto da una piacevole sensazione di tepore. Udì un suono che non riuscì a identificare, ma non lo percepì come un pericolo. Attratto e richiamato da una volontà misteriosa, Phil si lasciò guidare nel cuore della foresta.
In quel momento lo vide per la prima volta, il cerchio rosso. Brillava nel buio del bosco, come un cratere di lava incandescente.
Larkin fissò il vortice infuocato, ipnotizzato da quei movimenti provenienti dal centro della terra. Ad un tratto la giungla non era più qualcosa di estraneo e sconosciuto, sentiva di far parte di essa, quel groviglio impenetrabile era intrecciato alla sua anima, mettendo radici nel profondo del suo cuore. Poteva sentirlo, il veleno che scorreva nelle sue vene era lo stesso iniettato dai serpenti. Gli occhi di felino scrutavano l’oscurità. Ed era il medesimo istinto di sopravvivenza a prendere il sopravvento. Era un combattente della giungla, doveva agire secondo la sua volontà.
 
Phil non ricordava cosa fosse accaduto dopo. Doveva essere svenuto, quando riaprì gli occhi fu colpito da un fascio di luce che filtrava tra gli alberi. L’unico cerchio rosso che riuscì a riconoscere fu la bandiera giapponese impigliata tra i rami.
Larkin sussultò, il nemico non doveva essere lontano. Rapidamente imbracciò il fucile e si gettò nuovamente nella macchia verde.
Qualcuno lo stava inseguendo, era una caccia selvaggia. Si sentiva come un animale ferito, braccato da predatori invisibili, che attendevano nell’ombra il momento adatto per attaccare.
Phil sparò alle sagome scure, senza poter avere la certezza che fossero reali.
La ferita alla spalla bruciava dal dolore, ma Larkin stringeva i denti, trattenendo gemiti e lamenti.
Ai margini di una piccola radura si imbatté in una squadra nemica. Restando acquattato nelle frasche riuscì a sparare a due giapponesi, per poi accorgersi con terrore di essere rimasto privo di munizioni.
Il terzo e ultimo soldato non esitò a saltargli addosso, intenzionato a trafiggerlo con la sua baionetta.
Phil schivò la lama, mentre la lotta diventava sempre più feroce il marine sentì il corpo vibrare, come colpito da una scossa elettrica. Eccolo di nuovo, il cerchio rosso che gli ordinava di uccidere, che si nutriva della sua follia, che lo richiamava a seguire un istinto animale. Ora poteva comprendere la legge della giungla. Era terribile e meravigliosa.
Animato da quella forza sconosciuta riuscì a contrastare l’avversario, cieco di rabbia afferrò una pietra e la scagliò violentemente sulla testa nuda del giapponese. Continuò ad accanirsi contro il nemico finché il cranio non si ruppe come una noce di cocco.
A quel punto Phil lasciò cadere la pietra insanguinata a terra. Il suo corpo tremò dai brividi febbrili e dall’adrenalina.
Abituato alla violenza, Phil sghignazzò davanti all’orrore. Sempre con un sorriso sardonico sul volto rubò armi e munizioni al nemico e proseguì la sua disperata fuga.
 
Gli spari erano sempre più vicini. Phil aveva attraversato il fiume a nuoto, riaffiorando a pelo dell’acqua come i coccodrilli. Aveva poi fiancheggiato la riva, risalendo sul sentiero melmoso.  
Era ormai certo di aver raggiunto il perimetro esterno dei marines. Stremato e zuppo d’acqua fluviale, Phil si gettò in una buca. Ad accoglierlo sottoterra furono imprecazioni e bestemmie.
«Dannazione! E tu da dove vieni?»
Larkin rispose in preda all’agitazione: «stanno arrivando! Stanno arrivando!»
L’artiglieria statunitense era pronta ad accogliere il nemico, nascoste dietro alle cataste di legna le batterie attendevano di entrare in azione.
A Phil fu intimato di restare in silenzio, qualcuno si preoccupò di stringere un pezzo di stoffa intorno alla spalla ferita.
Larkin era di nuovo vittima della febbre e delirava sul fondo della trincea, mentre i suoi compagni prendevano posizione alle mitragliatrici e ai mortai.
 
Nel frattempo i giapponesi si erano spinti all’estremità della radura. Il primo sparo diede inizio alla battaglia. Un’intensa tempesta di fuoco incrociato si abbatté sul nemico, che nonostante tutto continuava ad avanzare. I marines si accanirono sulle mitragliatrici. All’improvviso un soldato si alzò in piedi per sparare alle fronde degli alberi, colpì lattine di benzina appese ai rami, che esplosero con un botto incendiario. Altri marines fecero lo stesso, fiamme vive avvolsero alberi e giapponesi.
Phil assistette inerme al violento scontro, la giungla stava bruciando, urlando al vento il proprio dolore. Nubi di fumo e cenere si innalzarono sopra alla laguna.
Eppure il cerchio rosso era ancora lì. Phil poteva vederlo ovunque, impresso nella sua retina, poteva sentirlo pulsare nel petto. Rosso come il fuoco e come il sangue. Ardente di passione, rabbia e innata violenza. Il cerchio era un marchio indelebile, una fiamma incontenibile. Spietato come il Sol Levante, ormai prossimo al tramonto.
 
 
 

 
 
[1] Soprannome con cui i marines si riferivano all’Esercito.
[2] Cactus Air Force. Forza aerea degli Alleati a Henderson Field.
[3] Gli aviatori costretti a paracadutarsi nell’oceano rompevano capsule di clorina, sostanza ritenuta in grado di allontanare gli squali.
 

 

 

  
   
 
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