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Autore: Rota    14/07/2023    0 recensioni
Deve solo arrivare in fondo al corridoio, oltre il terrazzo chiuso al pubblico per via della stagione invernale, e trova la porta finestra aperta – la sua sagoma oltre il vetro, illuminata da luci artificiali e che si staglia sul profilo nero della città. Una zona fumatori vuota, tranne che per lui.
Kohaku si meraviglia di non aver una presa salda sulla maniglia, i piedi traballano appena oltre la soglia dell’ingresso. Ha fatto male ad assecondare Rinne, lo sapeva per certo.
Cerca almeno di non vacillare con la voce. «Stai… complottando qualcosa di nascosto?»
Madara si volta di scatto, preso alla sprovvista, e questo è già abbastanza strano in sé. Capelli sciolti, rimane con la sola giacchetta al vento, come se il gelo fosse una sensazione che non lo riguardi. E lo fissa con occhi sgranati.
«Tutto bene, Kohaku-san? Sei brillo?»
«Rispondi alla mia domanda.»
Ridacchia, colpevole. «No, no! Non sto facendo nulla di losco, questa volta! Te l’assicuro! Avevo solo bisogno di un po’ di… tranquillità.»

[Madara x Kohaku!]
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note autrice: Ambientata subito dopo l'evento "First Blossom- A Spring Evening's Brief Respite"
Buona lettura!




 

I measure the distance between us




 
ああ今だけ、そう今だけは 同じ風に吹かれて
決して咲かない蕾だと 何故か思い込んでは
何度も冬を越そうと 先回りしていた
臆病な 心の ほころびを
そっとなぞる
 
(Ah, just this once — yes, just for now, we both feel the same wind blow
For some reason, I thought this flower bud would never bloom
No matter how many times we have to endure the winter
This timid heart will slowly open
If gently traced its edges)
 


 

 
I dadi si fermano tra i piattini sporchi di quel che resta delle salse e dei condimenti, sul bordo tra due numeri diversi; fremono appena e traballano, prima di cadere e accertare di chi è la vittoria.
Soddisfatto, Amagi Rinne batte la mano sul tavolino e scuote la testa, con i capelli che danzano davanti ai suoi occhi offuscati dall’alcool. «E anche questo è-» Mano lesta, acchiappa subito il manico del boccale e lo porta a sé. «-per me!»
Testa all’indietro, ingurgita il liquido ambrato in pochi sorsi. Il suo avversario, seduto su una poltroncina bassa dall’altra parte del tavolo, accetta la sconfitta con una sonora risata.
«Incredibile, Amagi-san! Non ho mai visto nessuno bere un calice di birra così velocemente!»
Madara Mikejima è sempre stato bravo a imitare le emozioni, e quella sera non fa molta differenza.
Niki Shiina mangiucchia una patatina al formaggio, già sazio di tutti gli stuzzichini che il locale ha loro offerto. Lui sì che è davvero preoccupato. «Non c’è niente di cui complimentarsi…»
L’atmosfera, a quell’ora, è troppo carica di benessere e di ilarità. Alle loro spalle, le pareti sottili del privé racchiudono gli schiamazzi di Amagi, e quell’odore di alcool che si alza quando stappa l’ennesima bottiglia verde, prima di inclinarla verso la bocca del proprio calice.
Hinata dei due gemelli sta ancora sonnecchiando con la faccia premuta sul tavolo, indisturbato e ignorato da tutti eccetto suo fratello, che, imperterrito, continua a tentare di fare una piccola treccia tra i suoi capelli. Il suo sorriso non è abbastanza grande da nascondere anche le occhiaie sugli zigomi, ma illumina invece i suoi occhi.
Passi soffici, oltre la porta scorrevole. Kohaku distrattamente sente la cameriera che viene a controllare i propri ospiti e poi si allontana abbastanza in fretta, verso un’altra meta e un’altra stanza. Si distrae un secondo appena, sonnolente per la stanchezza del dopo concerto e del buon cibo, quando ecco che la voce di Himeru gli fa di nuovo voltare la testa.
«Amagi, forse dovresti darti una calmata. Questa è la terza che-»
«Oh, andiamo! Stiamo festeggiando, no?» Amagi intercetta il suo sguardo, e fa una smorfia. «Che cos’è quel muso lungo? Hai sonno? Vuoi andare a dormire?»
«Sto solo aspettando che nella tua stupidità ti mordi la lingua abbastanza forte da staccartela, Amagi-han.»
«Sempre così violento. Sei piccolino e tutta la cattiveria viene racchiusa dentro in poco spazio, non è così?» In quel momento, le goffe provocazioni di Rinne sembrano ben più infantili del suo cipiglio poco convinto – e prima che riesca a formulare un pensiero in linea con questo ragionamento, il suo leader prende di nuovo i dadi e glieli appoggia davanti, alzando con la mano libera il boccale pieno di birra. «Forza, tira! Se vinci, te la faccio assaggiare.»
«Sono minorenne.»
«Hai fatto cose che neppure io mi sognerei di fare. Che male può farti questa?»
Kohaku trattiene a stento un sospiro. «Madara-han, digli qualcosa-»
Ma Madara non è più accanto a lui: ha lasciato vuoto il posto. Kohaku vede quello spiraglio lasciato dalla porta scorrevole, da cui entra aria fresca, umida. Sa già dove cercarlo.
Prima, però, deve affrontare Rinne, che non gli ha tolto gli occhi di dosso neanche un istante e anche in quel momento sta sogghignando.
«Non puoi scappare!»
Persino Yuuta Aoi lo sta guardando, pieno di aspettativa. Kohaku allora prende i dadi e lancia – un sei cade nella birra del leader dei Crazy:B, scivolando piano tra scie di bollicine sottili.
 
 
Deve solo arrivare in fondo al corridoio, oltre il terrazzo chiuso al pubblico per via della stagione invernale, e trova la porta finestra aperta – la sua sagoma oltre il vetro, illuminata da luci artificiali e che si staglia sul profilo nero della città. Una zona fumatori vuota, tranne che per lui.
Kohaku si meraviglia di non aver una presa salda sulla maniglia, i piedi traballano appena oltre la soglia dell’ingresso. Ha fatto male ad assecondare Rinne, lo sapeva per certo.
Cerca almeno di non vacillare con la voce. «Stai… complottando qualcosa di nascosto?»
Madara si volta di scatto, preso alla sprovvista, e questo è già abbastanza strano in sé. Capelli sciolti, rimane con la sola giacchetta al vento, come se il gelo fosse una sensazione che non lo riguardi. E lo fissa con occhi sgranati.
«Tutto bene, Kohaku-san? Sei brillo?»
«Rispondi alla mia domanda.»
Ridacchia, colpevole. «No, no! Non sto facendo nulla di losco, questa volta! Te l’assicuro! Avevo solo bisogno di un po’ di… tranquillità.»
«Strano che sia proprio tu a dirlo.»
Kohaku fa mezzo passo, il fresco aiuta la sua mente a non vagare troppo e a perdersi in considerazioni inutili sull’odore di fritto che sale dai condotti del ristorante, o sui rumori della città al di sotto della balconata di quel grattacielo – quindicesimo piano, davanti un palazzo che sembra fatto di vetro e che riflette sulla sua fiancata le luci delle torri circostanti.
Madara gli sorride, di nuovo calmo. «Tu invece? Perché sei venuto qui?»
«Mi sento il viso in fiamme.»
«Ci credo! Appoggiati qua.»
Fa cenno alla ringhiera dov’è appoggiato con il gomito, contro il proprio fianco.
Kohaku cerca di essere veloce, per non lasciar trasparire troppo di sè: ha un passo esperto anche in questo, ma non è sicuro del risultato.
Vicino, occupa il fianco di lui lasciato libero; un brivido gli percorre le braccia e poi anche la schiena quando tocca il metallo freddo, e si affaccia oltre la ringhiera. Dal basso, sale un vento putrido, che gli contorce il viso in una smorfia.
«La birra fa schifo. Non capisco come fa Amagi-han a berla.»
«Gli adulti fanno spesso cose strane, Kohaku-san.»
«Già. Questo lo vedo.»
Un’occhiata a lui, e Madara ride. «Stasera sei più tagliente del solito. Anche se immagino di meritarmelo un po’, dopo tutto quello che ho fatto.»
«Solo un po’.»
Non troppo: un altro modo per dargli tregua. Perché nonostante tutto, Madara si trova ancora lì accanto a lui.
Lo sente, che respira placido. È ancora caldo, nonostante la temperatura, e non c’è alcuna tensione nei contorni dei suoi muscoli rilassati, come se non temesse nulla.
Gli guarda le mani, quando si sporge a propria volta: ha dei polsi molti più sottili di quanto si ricordasse.
«Ti dirò la verità. Sono contento che lo spettacolo sia stato un successo.»
«Sì, anche io. È stato molto bello.»
«Ah, ma la prossima volta…» Alza gli occhi chiari, verso l’insegna colorata di un centro commerciale, a qualche isolato di distanza. Sorride, per qualche motivo. «Ti porterò a guardare dei veri fiori. In un vero parco.»
«La primavera prossima.» Kohaku assapora quelle parole, lasciando che il loro significato prenda la sua coscienza pezzo a pezzo. Qualcosa si tende nel suo animo, e lo mette in leggero allarme. «Pensi che saremo ancora qui?»
«Beh, lo spero. Dove vorresti essere, sennò?»
«Non parli spesso di futuro, Madara-han. Quindi è strano.»
Quel genere di argomenti suona fuorviante, per qualcuno che ha creato un’alleanza con uno scopo ben limitato nel tempo. Entrambi si sono sempre mossi con fini pratici, per sfruttare l’uno la presenza dell’altro e viceversa, senza altra intenzione che non fosse quella utilitaristica.
Ma dopo tutto quel tempo, suona più una barzelletta. Dopo quello che è accaduto quella sera stessa, Kohaku si rende conto che ha esplicitamente dichiarato il proprio bisogno di avere Madara nella propria vita, oltre i confini dei propri compiti. Con forza e convinzione, superando persino Madara stesso e la sua tragicità intrinseca.
Glielo rinfaccia, perché ne sia consapevole. Glielo rinfaccia, perché un po’ si sorprende anche lui.
Madara gioca con le proprie stesse dita – lunghe e sottili, Kohaku ricorda come diventano delicate nel ballo, che guidano la melodia della loro musica. Ha un brivido, mentre l’altro parla.
«Forse ho bevuto tanto anche io.»
«Non hai finito neanche la tua prima birra.»
«Accidenti! Stai attento a tutto!»
«Scusami. Sono abituato a osservare quello che mi circonda.»
«Non è un problema se osservi con attenzione me.»
Abbassa gli occhi, ritrova la malizia del sorriso.
«Anche questo genere di cose sono da adulti?»
«Quale genere di cose?»
Ma non vuole rispondergli, e Madara lo lascia andare.
Il rumore del traffico è diminuito, lasciando spazio invece a quello della notte e del vento. Kohaku sente la melodia che fuoriesce dal ristorante alle loro spalle.
Non c’è più nessuno che li disturbi, neppure una cameriera troppo zelante o un inserviente che vuole solo controllare, allora si può permettere qualche osservazione stupida.
«La città è molto bella, da qui.»
«La pioggia ha lavato l’aria. Si può vedere tutto perfettamente.» Madara soffia una nuvola di condensa, con i capelli schiacciati contro il profilo del viso. È ancora premuto contro di lui, ormai non gli fa più da sostegno e rimane a gustare la sensazione del contatto, come se sia normale rimanere così vicini senza uno scopo. Però, ha una voce calma e controllata, da vero bugiardo. «È cominciata la stagione delle piogge.»
Suona quasi romantico, alle sue orecchie. Il ciclo delle stagioni, lo scandire del tempo, sono sempre stati privilegi che a lui personalmente sono mancati.
Richiama sensazioni recenti, il piacere di una vita normale che Madara gli ha donato, credendo di allontanarlo per sempre. Non vuole che quell’esperienza abbia il sentore di un addio, né che Madara si crogioli nel fatalismo che gli è congenito – e lo guarda negli occhi, mentre richiede spazio per sé, nella sua vita.
«E dove… Dove vorresti portarmi, l’anno prossimo?»
Un guizzo attraversa lo sguardo di Madara, rende più vero il suo sorriso.
«C’è un bel parco, a Nord della città.»
«Sì?»
«Sì. Si possono fare i picnic.»
«Non ne ho mai fatto uno!»
«Immagino. È molto divertente.»
«Porti tu da mangiare?»
«Se ti fidi! Sono bravo a cucinare.»
Ride, prima di rendersi conto di quello che sta facendo. Ma è naturale, vitale, genuino. No, non si fida molto della cucina di lui, ma non crede di avere molta altra scelta.
È ancora contro il suo fianco, mentre prende un profondo respiro. C’è un’aria carica di pioggia.
«Perché noi ora…?»
«Non lo so. Ma a un certo punto ho solo smesso di pensare al peggio, e questo mi ha condotto qui.» Quando lui si china nella sua direzione, Kohaku si tende d’istinto, le mani pronte a stringersi al suo collo. Ma le dita di lui, leggere, si fermano alla prima ciocca dei suoi capelli. «Hai un petalo tra i capelli-» Una folata di aria gelida sale ancora dal basso, e ruba ciò che Madara stava cercando di prendere. Kohaku intravede qualcosa nell’ombra della notte, uno dei petali dei ciliegi sul palco dello spettacolo.
La mano di Madara non si solleva neanche a quel punto, rimane ad accarezzargli il capo come distratto, senza peso. Kohaku non ha più freddo e nella sua testa è rimasto ben poco ormai.
La luce dei lampioni del ristorante illumina il corpo di Madara dall’altro, lasciando metà del suo viso in ombra e tutto il suo corpo avviluppato dalla notte.
Gli prende quel maledetto polso sottile e lo tira a sé – ma si deve comunque alzare sulla punta dei piedi, per baciarlo. Almeno sulle labbra, è freddo.
«Perché?»
«Ho smesso di pensare anche io.»
«Nessun pensiero quindi.»
Nessun pensiero: Madara non si sposta.
C’è troppa ombra sul suo viso perché Kohaku veda tutti i colori del suo sguardo. La mano di Madara è veloce a cingergli la vita, quando lo attira a sé. Trattiene il respiro per qualche secondo, prima di realizzare che quel secondo bacio durerà ben più di un semplice tocco.
Quante volte lo rifaranno ancora, quante volte hanno mancato di farlo per futili motivi. Kohaku può contare le occasioni perse, così come può immaginare quelle future, e nel bacio si perde.
La sensazione del suo respiro gli invade il cervello almeno quanto quella del suo sapore, del calore della lingua che si muove con dolcezza contro la sua e gira attorno, gira e lo insegue tra le guance morbide.
Forse lo sta guardando – inclina la testa per avere più spazio dentro di lui, Kohaku mugugna e geme con la saliva che gli bagna le labbra e le gambe tremanti.
Si sente premere contro la ringhiera del balcone ma non allontana il viso; succhia la sua lingua e quella volta è Madara a gemere, in un suono che non dimenticherà mai più.
Solo a quel punto sente anche le sue mani, contro la nuca e in mezzo alla schiena. Lo tengono stretto contro il suo petto, tra braccia troppo lunghe che lo circondano alla perfezione; allora stringe le dita attorno alla sua giacca, e tira appena.
Una goccia dal cielo li interrompe, tra le nuvole basse che minacciano tempesta. Madara allontana il proprio viso, ma rimane con la testa premuta contro la sua, a respirare quegli ultimi attimi di intimità.
Ha un sorriso molto più morbido del solito, una leggera incertezza nello sguardo. Non è sincerità, perché Kohaku non la riconosce subito.
È commozione.
Lo stringe ancora. «Torniamo dentro, o i tuoi compagni mi butteranno giù da questo grattacielo se ti faccio prendere la pioggia.»
Lui scuote la testa per rispondergli, perché in realtà vorrebbe rimanere fermo ancora. La pioggia insiste, e l’aria ben presto si riempie dell’odore di umidità, la sensazione più acuta del freddo.
La primavera è arrivata davvero, e scivola verso l’estate, verso altre stagioni che potranno essere loro.
Solo quando abbassa lo sguardo, Madara si allontana per primo – si rende conto di avergli lasciato tutto il lavoro pesante e tutte le responsabilità: che Madara non sia scappato, lo fa sentire davvero voluto e desiderato.
Forse, quello scemo ha capito che, qualora provi anche solo a scappare, lo troverà sempre, e lo costringerà al proprio fianco.
Madara lo sta aspettando, a soli due passi di distanza. Lo guarda a malapena, ma gli tende una mano, pronto a reggerlo se l’alcool lo renderà ancora incerto e traballante.
Nessun pensiero, Kohaku si rimette al suo fianco e si fa condurre all’interno, placidamente.
 
 
 
 
 





 
君と目があうたびに どこか距離を探した
落ち着かない鼓動で 嘯きながら
 
(Every time our eyes meet, I measure the distance between us
Even my restless heartbeat seems to be howling)
   
 
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