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Autore: Marghe    26/05/2005    1 recensioni
21 aprile, data della fondazione di Roma. Anticamente in questa occasione i pastori celebravano una divinità secondaria di nome Pale, la dea delle greggi, in onore della quale uomini e bestie venivano puricati.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Mi pungeva addosso il pesante tabarro di lana che mi era stato gettato sulle spalle, prima che mia madre mi prendesse la spalla con la sua mano nodosa come il tronco di un ulivo, e mi portasse fuori dalla capanna

IL CAVALLO DI FUOCO.

 

 

Mi pungeva addosso il pesante tabarro di lana che mi era stato gettato sulle spalle, prima che mia madre mi prendesse la spalla con la sua mano nodosa come il tronco di un ulivo, e mi portasse fuori dalla capanna.

Tutti gli animali erano stati portati fuori dai recinti ed erano stati legati insieme, uno dietro all’altro.

Compimmo un lungo tragitto lungo il sentiero sterrato che attraversava i campi di grano, fili d’oro già alti che ondeggiavano leggermente nella brezza d’aprile. Alle spalle avevamo colline, colline e colline, e, fra quelle colline, si alzavano al cielo dei palazzi simili a grosse scatole, che nella notte sembravano azzurrognoli e avvolti dalla nebbia, ma non perdevano la loro rozza solidità. Lo scalpiccio stanco degli animali accompagnava i nostri passi svelti. Mamma mi tirava ancora per la spalla, e mi ripeteva di affrettarmi. Passammo attraverso i campi con le fiaccole strette nelle mani, e lontano, fra gli altri seni della terra coperti dai fili di grano, si muovevano ondeggiando tante altre piccole fiammelle. 

Sapevo cosa stava per succedere, perché ogni ventuno d’aprile succedeva.

Avevo ben riconosciuto il rituale. Avevo visto mamma, papà e i miei fratelli ripulire a fondo le stalle e adornarle con tante corone. Avevano raccolto della legna sul nostro carretto e ci avevano attaccato il nostro nero stallone dalla lunghissima criniera. Lui mi stava dietro, ora, tirato per le briglie da papà. Il suo incedere furioso e nobile, sempre eretto e coi muscoli che si flettevano con possanza, era molto diverso da quello di tutti gli altri cavalli che si vedevano per le nostre campagne; somigliava di più a quei cavalli che galoppavano per le grandi strade più a occidente, percorrendole in un istante e portando sulla groppa cavalieri scintillanti con bandiere e mantelli rossi che sbattevano nel vento, le teste rinchiuse nei loro elmi di fuoco.

Il fiato dello stallone era tanto possente che me lo sentivo arrivare sulla schiena attraverso la lana. Avrei voluto voltarmi per carezzargli il muso, crudele se non per i grandi occhi nocciola che avevano un’aria così dolce, ma avevo paura che mia madre mi rimproverasse, anche perché mi ero proibito accarezzarlo. Era uno stallone, e non si sapeva mai quali potessero essere le sue reazioni. Un suo calcio avrebbe potuto uccidere una persona.

Arrancammo con gli animali e il carretto cigolante su per un ultima salita, e infine, quando fummo sulla sommità della collina, il grande tronco d’ulivo che mi aveva ostruito la visuale sull’avvallamento sottostante sembrò farsi da parte come una tenda, e mi rivelò tante altre torce accese e tante cataste di legna ammucchiate per terra e infiammate. Intorno ai falò c’erano altri contadini con carri e animali. La valle era molto grande, di quelle dove venivano portate al pascolo parecchie greggi di pecore.

Scendemmo dalla collina sdrucciolando sui sassolini che rotolavano giù. A questo punto il sentiero spariva fra l’erba alta, e bisognava stare attenti a dove si metteva i piedi perché potevano esserci delle buche e il carretto avrebbe potuto incastrarsi da qualche parte.

Radunammo gli animali ed aggiungemmo anche noi il nostro falò. Le fiammelle che avevo visto in lontananza si stavano avvicinando e cominciavo a distinguere le figure degli altri contadini con le loro mogli, i loro figli e i loro animali. Ben presto calò il silenzio; guardandomi intorno vidi che un contadino avvolto in un bel mantello di lana grezza era salito sopra un tumulo di terra che era stato fatto apposta, molti anni prima, proprio per questo scopo, e si mise ad annunciare il rituale che stava per svolgersi.

- Ringraziamo la Dea caritatevole che protegge le nostre greggi, - iniziò il contadino imponente, e con questa frase concluse anche il suo discorso. Ci furono delle grida, poi il contadino dal suo tumulo alzò le braccia, ed esclamò: - E adesso purifichiamoci per renderle onore! -

Fu come se avesse dato a tutti il permesso di aprire delle casse contenenti tutti i venti del mondo. La gente cominciò a vociare e a sciamare e turbinare intorno come un mucchio d’api o uno stormo di cavallette.

I miei genitori mi obbligarono a dare una mano, ma io ero distratta, perché tenevo sempre gli occhi fissi su ciò che stava succedendo. Noi facevamo le stesse cose che facevano gli altri pastori e contadini, ogni ventuno aprile, in onore della dea Pale.

Facevamo salire gli animali, prima le pecore, su delle strutture che anche i miei fratelli erano andati a costruire quel pomeriggio: si trattava di solido legname legato insieme fino a formare una specie di griglia, sostenuta da quattro grossi tronchi sopra i falò che ogni famiglia di contadini aveva acceso. Il fuoco veniva lasciato bruciare e poi veniva coperto di frasche odorose, così che il fuoco non si avvicinasse ai tronchi che sorreggevano il pianale e si dipanasse invece da esso una grande quantità di fumo. In questo modo, mi disse mia madre quando, tramite un ponte di legno, avemmo fatto salire sulla griglia il primo gruppo di pecore, che belavano impaurite e tentavano inutilmente di scendere, i fumi del fuoco sacro di Pale purificavano gli animali che sarebbero vissuti a lungo e avrebbero dato prodotti abbondanti da portare a Roma e da tenere per noi.

Un gruppo per volta, purificammo tutte le pecore, che tornavano giù annerite e belanti, lasciando in giro un sacco di escrementi. Mio padre teneva il fuoco vivo mentre facevamo salire ora le giumente. La struttura di legno cigolò come una grande ossatura che sta per rompersi, ma le corde erano solide e anche la legna. C’era il rischio, altrimenti, che gli animali cadessero nel fuoco. Le mucche erano ancora più inferocite delle pecore, ma avevano paura di saltare, perché sotto di loro c’era una rete di legna, fra le quali possenti maglie le loro zampe sottili avrebbero potuto incastrarsi.

Mamma si mise a ridere contenta, perché stava andando tutto bene. Intorno esplodevano grida, grida, grida, esclamazioni, imprecazioni, risate, lamenti, le giumente e i tori muggivano come il possente vento che d’inverno spirava fra i colli, le pecore belavano come piangendo, i cavalli nitrivano come due pezzi di ferro che strusciano l’uno contro l’altro, e si impennavano.

Mi voltai a guardare lo stallone, ancora legato al carretto. In cinque avevano provato a tenerlo fermo, e c’erano riusciti: adesso il dolce demonio nero si era calmato, ma stava lì a sospirare profondamente a fremere, con gli occhi inferociti coperti da ciuffi della sua lunghissima criniera. I legamenti che lo  tenevano al carretto sembravano molto deboli.

Finirono anche le mucche, e toccò ai polli, ai galli, ai tacchini e alle oche, che portavamo su chiusi in gabbie perché non si disperdessero o volassero via. C’era tutto un esplodere di nubi di penne, dei pennuti che si agitavano, compressi nelle piccole gabbiette sopra al falò che sembrava un po’ come un Sole precipitato a terra, e conficcatosi fra l’erba, dove bruciava inviperito e mandava su per vendicarsi nuvole di fumo nerissimo.
Adesso si era diffuso nell’aria un odore acre. Mi accorsi guardandomi intorno che nel pascolo tutti stavano ballando, e praticamente nello stesso momento uno dei miei fratelli mi prese le mani e mi portò in giro volteggiando. Ballando mi venne da ridere e ridemmo tutti e due. Ci scontrammo diverse volte con le spalle e coi fianchi di altri contadini che stavano ballando, con un gran sollevamento di gonne e di capelli e un volare di cappelli.

Nel cielo sembravano ballare anche le nuvole; la luna si vedeva un attimo sì e un attimo no e nel mio giramento di capo le stelle sembravano girare di qua e di là fino a precipitare a terra. C’era un frastuono che sembrava come un terremoto o un’altra terribile maledizione che emergeva dalla terra. Il pascolo si era trasformato in una strada di Roma, che non avevo mai visto ma che mi era stata descritta, e io la immaginavo proprio così.

Un liquido forte e delizioso mi colava giù per la gola e continuarono a porgermene fin quando non mi trovai come le stelle, che dal cielo ballando precipitavano in terra, e non distinguevo più bene l’uno dall’altra.

Mi sembrò che tutti fossero nello stesso stato, incerto fra felicità e angoscia, in cui io mi trovavo. Così incominciò la cerimonia di purificazione dei pastori, che saltavano nel fuoco, a turno, tre volte ciascuno. Anch’io saltai sopra un fuoco basso, spinta da mio padre, tirando su la sottana perché non bruciasse. Non sentivo la paura, e non sapevo neanche bene quale fosse la causa di quello che stavo facendo; ma saltai, un’altra volta, e poi un’altra ancora, e poi tornai a vorticare con un altro ragazzo in quella tempesta disordinata.

Andai a sbattere per conto mio contro il tumulo di terra che era stata per il re dei pastori, mentre sentivo confusamente o mi pareva di sentire la voce di mia madre che mi chiamava. Senza pensarci alzai lo sguardo e vidi un grande svolazzare di abiti da pastore, anzi da donna pastore. Mi trovavo esattamente sotto di lei e mentre le sue gonne si sollevavano vidi i sandali allacciati alle sue caviglie, e l’interno delle sue cosce illuminato dalla luce arancione dei fuochi. Reggeva un grosso bastone in mano, e vista dal basso mi sembrava ancora più impettita e il suo volto rotondo mi sembrava ancora più severo, proprio come quello di un pastore che sorveglia con attenzione che le sue greggi non si disperdano.

L’avrei ammirata per ore.

Tutto d’un tratto però, come un ruggito dai campi, sentii un’esplosione. Per un momento tutti si zittirono, poi scoppiò di nuovo il pandemonio, ma in un altro senso, cioè che tutti gridavano dalla paura.

Non vedevo bene, perciò non riuscii a capire subito quale fosse la causa di quello sconvolgimento. Fin quando non vidi il nostro crudelissimo e dolcissimo demone nero che impennava liberandosi del carretto, che rotolò giù e si sfasciò. Lo stallone era imbestialito, e sembrava che ruggisse e muggisse più che nitrire, come se di colpo avesse raccolto in sé tutto lo spavento e il furore degli altri animali e l’avesse mescolato in sé in un unico grido doloroso e un unico impeto con il quale flettendo i muscoli possenti avanzava a balzi galoppando per tutta la vallata.

Calpestò uomini, donne, bambini e animali, girando intorno fin quando non si sentì appagato dalla sua vendetta, e poi infuocato corse via, per le colline, tentando di fuggire. Feci aderire la schiena con tutte le mie forze al tumulo alle mie spalle, come cercando di sparirci dentro. Alzai di nuovo lo sguardo e vidi che ora anche la donna turbinava: seguiva con tutto il corpo il percorso del cavallo. E infine, quando lo stallone prese a galoppare in linea retta lontano oltre le colline, la donna battè il bastone per terra.

Sembrò come se da lei fosse partito un fulmine che in pochi secondi raggiunse lo stallone. Era lontano, ma lo vidi come se fossi stata lì, a un passo, o lo immaginai, forse. I suoi occhi dolci si ribaltarono e all’istante la sue bella criniera prese fuoco, si infuocarono le zampe, la coda, la schiena, il muso. Le fiamme lo avvolsero per eroderlo e cancellarlo, ma lui continuò a correre verso il fiume, come se avesse fiutato l’acqua. Non era così lontana, avrebbe potuto raggiungere la palude vicino al mare.

Giunse sulla sommità di una collina, correndo all’impazzata sui fianchi della terra. La sagoma nera che sembrava quella di una donna addormentata coperta d’erba lunga, vista dal nostro avvallamento sembrava imponente ma piatta. Lo stallone si trasformò in una palla di fuoco e la sua fuga scellerata ebbe fine: esplose, con un boato e uno schianto di luce che tutta Roma doveva aver visto.

Ma il fuoco, come non lo aveva fatto prima, non toccò le colline e non appiccò il fuoco ai campi. Si estinse col dolce fuggiasco.

I miei occhi incontrarono per un attimo quelli luminosi della dea che stava sul tumulo. Era stata lei a bruciare il cavallo, di questo ero sicura. Ma dopo quell’istante di certezza e di smarrimento insieme, dovetti cadere all’indietro perché un momento vidi le stelle che avevano smesso di girare ma brillavano di tutti i colori dell’arcobaleno, un momento sentii il dolore urlante, e poi con un tonfo caddi fra gli echi nel silenzio della perdita dei sensi.

 

Arrancai come una giovenca stanca portando sulle spalle un grosso secchio contenente il pastone per i maiali. Arrivai alla mangiatoia con un grosso sospiro e lì rovesciai il contenuto del secchio, liberando le mie spalle spellate da quel pesante supplizio.

Era la quinta o sesta volta che facevo avanti e indietro con un secchio colmo di qualcosa, che fosse acqua, cibo per maiali, poi di nuovo acqua, poi di nuovo cibo per maiali, o escrementi animali da usare come concime per gli alberi.

Corsi alle stalle per strigliare l’unico cavallo che adesso avevamo, un piccolo maschio dal pelo castano e la criniera quasi nera. Mi guardava col suo musetto secco, tenero ma inespressivo. Finito di strigliarlo, pulii la stalla con una secchiata d’acqua e uno straccio ruvido, poi ispezionai lo stato degli zoccoli. La bruciatura che aveva rimediato il puledro durante la cerimonia dello scorso ventuno aprile era guarita completamente, rimaneva soltanto una chiazza più chiara sul pelo. Guardai sconsolatamente le sue gambe esili e le sue spalle deboli, pensando a quanto fosse ancora giovane e a quanto si sarebbe rovinato trascinando carretti pieni di paglia o di legna o di merce da portare in città. Non era forte come lo era stato lo stallone, ma era inutile piangere sul latte versato. Così dissi ma non ci credetti veramente. Avevo però un mucchio di lavori da fare prima che calasse il sole, o non avrei visto più in là del mio naso.

Sospirai e scrollai le spalle, come a liberarle da un grosso peso, e tornai con un indefinito senso di frustrazione alla vita di tutti i giorni.

 

 

 

 

 

 

  
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