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Autore: Dorabella27    20/07/2023    2 recensioni
L'ultimo Medici ad aver retto la Toscana con il titolo di Granduca, Gian Gastone, è considerato il triste e grottesco epigono di una lunga e gloriosa dinastia: la sua pigrizia, il suo disinteresse clamoroso per le cure di governo e le finanze del Ducato, la sua inerzia, insieme con la fascinazione per tipacci loschi e poco raccomandabili, dai quali veniva regolarmente derubato, divennero celebri in tutta Italia, e non solo. Dopo di lui, saranno gli Absburgo a prendere il controllo del Granducato, che diventerà uno degli Stati giuridicamente più avanzati d'Europa, il primo ad abolire la pena di morte. Ma forse sarebbe interessante conoscere "la versione di Gian Gastone"....
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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La versione di Gian Gastone
 
So benissimo che cosa dicono di me: che sono un pigro; peggio, un inguaribile accidioso, una larva che si sfalda nell’abbrutimento, che in questo letto, da cui mi levo tanto malvolentieri, e dove indecorosamente e vergognosamente ho vissuto, vergognosamente e indecorosamente finirò per morire, presto o tardi, tra miasmi inimmaginabili e sporcizia irriferibile. Lo so benissimo, che per mio padre, il granduca Cosimo III, sono stato una delusione. Povero padre mio, così bigotto e perbene. Un figlio come me deve essere stata una perenne amarezza, lo so. Lui era un uomo attivo, e serio: tanto che l’ultima volta che qualcuno lo vide sorridere non aveva che aveva sedici anni, pare; e col suo cipiglio, del resto, ha saputo trasformare nostra madre, Margherita Luisa, in un’isterica aggressiva. E sì che la nipote di Luigi XIV, le Roi Soleil, venuta a rimpinguare fortune e sorti d’una Firenze ormai estenuata e in rovina, meritava ben altra accoglienza. E invece, quel fiero cipiglio da piagnone di mio padre, degno seguace con due secoli di ritardo del Savonarola, aveva spento in lei ogni entusiasmo, di più, ogni gioia di vivere.
Voi non sapete quanto io lo abbia addolorato, il povero padre mio. Io e mio fratello Ferdinando, beninteso. Ferdinando, il primogenito, l’erede designato, alla faccia del rigore del suo precettore, il marchese Albizzi, era cresciuto estroso, d’umore mutevolissimo, appassionato, più che alle cure del governo, agli artisti; e fra loro spiccava cui un certo Petrillo, un sopranista che divenne il suo favorito, per lo scorno di nostro padre. Ah, chi sa con quale dolore avrà capito che, nonostante il fastoso matrimonio con Violante di Baviera, santa ragazza, di eredi non c’era proprio da sperarne. Che delusione, povero padre mio! Quanta fatica, quanto sfinirsi nelle cure di stato: per nulla. Appunto: meglio l’accidia, meglio non far nulla.
Morto Ferdinando, l’erede designata avrebbe potuto essere mia sorella, Ludovica, vedova dell’Elettore del Palatinato. Oh, se si somigliavano, lei e mio padre: anche lei bigotta, maniaca dell’etichetta, autoritaria, ma capace, lei sì, eccome!, di fare onore al casato. Sarebbe stata la granduchessa ideale, e invece non aveva potuto nemmeno avvicinarsi al trono perché donna. E quindi, eccomi qui, io, l’ultimo, ridicolo, risibile, miserrimo Granduca.
            Perché darsi tanta pena? Ne converrete: meglio mostrare un buon carattere, adattarsi con flessibilità alle circostanze, non recriminare. La quercia venne divelta dalla tempesta, la canna, flessibile, si chinò al vento e sopravvisse: lo insegna la favola antica, no? Certo, a tratti, mi sembra di far la parte del Re in una commediaccia messa in scena da una compagnia di guitti raffazzonata. A me, di governare, e tutta Firenze lo sa, non importa nulla.
Anche volendo, non se sarei capace.
 Mi piace oziare, stare nei miei appartamenti, con i miei ruspanti, quei bei giovanotti vivaci che ho fatto raccattare qua e là dai bassifondi e che aspettano i miei ruspi, gli zecchini freschi di conio, senza nemmeno struggersi troppo nell’avvilimento della piaggeria. È vero: a volte i ruspanti eccedono nell’altro senso: come quella volta che Ludovica dovette intervenire a forza per spegnere le intemperanze di quel gruppo di saltimbanchi polacchi che - lei dice - mi avevano preso in ostaggio. Mah! Certo, non val la pena darsi da fare, ve lo dico io! Anche quei simpatici ragazzotti che partecipano ai miei baccanali, che volete, quando ne danno il resoconto, ingigantiscono un po’ la realtà, per farsi belli, voi capirete.
 Certo, certo, io dovrei intervenire.
Frenare le malelingue.
 Limitare le loro intemperanze.
 Esigere che mi si porti il rispetto che la dignità del casato richiede.
Tutto vero, perbacco.
…………………………………..
 Ma c’è qualcosa al mondo che valga uno sforzo?
Eppure, non sono affatto uno sciocco, sappiatelo. Per esempio, il Dami, il mio fidato Dami, plenipotenziario del ducato, credete ch’io non sappia che mi deruba sistematicamente? Che tutti gli oggetti preziosi o antichi che, con occhio rapace e famelica mano, individua nei miei appartamenti, finiscono all’istante nelle mani di certi mercanti in combutta con lui? E che questi svergognati arrivano a propormi l’acquisto di quel che è mio? Che devo fare in questi casi? Dico “Toh! Chi non muore si rivede!”, e li ricompro.
 Ludovica, io lo so, ci soffre immensamente, e non tanto per invidia, ché tutti lo sappiamo, come granduchessa sicuramente era più portata di me, e, potendo, le avrei lasciato il trono, pardon, il letto, dovrei dire, visto che nella sala del trono non ci ho quasi mai messo piede. No, no, Ludovica se la piglia, eccome se se la piglia, e ne soffre atrocemente, con mal di stomaco e mal di testa, e nausee e febbri nervose: soffre per la decadenza del casato, per il buon nome dei Medici, per la nomea, di depravazione, per la vergogna d’un fratello che è ridotto a un rottame, a una foca obesa e maleodorante, le mani come artigli, il mento affondato nel grasso del collo, l’occhio vacuo e velato.
E allora, sapete che cosa faccio io, per contrariarla? La voglio indispettire ancora di più! La mia accidia, la mia degradazione, li ostento per farle dispetto, per stizzirla.
Lo so che Firenze non conta più nulla, in Italia e ancor meno in Europa: ma!
 Che ci posso fare, io? Nulla. Dovrei almeno angustiarmi, avvilirmi, addolorarmi, struggermi. Struggermi?
No, non ne avrei la forza.
Non è colpa mia se sono nato troppo tempo dopo i fasti del Magnifico Lorenzo, di Poliziano e Botticelli.
Ed è chiaro che dopo di me, non ci sarà un altro Medici nel ducato. Da poco ho conosciuto questo Francesco di Lorena, l’erede designato che mi succederà, il figlio di cui l’Austria e le altre Potenze mi hanno reso inopinatamente e tardivamente padre, alla mia bella età di quasi sessant’anni. Mi sembra un ragazzo a posto, con la testa sulle spalle, dal sorriso aperto e dalle guance rosse; mi dicono sia sposato con una ragazza di polso, di nome Maria Teresa, graziosa e appassionata di teatro, e che formino una coppia simpatica e alla mano. Buon per loro, buon per loro. Me ne compiaccio assai. Davvero. Ma in questi giorni altre sono le preoccupazioni che mi tormentano, o meglio, che mi tormenterebbero se molti anni fa non avessi deciso di non tormentarmi mai per nulla, perché nulla vale lo sforzo di angustiare la propria anima e il proprio spirito.  Ma questi doloretti, queste fitte, questi improvvisi brividi notturni, questa febbricola che diventa febbrone: la mia vita sregolata, dicono i medici.
Certo, certo: ma io comincio a sospettare che quella degli stravizi sia una scusa che serve a occultare ben altro. Il Dami, per esempio: più volte l’ho visto furtivo, mentre ero nel dormiveglia, davanti alla brocca della mia acqua e del mio vino.
Come mai? Un libro che uno dei miei ruspanti mi ha portato parla dei veleni, e dell’acqua tofana, questo ritrovato senza colore e senza sapore inventato da un’ingegnosa donzella napoletana, da una donna malamente ammogliata che voleva nuovamente assaporare la libertà di andare ai balli, piroettare a suon di musica e divertirsi senza render conto al marito. E mi sembra proprio che sia il mio caso. Sì, ne sono certo, più ci penso- e lo sforzo per questa fatica insolita mi trapana le tempie – e più ne sono sicuro: qualcuno mi sta avvelenando. Potrebbe forse essere il Dami? Ma no, avrebbe solo da perdere se morissi: a chi ruberebbe gli argenti, gli ori, i vasi di onice, i quadri preziosi, i cammei? Al Lorenese? Simpatico giovine, ma che mi dà l’aria, lui con la sua moglie, di essere il tipo aduso, prima di coricarsi, a fare il giro degli armadi e dei cassetti, e a fare il conto dell’argenteria, delle tabacchiere d’oro e degli oggetti intarsiati. I ruspanti? E chi tiranneggerebbero poi? A chi estorcerebbero zecchini e doni?  Il Lorenese, penso, li prenderebbe a calci nel sedere tempo cinque minuti. Sempre col suo bel sorriso aperto e cordiale, s’intende. O forse gli avvelenatori potrebbero essere gli emissari dell’Austria. Ma perché dovrebbero? Per accelerare il passaggio delle consegne? Ma no, è impossibile. Mia sorella Ludovica? Sarebbe assurdo!
Eppure, i sintomi ci sono tutti. Sì, ne sono certo, qualcuno mi sta avvelenando. Lentamente e senza scampo. Non so a che scopo, perché sanno tutti che Gian Gastone, l’ultimo dei Medici, non avrà i giorni lunghi. Non so chi, ma so che potrei, con un piccolo sforzo, comprenderlo. Eppure, solo a pensare allo sforzo che dovrei fare, mi scoraggio. Mi sento mancare le energie, mi vien sonno.
La fatica, è una nemica che ho sempre scansato: come potrei, ora, andarle incontro?
No, non posso.
 L’accidia mi accompagnerà sino alla tomba.
Anzi, mi porterà lei stessa alla tomba.
 
   
 
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