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Autore: raffy_ndp    24/07/2023    1 recensioni
"Perché ormai lo sento/
non ho sofferto invano/
se mi ami come sono.
Per sempre tuo, per sempre tuo, per sempre tuo…
Cirano"
Una piccola storia romantica in cui un brutto incidente per Esmeralda la porterà su una strada imprevista e imprevedibile...
Per il titolo, come sempre, mi sono lasciata ispirare dal mio amato Guccini.
E' una fanfiction a cui sono particolarmente affezionata: se volete lasciare una gentile recensione dopo la lettura ve ne sarei molto grata! Raf.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Claude Frollo, La Esmeralda
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Mi chiamano “la cegada”, la guercia. E’ per via di questa cicatrice che mi attraversa metà faccia: come un sottile rigagnolo parte vicino all’attaccatura dei capelli, si snoda sulla palpebra e la guancia e sfuma sul limite ultimo della mascella. Dall’occhio sinistro non ci vedo più; solo una pupilla spenta e nebulosa rimane come una pallida ombra di ciò che è stato e adesso non è più. Ero bella, una volta; tutti mi ammiravano estasiati quando volteggiavo nel sole al suono del mio cembalo. Da quando è successo il fatto, invece, molti non sono più riusciti a guardarmi in faccia, e non posso biasimarli: anche io non riuscivo a sostenere lo sguardo di una persona deforme, piccola e delicata come ero.  A dire il vero c’è solo una persona che mi guarda ancora negli occhi, o forse dovrei dire, nell’occhio, come se fossi ancora quella di prima: è il mio medico; forse medico non è esattamente la sua qualifica ma insomma è colui che mi cura e mi ha curato sin dal primo istante; in realtà di lavoro fa il prete. Non ricordo molto di quel giorno; era primavera, faceva già caldo, la luce era abbagliante sul sagrato davanti a Notre-Dame: deve essere per questo che, mentre facevo uno dei miei numeri acrobatici con una coppia di fruste, non so come persi l’equilibrio e caddi miseramente sul lastrico; una delle fruste, che ancora volteggiava per aria, si abbatté impietosa sulla parte sinistra del mio viso, portandomi via la pelle lungo la sua scia dolorosa. Fu una fitta lancinante. Non fui più in grado di vedere o capire nulla, tanto il dolore mi annebbiava la mente con la sua morsa. Sentivo solo un vociare indistinto intorno a me intervallato da tanti “L’egiziana! L’egiziana!”, poi qualcuno iniziò a dire “Un medico! Chiamate un medico!”. Non so quanto tempo passò, ma ad un certo punto mi sentii sollevare da due braccia maschili e una voce profonda disse “Ci penso io”.
Passò un certo tempo. Quando aprii gli occhi mi trovai con sorpresa stesa su un letto che non era il mio, in una specie di celletta di pietra rischiarata da un’unica finestra. Mi si fece incontro quell’uomo che tanto terrore mi incuteva quando mi esibivo; armeggiava con certe ampolle e garze, come se sapesse perfettamente come muoversi all’interno di quella stanza.
<< Come stai? >> chiese.
Non seppi cosa rispondere.
<< Cosa è successo e dove mi trovo? >> fu tutto quello che riuscii a dire.
Venni così a sapere del mio incidente, di quel fatto che da quel momento in poi avrebbe segnato un prima e un dopo nella mia vita.
L’arcidiacono che fino a quel momento mi aveva perseguitato, dandomi della strega, si dimostrò subito straordinariamente premuroso; sul momento non seppi spiegarmi quel cambio di comportamento. Dunque iniziò a medicarmi.  Non sapevo avesse studiato anche medicina; ad ogni modo da quel giorno si prese cura del mio occhio con una costanza che rasentava la devozione. Torno da lui quasi ogni giorno per essere medicata: mi cambia la benda, mi controlla l’occhio, mi instilla certi preparati che solo lui conosce; poi mi chiede di tornare il giorno dopo. E’ da qualche mese ormai che lo vado a trovare; insiste che potrei riacquistare la vista ma miglioramenti non ce ne sono ancora stati. Tutto è sempre buio e nebbioso per quel povero occhio appannato.
Ultimamente mi trattengo un pochino anche dopo che la medicazione è conclusa; il suo laboratorio mi incuriosisce, così mi metto in un cantuccio della stanza e lo osservo per qualche tempo: cerca di ottenere non so quali trasformazioni della materia ma, a dire il vero, non ci riesce mai. Sconsolato butta tutto in un catino e rimane pensoso per qualche tempo sul suo seggiolone, la testa tra le mani e gli occhi bassi. Mi spiace vederlo così abbattuto. Ho scoperto che è un uomo molto sapiente e, da qualche parte sotto la tonaca severa, ha anche un animo buono, portato all’accudimento: dev’essere per questo che non ha orrore di occuparsi di me, come del resto aveva già dimostrato molti anni fa adottando un bambino deforme che nessuno voleva.
Oggi sono ancora da lui. Mi tiene delicatamente il viso con una mano e con l’altra tampona qualcosa sull’occhio offeso; quando ce l’ho così vicino mi accorgo che una sottile agitazione lo domina, che a stento riesce a contenere: le mani gli tremano impercettibilmente mentre mi sfiora il viso. Che cos’è questa forza che promana dalla tua persona, questa energia che ti brilla negli occhi e che ti toglie il sonno? Lo vedo che sei stanco. Sei stanco, e forse non solo perchè dormi male. Me lo hai detto tu una volta che fai fatica a riposare. Forse sei stanco di qualcosa, della tua vita solitaria? Dei tuoi fallimenti nell’alchimia? Delle illusioni della scienza e della religione? Ogni tanto mi parli di tutte queste cose, sono riflessioni a voce alta che io cerco di seguire finchè posso, ma a un certo punto ti perdo sempre: vai troppo al di là della mia comprensione, e forse anche della tua. Sembra quasi che il sapere ti abbia reso infelice.
<< Ho finito >> dici a un certo punto.
L’occhio ormai non mi fa più male da tempo; però la vista non si decide a tornare. Tornerà mai?
Mi dai le spalle per mettere a posto i tuoi unguenti.
<< Come mai sei triste oggi? >> chiedi, in un accesso di coraggio.
<< Non sono triste >> nego, ma so che il mio sguardo mi contraddice.
Ti volti di scatto e mi guardi con una dolcezza che ho imparato a conoscere.
<< Non Mentire >>
<< Allora non mentirmi più neanche tu >> ti dico; vedi, ti do del tu adesso, come mi avevi chiesto. 
Fai finta di non capire, ti avvicini. Io rimango seduta sul davanzale della tua finestra e ti fisso col mio unico occhio d’ambra.
<< L’ho capito, sai, che non ci vedrò più >> ecco, l’ho detto.
Ti fai subito scuro in volto; ti accomodi nel poco spazio che ho lasciato libero, troppo poco per un uomo alto come te.
<< Esmeralda… >> provi a dire. << Mi dispiace. Non volevo che ti abbattessi ancora di più. Dal giorno dell’incidente non ti ho più vista sorridere >>.
Abbassi gli occhi, a voce bassa mormori: << Mi manca quel sorriso >>.
Ma forse non l’hai detto veramente, forse sono io che sento cose che ho bisogno di sentirmi dire. Vago un po’ con lo sguardo per la stanza, dissimulando il mio nascente imbarazzo.
<< Oggi ho visto Phoebus, mentre venivo qui >> riesco a dire alla fine. Hai ragione tu, sono triste; non so come ma riesci sempre a cogliere il filo segreto dei miei pensieri. 
<< Ah. >> e ti fai subito serio. Lo so che tutte le volte che senti quel nome è come una stilettata per te.
<< Lui però non mi ha vista - mi affretto ad aggiungere - L’ho riconosciuto solo io, da lontano. Era sottobraccio con quella ragazza bionda, sua moglie credo. Sembravano felici >>
Ecco tutto. Era questo.
<< Scommetto che non lo sono affatto - dici - Lui è un infedele di natura >> 
Sai essere sempre caustico con alcune persone, con lui più di tutti. Ma posso capirti.
<< Dunque eri triste per questo? >> aggiungi preoccupato.
<< Sì, forse… non solo però >> . Quando mi pungi sul vivo balbetto sempre un po’, te ne sei accorto?
<< E’ anche che… non riesco ad accettare questa dannata cicatrice >> e mentre ne parlo sfioro quella scia dolorosa con la punta delle dita, quasi potessi cancellarla. <<  Sai, ho smesso di guardarmi allo specchio; o meglio, guardo solo la metà destra. Cosa è rimasto della ragazza che ero? Sono solo una rosa appassita… >>.
Sputo fuori frasi spezzate e sconnesse, perchè ne parlo con te? Non volevo mettere a tema questo, non voglio sembrare miserabile anche a te…
<< No! - mi interrompi bruscamente col tono fermo che sai avere tu - Non sei una rosa appassita, sei una rosa con un petalo screziato. Sei bella, più bella di prima: la cicatrice evidenzia di più quanto sia perfetto tutto il resto >> 
Ti fermi un momento per deglutire qualcosa di amaro.
<< E poi… hai la tua grazia, la tua bontà, il tuo candore, e questo nessuna cicatrice potrà mai nasconderlo. >>
E qualcosa che somiglia a una lacrima ti brilla in fondo agli occhi, ma non la lasci andare.
Non posso più sostenere il tuo sguardo, mi sento così miserabile. Sei sempre dolce e accogliente con me. Chissà se le pensi davvero le cose che mi hai detto.
Mi fingo improvvisamente interessata ai tetti di Parigi che coronano questa piazza sotto di noi. Chissà quanti drammi si consumano anche sotto quei tetti, quante lacrime e quanti amori si avvicendano tra quelle mura.
Anche io avevo un amore, una volta. Si chiamava Phoebus ed era bello come il sole. Altre qualità in realtà non ne aveva, ma era molto bello: questo non lo si può negare. Lui era il sole e io avrei potuto essere la sua luna. Ma dal giorno del fatto fatale non volle più vedermi; gli facevo ribrezzo così sfigurata. Prima ero una zingara, sì, ma almeno ero bellissima, o così mi diceva; poi sono rimasta solo una zingara, e sfregiata persino. L’amore finì. Anzi in realtà non iniziò mai.
Senza accorgermene mi sono fatta un pochino più vicina a te; è un giorno strano oggi: mi sento un po’ vuota, spezzata, ho solo pensieri tristi e una gran voglia di piangere. Che futuro c’è in serbo per una come me? Forse vorrei solo sapere che c’è un abbraccio anche per me dentro cui posso abbandonarmi e che mi terrà al sicuro per sempre, per sempre.
Riesco a guardarti di nuovo. Perchè prima di conoscerti mi eri sembrato così vecchio? Eppure non lo sei. Sei un uomo, sì, sei molto più grande di me ma non sei ancora vecchio. Hai ancora qualcosa del vigore della giovinezza sul tuo viso. I tuoi occhi dicono molto di te. L’energia che non lasci trasparire all’esterno ti cova dentro come una fiamma e accende i tuoi occhi affilati di mille bagliori scintillanti. Non sono mai riuscita a capire di che colore ce li hai, gli occhi. Sono mutevoli e sfuggenti come te.
Anche le tue mani sono adatte alla tua persona:  grandi, forti, dalle dita lunghe e affusolate, ben adatte a sfogliare le pagine di un libro o a dosare i tuoi intrugli negli alambicchi tintinnanti. Il resto del tuo corpo non lo so com’è fatto. Sei sempre fasciato in quella lugubre talare. Ma ti sei preso cura di me con una dedizione per me sconosciuta, mi hai raccolta e curata come fossi la cosa più preziosa che avessi, e di come sia il tuo corpo, adesso, non me ne importa poi molto.
<< Sono così stanca di essere triste >> dico alla fine, per rompere questo strano silenzio che si è creato tra noi. << Vorrei guardare avanti, non pensare più al passato, non pensare più alla dannata cicatrice… >>
Forse ti faccio un po’ pietà in questo momento, più pietà del solito perchè ecco fai una cosa che non hai mai fatto: mi abbracci. Ed io non so più che fare. Il calore del tuo corpo accosto al mio mi pervade dolcemente.
Avvicini la bocca al mio orecchio e mi sussurri con la voce che trema appena, come a chiedere perdono:
<< Scusami Esmeralda. Non ti ho detto prima dell’occhio perchè credo davvero che ci sia qualche altra cura che posso tentare; ci sono un paio di erbe che non ho ancora provato a distillare e che, forse, miscelate con una polvere speciale… >>
Ti metto l’indice sulle labbra, non continuare ti prego.
<< Non mi importa in fondo, va bene così. Mi basta… essere abbracciata così per sempre. >>
Non so come ma alla fine l’ho detto. Mi guardi stupito, stordito, felice.
<< …E poi le magie non ti riescono mai, Claude. >>. Ti prendo in giro e, senza accorgermene, sorrido. Mi stringi più forte e non c’è bisogno di dirsi nient’altro. Forse è questo l’amore che aspettavo.

Grazie a chi ha letto questa one-shot; se vi è piaciuta o avete qualunque altra cosa da dire o chiedere, fatemelo sapere con un commento! Alla prossima storia, Raf.

   
 
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