"I don't know where I'm going from here, but I promise I won't bore you."
(David Bowie)
Nella sua lunga esistenza ha cambiato una dozzina di stanze e almeno tre paia di mani l’hanno maneggiato con delicatezza.
È un po’ come svegliarsi ogni volta. C’è il buio, la carta che fruscia. Le mani. Le mani che lo voltano e soffiano via un po’ di polvere.
Non ci sono graffi sulla sua superficie. Le tre paia di mani che si sono succedute si sono sempre prese buona cura di lui.
Il piatto che gira è lo stesso da parecchio tempo. Lui non ha mai temuto di essere rimpiazzato, anche se loro adesso ascoltano altro. Il vinile è diventato roba da collezionisti. Prima sono venuti i cd, poi la musica ha iniziato a uscire da computer e scatolette bianche.
Ma loro non hanno mai smesso di ascoltare lui e i suoi fratelli. E lui gira, gira e gira ancora, fissando il soffitto con ogni solco e ogni incisione. La puntina gli fa il solletico mente il suono grezzo e grattato di cui va molto fiero riempie l’aria. Quante volte ha regalato quelle canzoni? Tante. È passato quasi mezzo secolo, ormai. Era il 1972 quando, per la prima volta, è uscito fuori dalla carta.
E loro hanno ascoltato e cantato. Conoscono a memoria ogni canzone. Così come lui conosce le loro facce e le lori mani.
E mentre la voce dai suoi solchi canta la strofa finale e ripete “Gimme your hands… you’re wonderful…”, vorrebbe davvero chiedere al viso chino su di lui, il più giovane a prendersi cura di lui, “Cosa è successo? Perché stai piangendo?”