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Autore: Evali    04/08/2023    0 recensioni
Vi, Re, Fe sono tre gemelli senza nome. Sono molto diversi gli uni dagli altri, il loro passato marchiato da indicibili traumi e dall'abbandono. Eppure, il futuro si prospetta radioso di fronte a loro, un destino che li lega al mare e ad una luogo a cui non appartengono.
In un mondo in cui magia, alchimia e leggende oscure plasmano villaggi e interi continenti, due ragazze e un ragazzo, gemelli di sangue, lotteranno per riscoprire le loro leggendarie origini e il dolore che ha da sempre caratterizzato la loro terra natìa.
* Sequel di "Figli di padri rinnegati" ma può essere letta anche separatamente *
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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La locanda pullulava di odori e di strane storie.
La donna dalla pelle scura si sedette sulla prima sedia che trovò libera, a pochi passi dal bancone.
Un odore di esotico surclassava tutti gli altri.
Era il porto più ad Est dell’Asia occidentale.
Lingue, accenti e cadenze diverse si mischiavano tra di loro, creando un caos a tratti gradevole, a tratti esageratamente chiassoso per la mente di chi era giunto lì solo per incontrare qualcuno; qualcuno che probabilmente non si sarebbe presentato.
La donna bevve dal suo boccale quel liquido che ricordava tremendamente il vino dei porti del suo continente natìo, provocandole un senso di nausea familiare a contatto con la lingua.
Nessuno avrebbe potuto riconoscerla, ormai si era fatta una corazza inscalfibile impossibile da penetrare.
Un tempo, nel proprio villaggio natìo, era definita “mostro”, “ceffo” o, come amavano dire più a sud, “megera”. Il villaggio in cui era cresciuta, dominato dai brutti, ma segretamente tenuto in piedi dai belli, coloro che reggevano le redini di ogni legge umana e morale, inconsapevolmente.
Non era mai uscita da quel villaggio. Quando era stata costretta a scappare via da quel luogo maledetto, e aveva avuto modo di mettere piede fuori di lì, seppur non avendolo mai desiderato, i suoi occhi si erano aperti: in fondo, coloro definiti “servi del Creatore” di Bliaint, di cui anche lei faceva parte, non erano poi così tanto orrendi se messi a confronto con altri.
Aveva scoperto di potersi permettere di non essere sempre considerata brutta, fuori da Bliaint, perché c’erano moltissime popolazioni, e centinaia di singoli individui in confronto a cui sarebbe stata definita persino bella.
Infondo, era discreta. Come tanti altri. Addirittura, con la crescita, o la vecchiaia (dipende dai punti di vista), il suo volto era diventato “caratteristico”, spesso apprezzato da chi era affascinato dal nuovo, dallo sconosciuto, dall’“esotico”, appunto. La sua statura era aumentata, le gambe si erano allungate, il corpo era stato sempre più scolpito dagli allenamenti corpo a corpo e con la spada, che l’avevano resa forte, forgiata, imponente, persino ammirevole. Era riuscita a dare una forma alla sua folta chioma di capelli ricci e increspati, relegandola spesso in una grossa e lunga treccia, o, in alternativa, in tante piccole treccine ai lati della testa, legate poi tutte insieme in una comoda acconciatura da combattimento. Tutto era stato plasmato secondo necessità, ai fini di comodità e praticità. Anche il suo abbigliamento era cambiato totalmente, in tal proposito: alti stivali che arrivavano fino al ginocchio, pantaloni in cuoio, pratici per agganciarci sopra cinture in cui depositare e nascondere le armi, giacche dello stesso materiale e maglie di tela.
Per finire, anche il suo viso “orrendo” non era più lo stesso. Anche quello si era allungato con gli anni, e per quanto i tratti fossero sempre sgradevoli, appariva interessante e accattivante per molti. Soprattutto grazie alla presenza delle cicatrici sulla fronte e accanto al mento. Detto ciò, di certo non si era risparmiata in quanto ad amanti, nel corso della sua vita.
Bevve ancora diversi sorsi, perdendosi ad ascoltare distrattamente le conversazioni (quelle comprensibili) di quella miriade di gente proveniente da tutto il mondo, mentre aspettava l’attesissimo destinatario del suo incontro.
Erano passati anni, dall’ultima volta che si erano visti.
“Hai sentito della festa che si terrà nel continente grigio?”
“Quella per festeggiare i quattordici anni della principessina?”
“È una contessina, idiota! Per gli dèi, pensa a quanti fiumi di gemme preziose scorreranno in quell’occasione! Quel tiranno di suo padre, quel dannato conte Agloveil, è sempre sin troppo sfarzoso in occasioni come queste! E sua moglie non è da meno!”
“E dimmi: questa contessina è bella quanto sua madre??”
“Scherzi?? Si dice che adombri notevolmente sua madre!! Si narra già della sua bellezza per i sette mari!”
“Considerando che è la figlia di un servo del Diavolo dell’estinto villaggio di Bliaint, non fatico a crederci! Insomma, lì non erano tutti bellissimi??”
“I servi del Diavolo lo erano. Belli quanto pericolosi! Spero che quella ragazzina abbia preso solo la bellezza da suo padre, e nient’altro. Si narra che egli fosse uno degli stregoni più potenti di Bliaint.”
La donna tremò nell’origliare tale conversazione.
“Beh, potrebbe comunque aver preso la pazzia da sua madre, invece. Insomma, non è del tutto sana di mente una donna che è talmente accanita sul nome che ha deciso per sua figlia, da scontrarsi col marito, fino ad arrivare al punto di dare a sua figlia due nomi! Ti rendi conto che quella ragazzina ha due accidenti di nomi perché i suoi genitori non sapevano decidersi?!”
I due conversanti scoppiarono in grasse risate, continuando a bere.
Se solo quei due avessero saputo che anche lei aveva due nomi, poiché anche lei era un’abitante dell’estinto Bliaint, ma facente parte della metà “sbagliata” del villaggio, gli sarebbe caduta la mandibola a terra a entrambi. La donna rise di quel pensiero.
- Intorno sembra tutto tranquillo – una voce giovane e maschile invase il suo campo uditivo, portandola a voltarsi verso il ragazzo in piedi vicino al suo tavolo.
- Da quanto tempo sei lì a fissarmi? – gli domandò lei, osservandolo per controllare che stesse bene. Non sia mai che nella sua breve perlustrazione della locanda qualcuno gli avesse fatto del male.
- Abbastanza da averti vista mentre ghignavi come una cretina, origliando la conversazione di quei due. Ridevi e, al contempo… - il ragazzino si bloccò, allungando un dito per asciugare la lacrima che aveva bagnato la guancia della donna. - … non ti avevo mai vista piangere. Va tutto bene?
La donna se ne accorse a sua volta e sfregò via ogni residuo di lacrime rudemente, con la manica della sua giacca. - Allora? Trovato nulla di interessante nella tua perlustrazione? – cambiò subito argomento.
Il ragazzino di fronte a lei era un vero segugio: silenzioso, in grado di passare inosservato, ma con una determinazione di ferro a soli quattordici anni. La sua pelle era marrone scura come la sua, il suo viso pulito, giovane, fresco, i suoi capelli corti e ricci, esattamente come quelli di lei; gli occhi due biglie color cacao grandi e brillanti. Indossava dei vestiti semplici da mozzo, ma che nascondevano armi e un grande potenziale nel combattimento corpo a corpo. Ed era alto, molto alto e ben formato fisicamente, per la sua età.
Prima che egli rispondesse alla domanda che gli aveva posto, la donna gliene porse un’altra: - Ci sono parecchie puttane in questa locanda. Qualcuna ti ha messo le mani addosso per rubarti qualcosa o per trascinarti con lei? – chiese seria.
- Parli seriamente…? Ho neanche quattordici anni, neanche li guardano i ragazzini come me.
- Sei un ragazzino ma sei di bell’aspetto. Le puttane sono capaci di tutto, lo sai bene. Guardati da loro – lo mise in guardia divertita, vedendolo sbuffare.
- Comunque – cominciò lui, rispondendole alla domanda di poco prima. – Nulla di interessante. Solo un ragazzo, che sembra parlare una lingua simile alla tua natìa. Forse è un abitante del tuo continente natìo, ma faceva parte di un altro villaggio – ipotizzò.
La donna vi pensò su. – Non sarebbe così strano. Come mai ha attirato la tua attenzione quel ragazzo?
- Non te lo so dire di preciso. Si vede che è un soldato. Ma è diverso da quelli che vedo solitamente. Sembra molto… gelido.
- Anche io sono gelida.
- Non quel tipo di “gelido”… mi ha dato l’impressione come se combattesse battaglie da quando è in fasce… oh, insomma, controlla tu stessa, forse potrebbe destare anche la tua attenzione. È seduto in fondo al bancone, con altri due uomini.
La donna spostò lo sguardo verso la direzione indicatale dal ragazzino e adocchiò la persona di cui egli parlava. Era un ragazzo più giovane di lei, forse di cinque anni, gli avrebbe dato ventisei o ventisette anni, non di più. Aveva dei folti capelli biondo cenere legati indietro, la pelle giovane e baciata dal sole puntellata di tante piccole cicatrici bianche, i lineamenti del suo viso erano complessi, ma palesemente armoniosi e raffinati, seppur il suo sguardo mostrasse una durezza e una freddezza senza pari. Dimostrava più della sua età solo per quello sguardo che era gelo puro. Capì per quale motivo Damyan avesse dato per scontato che fosse un soldato. C’erano tanti piccoli dettagli che lo rendevano palese, oltre alle cicatrici: per quanto il suo abbigliamento lo facesse somigliare più ad un pirata che ad un soldato, il suo corpo slanciato e ben scolpito mostrava fin da sotto i vestiti il tipo di addestramento forgiante e inumano destinato ai soldati; le sua mani vissute reggevano il boccale esattamente come avrebbe impugnato una spada, forza dell’abitudine: infine, dalla sua cintola di cuoio sbucavano più armi di quante ne potesse mai sognare lei.
Damyan aveva trovato il più aitante ragazzo presente in quella locanda, bene. Dunque? La donna non riusciva ancora a capire il motivo per cui quel tipo avrebbe dovuto attirare la sua attenzione, oltre che per recarle ampia gioia agli occhi.
Poi, il ragazzo si voltò casualmente verso la sua direzione, e la donna capì.
I suoi occhi erano il cielo. Sin da lontano, riusciva a notare il loro colore: un meraviglioso turchese, molto familiare. Ma non furono solo i suoi occhi familiari ad attirare l’attenzione della donna, bensì ciò che penzolava sul suo collo: un opale, una pietra sacra e bellissima color di luna, si stagliava sul suo petto coperto dal tessuto dei vestiti.
Un opale che era sempre stata abituata a vedere su un petto diverso. Erano passati quattordici anni ma lo ricordava ancora.
Un gioiello che non si sarebbe mai dimenticata, incastonato nella sua memoria sin dalle radici.
Non poteva essere un opale diverso, no, doveva essere lo stesso. Persino il cordoncino scuro era lo stesso.
La donna scattò in piedi all’improvviso per attirare la sua attenzione, ma finì solo per attirare l’attenzione di coloro che sedevano nei tavoli adiacenti al suo.
L’attenzione del soldato venne attirata da una prostituta, che gli poggiò sfacciatamente una mano sul petto, facendola vagare su tutto il busto. – Ehi, bel giovane. Cosa fai qui? – esordì lei con voce melliflua e una pronuncia pessima della lingua comune, era evidentemente una ragazza del luogo, una bellissima fanciulla dalla pelle più che olivastra. – Ti va di venire via con me? – insistette. Ma lui le scansò via la mano e si alzò in piedi.
- Ehi tu! – richiamò la sua attenzione la donna, a distanza, facendogli finalmente portare gli occhi su di lei.
Lui la osservò da lontano, contrariato.  
Esortò i suoi compagni a seguirlo e si diresse a grandi falcate verso l’uscita della locanda.
A ciò, la donna iniziò a rincorrerlo, a scavalcare incurante tutti i numerosi clienti abilmente, mettendo in atto le sue strabilianti doti da inseguitrice.
E lo avrebbe raggiunto, lo avrebbe sicuramente raggiunto se solo un'altra voce, nostalgica e familiare, nonché la voce dell’ospite che attendeva, non avesse attirato la sua attenzione.
- Hinedia. Geenie Hinedia – la richiamò l’uomo, usando entrambi i suoi nomi.
Per un attimo, la donna rimase a guardare il punto in cui la sagoma agile del soldato aveva varcato la porta d’uscita.
No. Non te ne andare…
E non sapeva se quella voce provenisse dal proprio cuore, o dal cuore di qualcun altro, sovrapposto al suo.
Con un lungo sospiro, si voltò verso l’uomo che l’aveva raggiunta: un lungo mantello e cappuccio nero a coprirlo, il viso marchiato di un uomo di quasi quarantacinque anni, la sofferenza che, seppur sepolta, non abbandonava mai il suo volto, un tempo gentile, il più gentile che Hinedia avesse mai visto.
Ora, quella gentilezza si era trasformata in indifferenza.
- Craig. Craig Daviston – salutò colui che un tempo era stato “padre Craig”, dopo tutti quegli anni di lontananza.
Gli andò incontro e lo vide osservarla, scrutarla da cima a fondo.
- Sei cambiata – fu la prima e unica cosa che disse, quell’uomo che aveva vissuto l’inferno sulla terra, e che aveva condiviso con lei più di quanto entrambi fossero disposti ad ammettere.
L’uno per l’altra, erano gli unici testimoni di un’altra vita.
Un’altra vita vissuta, estremamente diversa da quella che avevano imparato a vivere da quasi quindici anni, in seguito alla catastrofe che aveva spazzato via tutto ciò in cui credevano.
Ora erano persone differenti.
Ma quella vita li accumunava.
O meglio… due persone di quella vecchia vita, li accumunavano.
- Sono passati sette anni dall’ultima volta che ci siamo visti – gli rimembrò lei con un ghigno stanco, riprendendo posto alla sua sedia al tavolo, facendogli segno di sedersi accanto a lei. – Perdona la scelta del luogo, ma sono qui di passaggio. Ed è stato l’unico luogo che mi sembrava abbastanza discreto, dato che neanche un dieci percento dei presenti parla o capisce adeguatamente la nostra lingua natìa.
Craig annuì, capendo le sue motivazioni.
Si era fatto molto silenzioso, col passar degli anni.
Intanto, offeso dalla mancanza di presentazioni, anche il ragazzino, che era rimasto seduto tutto il tempo a quel tavolo, tossicchiò rumorosamente, attirando l’attenzione dei due.
Craig lo scrutò. – Chi è questo giovane? – domandò.
- Craig, ti presento mio figlio, Damyan.
L’uomo sgranò gli occhi dalla sorpresa, osservando le somiglianze tra i due, convenendo che ce ne fossero, ma non poi molte. – Come è possibile…? Sembra abbia quindici anni! Non dirmi che sei rimasta gravida prima che la catastrofe accadesse! Inoltre, sette anni fa, quando ci siamo rincontrati, non mi hai detto di avere un figlio!
- Abbassa la voce, accidenti! Credi davvero che egli sia un figlio puro di Bliaint come noi due?! Ma, soprattutto, credi davvero che allòra io avrei mai tradito il mio promesso sposo (per quanto lo odiassi) e fossi stata capace di giacere con qualcun altro?? Con tutto quello che stava succedendo al mio corpo, per lo più??
- Tutto può essere! Potrebbe essere stata colpa di Layla – azzardò l’ex prete.
- No. Ad ogni modo, Layla è dormiente, da anni, ormai.
Damyan li guardava come se stessero parlando una strana lingua sconosciuta e la curiosità ebbe la meglio.
Sapeva ci fossero molte cose che sua madre non gli aveva mai detto riguardo la sua vecchia vita a Bliaint, il suo leggendario villaggio di provenienza.
Giravano voci, parecchie voci su quel villaggio e sulla tremenda fine che aveva avuto. In particolare una, spaventosamente inquietante e affascinante, riguardo un Dio sanguinario, che aveva posto fine alla maledizione di Bliaint, trascinando tutti i suoi abitanti e tutti gli assalitori nel baratro della morte, risucchiandoli fino alle viscere della terra. Probabilmente quel Dio sanguinario era diventato un culto vero e proprio in diverse parti del mondo, Damyan non ne sarebbe stato sorpreso.
Era in assoluto l’argomento che riempiva le bocche dell’intero globo a qualche anno dall’estinzione di Bliaint.
Eppure, nonostante l’argomento fosse prettamente proibito, e sua madre avesse letteralmente fatto di tutto in quei quattordici anni per tenere nascosta la sua identità di unica abitante di Bliaint sopravvissuta all’estinzione, Damyan era sempre più curioso di sapere.
- Mi spiegate di cosa diavolo state parlando? Vi ricordo che ci sono anche io qui – pretese il ragazzo, attirando la loro attenzione.
 - Ti ho tenuta nascosta l’esistenza di Damyan sette anni fa, perché volevo proteggerlo. Ero ancora in parte molto colpita da ciò che accadde allòra e non volevo rischiare in alcun modo. Forse sono stata una madre sin troppo protettiva inizialmente – disse Hinedia sorridendo con un velo di rammarico, guardando suo figlio. – E poi… eri già sconvolto di sapermi ancora viva, così come io ero sconvolta di sapere te ancora vivo. Ed eri anche deluso da me… quando hai appreso che avevo deciso di non prendermi cura dei gemelli. Ho ceduto i figli della mia più cara amica a degli sconosciuti, sì, e quando te l’ho detto, i tuoi occhi si sono svuotati, Craig. Non hai mai compreso le mie ragioni.
A tali parole, Craig ammutolì, non mostrando alcuna reazione palese. Aveva imparato a tenersi tutto dentro e a non lasciar trasparire nulla, esattamente il contrario di ciò che faceva in giovinezza, nel tempo in cui ogni emozione era trasparente come l’acqua cristallina nel suo viso. Era cambiato, in tutto e per tutto.
- Vuoi sapere come è stato concepito? – riprese Hinedia, riferendosi a suo figlio. – Quando io e Quaglia siamo scappati dal villaggio prima che la terra risucchiasse tutto, ero morta nell’anima e avevo tra le braccia i tre gemelli neonati. Correvo a perdifiato ma non avevo la minima idea di cosa avrei fatto da lì in avanti. Tutto ciò che sapevo è che li avrei protetti con la mia stessa vita, perché erano l’unica cosa che mi restasse di lei.
Poi, come ben sai… Quaglia è… - la voce le si bloccò e Craig la interruppe:
- Ancora non vuoi dirmi come è morto. Dopo tutti questi anni – le disse, risentito. – Potrei iniziare a sospettare che non sia davvero morto.
- Posso assicurarti che lo è. Altrimenti avrei perso gli ultimi quattordici anni a cercare anche lui.
Ma non voglio parlare di come è morto.
Ad ogni modo… non sapevo dove dormire, i gemelli iniziavano ad avere fame e piangevano continuamente. Io avevo diciotto anni e non sapevo minimamente cosa fare.
Avevo bisogno di un posto sicuro e fisso dove passare la notte, almeno per qualche giorno, per capire cosa fare.
Trovai un uomo vedovo, che viveva da solo, in un villaggio poco distante. Mi offrì la sua casa e il suo cibo e mi disse che mi avrebbe aiutata a prendermi cura dei bambini. Così, accadde. Ci andai a letto, per ricambiare la sua gentilezza. Non era un uomo viscido, né un maniaco, tutt’ora ho una buona considerazione di lui. Era solo molto solo. Motivo per cui si accontentò di me, in quanto non poteva aspirare ad altro.
Fu la mia prima volta per me. Egli è il padre di Damyan.
Damyan conosceva a memoria quella storia, perciò non batté ciglio mentre la riascoltava.
- Il suo nome era Aws Kirkennet. Il caso volle che avesse la pelle scura quasi quanto la mia.
- Che fine fece l’uomo? – domandò Craig.
- Fui io ad andarmene. Avevo bisogno di abbandonare quel contenente e… di capire cosa avrei fatto con i gemelli. Dovevo lasciarmi tutto alle spalle. Compreso lui – disse secca.
- Damyan Kirkennet, dunque – disse Craig posando gli occhi sul ragazzo. – Nessun doppio nome, ma solo un nome e il cognome del padre.
- Esatto – confermò Hinedia. – Non ha neanche quattordici anni, ma ne dimostra di più. Nulla lo lega a Bliaint. Solo il suo sangue, per metà diviso con me. Null’altro. Somiglia persino più a suo padre che a me – disse la donna, rincuorata da quel pensiero.
- Ciò non significa che non sia per metà un servo del Creatore di Bliaint – precisò Craig, guadagnandosi un pugnale puntato al collo da Hinedia.
- Non osare – spirò lei. Tuttavia, entrambi sapevano che non l’avrebbe mai fatto. Non avrebbe mai fatto del male a quell’uomo.
Fu spontaneo, per Damyan, chiedersi come avesse fatto Craig, invece, a sopravvivere alla strage di Bliaint. Dalle informazioni che avevano, Craig e Hinedia erano gli unici due sopravvissuti alla furia del Dio sanguinario. Tuttavia, convenne che fosse meglio non domandarlo. Tempo al tempo. Eppure, un’altra domanda non riuscì proprio a trattenerla, in quanto era letteralmente il motivo per cui lui e sua madre si trovavano lì: – Perché abbandonasti i tre gemelli, invece che crescerli tu?
Hinedia si voltò di scatto verso suo figlio, a tale domanda. Abbassò la daga dal collo dell’ex prete, il quale era rimasto rilassato come una statua di sale, e riniziò a parlare. – Non li ho abbandonati, Yan – sussurrò. Il dolore represso era palese nel suo duro tono di voce. – Volevo solo il meglio per loro, e sapevo di non potermi prendere cura di tutti e tre. Tre bambini erano già impegnativi… ma quattro, con il tuo arrivo, lo sarebbero stati ancora di più. Non avevo un lavoro, non sapevo come guadagnarmi da vivere, ero una fuggitiva, ed ero spezzata dentro… nel cuore e nell’anima.
Codarda Codarda Codarda  non faceva altro che dire lo sguardo di Craig.
- Decisi di prendere la decisione migliore per loro: li donai ad una brava donna in una città molto a Nord del nostro continente natìo.
- Ad oggi, ti penti di non averli tenuti con te? – fu Damyan a domandarglielo.
- Non lo so. Dovrei prima conoscere come hanno vissuto finora. Se davvero hanno avuto la vita che avevo sperato per loro, e che io non avrei potuto garantirgli – fu sincera. – Non è stato facile celare le mie origini. Non oso immaginare se avessi dovuto celare anche le loro, di origini. Se fosse successo loro qualcosa sotto la mia tutela…
- Perché hai voluto vedermi qui, oggi, Hinedia? – la interruppe Craig, con voce ferma.
Damyan lo osservò. Anche lui doveva aver fatto molta fatica a rifarsi una vita dopo ciò che era accaduto. Forse, persino più di sua madre.
- Perché dobbiamo ritrovare quei gemelli, Craig.
Devi aiutarmi a ritrovare i figli di Judith – rispose senza filtri la donna, pronunciando finalmente il suo nome, facendo tremare Craig nel farlo.
- Che cosa...? Ti sei bevuta il cervello, per caso?
Damyan rise per l’ilarità e l’assurdità di quella situazione, smorzando il clima teso.
- No, affatto.
Devi aiutarmi a rintracciare quei ragazzi, Craig.
Dobbiamo scoprire che fine hanno fatto, dove sono, che aspetto hanno.
Sono tornata dalla donna a cui li ho affidati e lei mi ha detto di averli ceduti a qualcun altro quando erano ancora piccoli.
- Mi stai dicendo che potrebbero essere dovunque nel mondo?!?
Stiamo parlando di due ragazzine e un ragazzino di quattordici anni! Pensi sia così facile trovarli, dal nulla?? Potrebbero essere ovunque!
- Non ho perso tempo, li sto cercando da mesi, e con l’aiuto di Damyan ho trovato una pista bella e buona – annunciò Hinedia srotolando una cartina sul tavolo e poggiando il dito sul punto che Craig si aspettava meno di tutti.
- L’Asia?!
- Esatto.
- Sarei davvero curioso di sapere come sei arrivata a questa conclusione. Sarebbero stati cresciuti da una famiglia asiatica, dunque? La loro cultura è diversissima dalla nostra.
- Esatto anche questo. Ma dalle ricerche che abbiamo fatto, è probabile che abbiano lasciato la terra che li ha cresciuti, e che stiano navigando in acque non troppo lontane, ma neanche vicine.
- Questo vuol dire tutto e niente – affermò stanco l’ex prete.
- Sto cercando di dirti che, probabilmente, siamo vicini. Più vicini di quanto pensiamo – disse la donna, sorridendo determinata. – Allora? Mi aiuterai a trovarli?
- Voglio che prima tu mi dica per quale motivo vuoi cercarli proprio ora.
E voglio che tu sia sincera con me – la voce di Craig trasmetteva tutto il dolore e l’agonia nascosta di una persona che aveva impiegato secoli ad andare avanti, a lasciarsi indietro ciò che aveva vissuto a Bliaint.
Un dolore terribile e corrosivo emergeva dai suoi occhi.
Forse… quel dolore non lo aveva ancora superato. Brulicava in lui come un veleno, che avrebbe strappato via la sua vita prima del previsto.
Damyan non poté fare a meno di chiedersi se quel dolore insormontabile fosse provocato in particolare da qualcuno, una persona che l’ex prete si era lasciato indietro, a Bliaint.
Hinedia, inaspettatamente gli prese la mano e la strinse nella sua, entrambe ruvide, per motivi differenti.
- Quello che sto per dirti ti sembrerà assurdo, ma… credo che qualcuno che probabilmente non ti aspetteresti mai, abbia svelato il mistero della trasmutazione dei metalli e dell’anima.
 
 
Il capitano di una delle più temibili navi pirata dei mari asiatici fece il suo ingresso nella stiva, un luogo umido e dal pregnante odore di sangue.
I suoi occhi a mandorla, caratteristici dell’Asia orientale, si allungarono maggiormente nel momento in cui un ghigno apparve sul suo volto avvenente, mentre osservava i prigionieri che erano riusciti a catturare dall’ultimo saccheggio.
Non solo avevano la nave piena di ricchi tesori ora, ma erano riusciti anche a rapire diversi abitanti di quel luogo straniero su cui erano approdati: alcuni di loro avrebbero fornito informazioni preziose, altre sarebbero state utili in altri modi.
Si asciugò il sangue dalla fronte e si avvicinò alle decine di prigionieri inginocchiati e incatenati, osservandoli attentamente.
Tra loro c’erano diverse belle donne.
In particolare, una di loro attirò notevolmente la sua attenzione, tanto da fargli aprire e chiudere gli occhi un paio di volte, per accertarsi di star vedendo bene: la sua bellezza era a dir poco celestiale, i suoi lunghi e folti capelli rossi cremisi le coprivano il corpo inginocchiato; i suoi occhi, neri come la pece, grandi e da cerbiatta, pregni di sfida; la sua pelle chiara come il latte più incontaminato e vergineo; il volto quello di una dea del fuoco. C’era solo un unico problema: era una bambina. O per lo meno, il suo corpo sembrava procace, ma non dimostrava più di quattordici anni. Aveva dei cenci addosso, come se fosse stata fatta schiava già da prima di essere rapita. Accanto a lei, vi era una ragazzina della stessa età e dello stesso colore di capelli, ma meno bella di lei. Poi, lo sguardo dello spietato capitano si posò anche su un prigioniero che era vicino alle due, ma in disparte, esattamente al limite della fila, come per non farsi notare, per nascondersi ai suoi occhi.
Al capitano non piacevano gli scarafaggi che si nascondevano.
- Uomini, portatemi il ragazzino lì in disparte, subito – ordinò ai due membri della sua ciurma che gli erano accanto, i quali si apprestarono ad obbedire.
Presero il ragazzino di peso, e lo trascinarono davanti al capitano, senza incontrare nessuna resistenza da parte sua.
Solo le urla di quelle che dovevano essere le sue due sorelle, la dea dai capelli rossi e l’altra, si elevarono in protesta.
Il capitano gli prese i folti e lunghi capelli tra le mani e li tirò indietro senza grazia. – Tu, guardami!
Il ragazzino in questione aveva i capelli neri come l’ebano, più neri del cielo notturno; la sua pelle era bianca porcellana tra le sue mani, delicata e setosa come doveva essere anche quella della sorella, niente di meno; ma ciò che lo colpì maggiormente furono i suoi occhi. Nonostante l’aspetto cencioso da schiavo del ragazzino, il suo sguardo smarrito, come di un cucciolo ferito, e la sporcizia che lo copriva, i suoi occhi spiccavano come due diamanti bianchi e luminosi, quasi streganti. Erano grandi, contornati da lunghe ciglia nere, di un taglio ampio, e le sue iridi erano ghiaccio, talmente chiari da non averne mai visti di simili prima d’ora. Nessun colore emergeva in loro.
Solo il ghiaccio.
Per quanto non avesse mai prestato attenzione all’apparenza dei maschi, l’uomo dovette ammettere che quel ragazzino fosse bello almeno quanto sua sorella, se non di più.
Il ragazzino schiuse leggermente quei suoi occhi stregati, indicibilmente spaventato dall’uomo dinnanzi a sé.
Il suo atteggiamento così spaurito e servizievole lo facevano apparire non più grande di quattordici anni.
- Quanti anni hai? – gli domandò brusco.
- Quattordici.
- E le tue sorelle lì dietro?
- Non ho sorelle… - cercò inutilmente di nasconderlo, ma quel moccioso non era bravo a mentire, il capitano lo smascherò subito, tanto che rise.
- Siete gli unici tre occidentali in questo ammasso di prigionieri! Credi che io sia un idiota, ragazzo?! – si spazientì stringendogli maggiormente i capelli tra le mani, fino a far comparire una deliziosa smorfietta di dolore sul suo bel visino terrorizzato. – Inoltre… non vedevo dei volti così divini da un bel po’, sai? – gli sussurrò all’orecchio, guardando con la coda dell’occhio anche la scontrosa sorella, che li osservava a distanza.
- È pericoloso paragonare le divinità agli esseri umani, signore – rispose a mezza voce il ragazzino, facendo spalancare gli occhi del capitano, il quale lo lasciò andare con uno strattone.
A ciò, il ragazzo provò a strisciare nuovamente vicino alle sue sorelle, ma il capitano afferrò la catena che gli teneva legati i polsi e lo ritrascinò verso di sé. – Che fai, scappi via da me, principino? Avanti, vieni qui – lo incoraggiò ghignante, accovacciandosi e attendendo che l’animaletto spaurito si riavvicinasse.
- Cosa volete da me? – gli domandò docilmente il ragazzo, cercando di celare la paura.
- Dì un po’, che cosa ci fanno tre piccoli occidentali nella terra del re Yuan, il domatore di serpenti? E come fate a saper parlare così bene la nostra lingua?
- Il re Yuan ci ha presi come schiavi – rispose tremante.
- Dovete essere molto preziosi… quanto pagherebbe per riavervi?
- Qualsiasi cifra…
- Interessante.
- Ma voi … - trovò un pizzico di coraggio il ragazzino. – Voi gli avete rubato molto, non è così…?
- Oh sì, puoi giurarci! – esclamò tronfio e soddisfatto. – È stato un colpo da maestro. Tutte le sue riserve di gemme e di diamanti!
- E anche… anche quelle di vetro? Quello che chiamano “vetro indistruttibile”? Il re ne parlava sempre…
- Ah! Sei curioso, ragazzino, non è vero?! Ad ogni modo sì, anche quello! Ma non è stato affatto facile! Ho perso diversi uomini della ciurma a causa di quei dannati serpenti. Ma ne è valsa la pena. Quel vetro è frutto degli dèi e lo pagheranno profumatamente!
- Non riesco a crederci…
- Credici pure, ragazzo!
- E dove avete messo tutta quella roba?
- Ben nascosta sotto i nostri piedi – rispose nuovamente ghignando, per poi afferrare il mento del ragazzino tremante e portarlo vicino a sé, tanto da respirargli sul volto. – Ma ora basta domande. Dì un po’, il vostro re si offenderebbe se, prima di rivendervi a lui ad un buon prezzo, io mi diverta un po’ con voi tre?
- Diver…tirvi…? – domandò ancor più spaesato ed impaurito il ragazzo.
- Oh andiamo… sono certo che il vostro padrone vi faceva le stesse cose che voglio farvi io.
Ad esempio tua sorella… dimmi un po’… sembra morda da quanto è scontrosa. C’è un modo per scioglierla un po’? – domandò lascivo, guardando la ragazza a distanza.
- No, non c’è un modo. Ma se le darete un po’ delle gemme che avete rubato… si concederà a voi senza opporsi – rivelò il ragazzino.
- Ah, dici davvero? Bene, buono a sapersi. Vorrà dire che farò preparare una collana di diamanti per lei, ordunque. E tu, principino? Anche a te piacciono le cose luccicanti? – gli domandò, quasi come stesse parlando a un bambino, o a una verginea fanciulla.
- Vi ho appena detto come convincere mia sorella… ve l’ho ceduta. Non vi basta lei?
- Tu non hai ceduto proprio nulla a nessuno. Siete tutti  miei.
- Io non voglio. Vi prego… farò qualsiasi altra cosa.
A ciò, il capitano assunse una posa fintamente greve, come affaticata dal troppo ragionare. – Non mi piace violare i miei prigionieri. Non sono un barbaro io, sai? Facciamo così: io ora ti porterò un bell’anello, bello quanto la collana che porterò a tua sorella. Se ti piacerà abbastanza, accetterai anche tu di fare tutto ciò che voglio.
Il ragazzino non rispose, ma prima che potesse anche solo pensare di dire qualsiasi cosa, l’uomo chiamò uno dei suoi sottoposti. – Va’ a prendere un piccolo anello di diamanti dal copioso bottino di oggi.
A ciò, l’uomo si incamminò verso una direzione ben precisa: uscì dal corridoio e aprì una botola che lo avrebbe portato verso il basso, sulla destra.
Il ragazzino seguì attentamente tutti i suoi movimenti.
- Che c’è? – lo smascherò il capitano. – Vuoi scoprire dove tengo i miei tesori? – lo rimproverò bonariamente.
- No, non oserei mai… - rispose timidamente il ragazzino, il quale iniziò a puntare i suoi occhi incantatori fuori dall’oblò di tanto in tanto. Il capitano non diede peso alla cosa.  
Dopo qualche minuto, il sottoposto tornò, richiuse la botola e porse al suo capitano lo splendido anello di diamanti bianchi, brillanti come le stelle. – Ecco qua – disse il tronfio capitano, infilando l’anello sull’indice affusolato del ragazzino.
Egli osservò l’anello sul suo dito, sorpreso. – È bellissimo…
- Allora? Ti ho convinto?
Prima di rispondere, il ragazzo dagli occhi incantatori guardò per l’ultima volta fuori dall’oblò.
Poi, accadde una cosa che sconvolse indicibilmente il capitano: l’innocente e spaventato fanciullo palesò una fila di denti bianchissimi, in un sorriso diabolico da far accaponare la pelle.
Si voltò verso di lui e gli sorrise in quel modo, trionfante, furbo, come se avesse il mondo in mano.
Il suo aspetto era totalmente cambiato nel giro di qualche secondo: non più ricurvo e sottomesso, non più schivo e timoroso; bensì sicuro di sé, sorridente, schernente, più adulto, più consapevole e persino più virile.
- Spiacente. Magari con qualcun altro andrà meglio – commentò con una voce diversissima dalla precedente, più calda e decisa, alzandosi in piedi e sganciando un potentissimo calcio in faccia al capitano, in grado di rompergli una decina di denti e di fargli perdere conoscenza.
Intanto, rumori di assedio di una nave nemica fecero ben sperare tutti i prigionieri ancora incatenati.
I giovani pirati, tutti non più grandi di diciotto anni, piombarono come grilli anche nella stiva, disarmando e uccidendo i membri della ciurma nemica.
Il ragazzo dagli occhi di ghiaccio si voltò verso le due sorelle ancora incatenate. – Fe, Re, eccomi! - tolse le catene a tutte e due, mentre la meno avvenente rassicurava il resto dei prigionieri: - Non preoccupatevi, ora vi libereremo tutti quanti. Siamo pirati anche noi, ma non vi faremo del male!
- Il bottino rubato al re Yuan è in quella botola dietro al corridoio! – indicò il ragazzo ai primi membri della propria ciurma che vide accorrere verso di loro, in soccorso. – Non mettete a soqquadro la nave, ci fornirà dei buoni pezzi di ricambio, è di ottima fattura! – aggiunse.
- Uccidete tutti i membri della ciurma! – si unì agli ordini anche la bellissima sorella adocchiata dal capitano, con voce dura e determinata, mentre si ripuliva dalla sporcizia che si erano appositamente messi addosso per sembrare schiavi. – Tutte le volte c’è bisogno di questo teatrino, Vi? – domandò a suo fratello alzando un sopracciglio, mentre recuperava una spada nel trambusto.
- Questo “teatrino” ci ha permesso di scoprire che questi idioti hanno avuto successo nel rubare l’ambito bottino del re Yuan, così da evitarci rischi inutili – rispose lui.
- Ed era necessario che “mi cedessi” a lui? – domandò stizzita, come faceva ogni volta, iniziando a combattere a sua volta.
- Se non lo avessi fatto, non avrei mai saputo il punto esatto in cui nascondeva i suoi tesori. Credevo bastassi tu, invece ha insistito anche con me.
- Quel dannato schifoso! – commentò lei, mentre intanto un’altra orda di membri della giovane ciurma dei tre li raggiungeva, con il luccichìo di conquista che brillava nei loro occhi.
- Ehi! – fece il suo ingresso una giovane pirata dai tratti asiatici, bella e selvaggia.
- Ehi – ricambiò il ragazzo porgendole il gomito, accogliendola con il loro saluto caratteristico. – Ci avete messo un bel po’ ad arrivare.
- Abbiamo avuto dei rallentamenti, mi dispiace. Bell’anello comunque!
- Questo? – domandò il ragazzo guardandosi l’indice, già dimentico del gioiello nuovo che adornava il suo dito. – Me l’ha dato lui – disse con scherno, indicando il corpo del tronfio e stupido capitano della nave nemica, che giaceva a terra, rivelando la sua reale forma patetica. – È stato sin troppo facile e noioso farla franca con lui – aggiunse annoiato, per poi recuperare la spada portagli dalla pirata e annunciare: - Torniamo alla nostra nave.
- Agli ordini, Capitano.
 
   
 
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