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Autore: BluCamelia    10/08/2023    1 recensioni
Anno 1994. Costretta a cambiare scuola per via della separazione dei genitori, Milly affronta il trasferimento con ironia, una certa ansia sociale e un pizzico di presunzione dovuta al suo passato di studentessa modello. Non sa che dovrà affrontare sfide che hanno ben poco a che fare con la media dell'otto.
Una delle sfide in particolare potrebbe rivelarsi troppo difficile per una liceale: il professor Vanini.
Non è una storia d'amore.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Anno 1994.


L'edificio era vecchio, probabilmente della fine dell'Ottocento. Con una manutenzione decente avrebbe avuto qualche pretesa di eleganza, ma vedendo l'intonaco scrostato e i graffiti sulla facciata sospettai che non fosse questo il caso. Ripensai alla mia vecchia scuola e storsi il naso.

Purtroppo avevo buoni motivi per trovarmi lì.

Entrai. Soffitti alti con macchie di umido, una scala troppo angusta che saliva al primo piano, finestre alte e strette che lasciavano entrare poca luce. Che sorpresa.

Andai in segreteria a chiedere in che classe mi avessero messo e mi diressi dove mi aveva indicato la segretaria. La classe era in fondo a un corridoio.

A pochi metri dall'ultima porta mi si affiancò una ragazza molto alta. Mi chiese: «Scusa, è questa la quarta B?»

«Credo di sì, sono nuova, mi sono appena trasferita.»

«Davvero? Anch'io, mi chiamo Carla.»

Il mio cuore si alleggerì all'istante. Dello studio non avevo paura, ma le mie doti sociali non erano il massimo, e non sapevo se sarei riuscita ad inserirmi in un gruppo dove tutti si conoscevano da tre anni.

«Io sono Milena, ma mi chiamano Milly.» Il diminutivo che usava mio padre, Lilly, lo sopportavo solo da lui perché mi sembrava troppo da cagnolino.

Entrammo. Il professore non era ancora arrivato. La prima persona che notai fu una ragazza affacciata alla finestra; il mio sguardo era rimasto calamitato dai capelli ramati e da un posteriore decisamente grosso. Sentendo che le chiacchiere dei compagni si erano ammutolite la rossa si girò verso la porta. Stavo per presentarmi, ma all’improvviso mi ritrovai davanti alla faccia un quaderno arrotolato a mo' di megafono.

«Ed ecco le vincitrici del grande concorso!» Era un ragazzo scheletrico col naso grande e gli occhi infossati, una specie di giovane Don Chisciotte. Io e Carla ci bloccammo, sorprese.

«Quest'anno ce ne hanno mandato addirittura due?» chiese la rossa. «Poveracce, le avete già spaventate...»

«Che concorso abbiamo vinto?» chiesi, cercando di sembrare disinvolta.

«Dei fortunati che finiscono in sezione B. È uno scherzo» spiegò il nasone. «Siamo in pochi perché in questa sezione bocciano un sacco...» un moro che portava i capelli raccolti in un codino e una maglietta con Che Guevara gli diede una teatrale gomitata «...così quando qualcuno si trasferisce da un’altra scuola lo mandano sempre qui. Noi siamo contenti. Per noi, non per i nuovi.» Altra gomitata. «Specialmente se sono ragazze carine. Siete brave? Non vogliamo perdervi subito...» Maglia rossa prese un quaderno e glielo sbatté in testa. Don Chisciotte lo allontanò con uno spintone.

«Mah, così così» disse Carla.

«Sì, abbastanza» risposi io, dando un'immediata dimostrazione delle suddette doti sociali.

Sentimmo avvicinarsi il rumore di tacchi di una donna che camminava con passo deciso. L'aula era in fondo al corridoio, quindi poteva venire solo da noi.

«La preside!» disse qualcuno. Tutti si affrettarono a sedersi, e anche io e Carla ci infilammo in un banco rimasto libero. Invece entrò una ragazza con lunghi ricci neri che le ballavano sulla schiena al ritmo del suo passo baldanzoso. Era in jeans e maglietta ma portava le scarpe coi tacchi, e non quelli larghi e quadrati che si usavano allora, ma proprio i tacchi a spillo, e una tracolla al posto del classico zainetto. Sembrava più grande di noi e non capivo se fosse un’insegnante giovanissima o una ripetente. Vedendoci tutti zitti e seduti sporse le labbra carnose in un grazioso broncio. «Perché  mi guardate così?»

«Ma vaf... Noemi, ci hai fatto prendere un colpo. Pensavamo che fosse la preside. Quando cammini fai un rumore...» disse il ragazzo con la maglietta di Che Guevara.

«Poteva essere pure la zoccola artistica.»

«No, ho visto Paris poco fa e mi ha detto che alla prima ora veniva lui.»

«Matematica il primo giorno alla prima ora, o gioia!» si sedette al banco rimasto libero, che era proprio quello dietro di me. «Ciao, siete nuove? Io sono Noemi.»

«Sì, io sono Milly.»

«Io Carla».

 Ci studiò da dietro gli occhiali dalla montatura dorata, che in contrasto con il fisico formoso le davano un po' l'aria della segretaria porno. Forse voleva controllare che la sua supremazia femminile nella classe non fosse minacciata dalle nuove arrivate. Mi liquidò con una velocità offensiva, poi esaminò Carla più attentamente. Quasi uno e ottanta, una gran massa di capelli neri trattenuti a fatica da un elastico, zero trucco, pantaloni della tuta e scarpe da ginnastica. Era una bella ragazza, ma era chiaro che aveva passato la vita sui campi di pallavolo o giù di lì e che se avesse provato a camminare con i tacchi a spillo sarebbe caduta faccia a terra.

«Parliamo dopo, ecco il prof» disse Noemi.

Questo Paris era un tipo snello ed elegante di un’età indefinita tra i trentacinque e i cinquanta, con capelli biondo cenere che cominciavano a ingrigire. Occhi inquietanti. Classica espressione da vigliacco che si diverte a torturare quelli più vigliacchi di lui. Non mi piacque neanche la voce, aveva quel tono teatrale e artificioso di chi vuole essere per forza simpatico e non ci riesce. «Facciamo conoscenza con le nuove arrivate. Voi siete...? Carla Costa e Milena Barbier...»

«Bàrbier» lo corressi. Tutti pronunciavano il mio nome alla francese.

Paris disse due scemenze sulle vacanze finite e sul nuovo anno che iniziava e ci fece presentare alla classe. La rossa era Elisa, Che Guevara era Gabriele e Don Chisciotte Alberto.

In teoria dopo avrebbe dovuto cominciare la lezione, ma sembrava stranamente riluttante, come se aspettasse qualcosa.

Un vocione da energumeno dietro di me disse: «Ma prof, non ci vediamo da tre mesi. Sicuramente avrà scritto qualcosa di nuovo. Ce lo legge?»

Un coro di ‘sììì’ e ‘per favore’ si unì alla richiesta.

Vedendo la mia faccia sorpresa, Paris disse: «Mi diletto di poesia» con aria di scusa. Era chiaro che la classe voleva solo rimandare l’inizio della lezione e lo stava pure prendendo un po’ per il culo, ma era come se in prof non potesse resistere. Sospettai che le sue poesie non avessero una platea di estimatori troppo ampia.

«Bene, se insistete... questa poesia si intitola Sul ciglio del burrone».

Sinceramente non so se fosse bella o brutta, ero troppo esterrefatta per ascoltare. La poesia non era abbastanza lunga da occupare un'ora, però finita la lettura il generoso Paris non iniziò a spiegare, ma ci concesse di provare a interpretarla.

Il suono della campanella fu un sollievo. Anche se non avevo partecipato mi sentivo come Fantozzi nella scena della Corazzata Potëmkin.

«Almeno abbiamo scampato trigonometria...» disse Gabriele, con espressione furba.

«Io sinceramente avrei preferito» disse Alberto.

«Allora è davvero il professore di matematica?» chiese Carla, sorpresa. «Credevo di aver capito male.»

«E il professore di filosofia che fa, scrive sulla lavagna i conti della spesa?» chiesi.

I nostri compagni scoppiarono a ridere troppo di gusto rispetto alla mia freddura.

«Vanini ne sarebbe capace!»

«Già, troverebbe qualche profondo significato nel prezzo del formaggio.»

«E il guaio è che poi ti interrogherebbe sul prezzo del tonno...»

«Ma ce l'avete un professore normale?»

«No» risposero, quasi a una voce.

«Ci sarebbe la prof di italiano...» disse Elisa.

«Chiamala normale, è un sonnifero umano.» disse Alberto.

«Ti sembra così perché ti piace la matematica, vai addirittura d'accordo con Paris. Ma la Guida non è male.»

«Qualche nota positiva, in questo panorama...?» Chiesi, con la faccia abbattuta. In realtà ero contenta, i professori matti erano un ottimo argomento di conversazione e come ho detto non mi preoccupavano davvero.

«Vanini è bello» disse una ragazza di cui non ricordavo il nome, suscitando risatine e versi ironici.

Meglio che niente. A proposito, Carla aveva aperto il diario per scrivere gli orari della settimana, e vidi che all'interno della copertina aveva incollato la foto di un giovane sui venticinque anni. Non sembrava abbastanza bello per essere un attore, ma la foto era ritagliata da una rivista, quindi non poteva essere il suo ragazzo. Solita figura di merda in arrivo perché non conoscevo le celebrità.

«Chi è?»

«Non segui la pallavolo, eh? Il grande Andrea Giani!»

Va bene, non seguire la pallavolo era socialmente accettabile. Prima che potessi rispondere entrò la professoressa dell'ora successiva, la Colombo, disegno e storia dell'arte. Una ragazza carina sui trenta, con un caschetto biondo, ma dal modo in cui ci squadrò freddamente da capo a piedi capii che potevo scordarmi quell'atteggiamento amichevole e informale tipico dei professori giovani.

«Quest'anno studieremo il Rinascimento. Prendete il manuale. Ora, senza aprirlo, chi mi sa dire cos'è l'immagine in copertina?»

Seguì un imbarazzante silenzio, finché qualcuno disse: «E' la Madonna con due angeli di Filippo Lippi.»

Ci girammo verso Elisa. Dagli sguardi sorpresi degli altri capii che non era esattamente nota come esperta di pittura rinascimentale.

La professoressa invece di essere contenta aveva tutta l'aria di chi ha preso un ceffone ma cerca di non scomporsi. «Ah, bene Bartezaghi... e come mai la conosci?»

«Mia madre ha una riproduzione appesa in camera sua.»

«Una riproduzione» ripeté, schifata, alzando ancora di più il suo nasino all'insù. Capii che avrebbe voluto sentirsi dire da Elisa che si era alzata alle sei di mattina per fare la fila agli Uffizi o dovunque fosse esposto il quadro. Cominciò a parlare del Rinascimento e disse che quell'anno avremmo lavorato in stretta coordinazione con Vanini e Guida per avere una visione interdisciplinare di storia, filosofia, letteratura e arte di ogni periodo.

«Ah, adesso quello che vuole fare con Vanini si chiama interdisciplinarità» sussurrò qualcuno dietro di me. Riconobbi la voce un po' roca di Noemi.

 

Per fortuna era il primo giorno e avevamo solo tre ore. Uscii dalla scuola molto più rilassata per aver affrontato la prova. A dire il vero i prof non mi erano piaciuti ma la classe sembrava a posto. Come ulteriore incoraggiamento, nel cortile della scuola incrociai un gran bel ragazzo dagli occhi verdi che mi lanciò un’occhiata incuriosita. Mi succedeva spesso di attirare l’attenzione dei ragazzi, che da lontano vedevano una figura alta e lunghi capelli biondi; poi quando si avvicinavano e vedevano i miei occhialetti e la mia faccia da "ho letto Anna Karenina in tre giorni" molti perdevano interesse.

Tornai a casa impaziente di raccontare  tutto a mia madre. Non mi ero ancora abituata a quel palazzo scalcinato e battei il piede mentre aspettavo l’ascensore che se la prendeva comoda cigolando. Calma Milly, mi dissi, ricordati perché sei qui.

Aprii la porta e mi precipitai in soggiorno; mia madre era al telefono ma non resistetti: «Inizio brillante, uno sciroccato e una stronza!»

Lei mi fece segno di tacere. Credevo che fosse per non disturbare la conversazione telefonica, ma quando sentii una risata maschile provenire dalla cornetta capii la vera ragione.

«Sì, te la passo » disse lei, in tono rassegnato.

Presi il telefono. «Ciao, pa’.»

«Lilly, la scuola nuova non ti piace? Ti avevo avvertito che ne parlano male. Sei ancora in tempo a cambiare idea.» Il tono tronfio non era esattamente quello di un genitore preoccupato.

«Per andare da qui al mio vecchio liceo ci metto un’ora, traffico permettendo.» Me ne pentii all’istante perché già immaginavo la risposta.

«Torna a stare da me. Capisco che tua madre voglia darmi una dimostrazione, ma noi non abbiamo mica litigato, no?»

«Sì che abbiamo litigato. Quando sono rientrata all’improvviso e ho trovato in cucina la tizia nuda che mangiava il mio yogurt alla papaya.»

«Che humour inglese. Be', mi arrendo. Quando si tratta di questioni di principio è chiaro che si può rinunciare alla scuola privata... e anche alle lezioni di equitazione.»

«Chissà da chi l'ho preso, lo spirito» dissi, sbattendo giù la cornetta.

Non aveva affatto intenzione di arrendersi. Chiaramente pensava che non avrei resistito molto, e per un attimo lo pensai anch’io. In quel periodo non avevo il ragazzo e le amiche del cuore le avevo al maneggio, non a scuola, per questo ero stata così pronta a seguire mamma dall’altra parte della città, ma avrei dovuto immaginarmi che papà avrebbe tagliato i soldi per l’equitazione. A differenza del liceo privato la considerava una spesa inutile: erano anni che lo supplicavo ma non aveva mai accettato neanche di prendere un cavallo in mezza fida.

Dopo una lunga telefonata con Claudia per raccontarle le novità, mi sedetti in camera mia a rivedere gli appunti, ma non quelli di storia dell’arte e tanto meno quelli di matematica, visto che il prof aveva recitato una poesia, ma quelli sui miei compagni. Ebbene sì, con la gente nuova ero una tale frana che se potevo scrivevo qualcosa sulle persone che mi avevano presentato, per evitare le mie classiche figuracce. Sull'ultima pagina del quaderno avevo descritto i compagni che mi avevano colpito di più. Quelli che ricordavo meglio erano Elisa la rossa, Gabriele il comunista e Alberto lo scheletro umano. La brunetta sexy era Noemi, poi Carla... be', fino alla mia compagna di banco ci arrivavo. Comunque vicino al suo nome scrissi “Tullia Kaido” perché mi ricordava il personaggio di Mila e Shiro. Poi Miriam, una ragazza molto carina con lineamenti delicati e occhioni scuri, Rita, che aveva parlato pochissimo, Emanuele, il ragazzo col vocione, e altri ancora.

"La prof di disegno ha una cotta per il prof di filosofia" scrissi poi. Ridacchiai; questo l’avevo scritto quando Noemi aveva fatto la battuta sull’interdisciplinarità. Aggiunsi, solo per gusto, perché non c’era pericolo di dimenticarmene, “scoprire il nome del ragazzo con gli occhi verdi.”


Il giorno dopo potei assaporare altre delizie: il professore fantasma (chimica, assente cronico per problemi di salute) e la professoressa-valium (italiano). Alla quarta ora avevamo il famoso Vanini (storia e filosofia). Non stavo più nella pelle dalla curiosità.

Non mi parve particolarmente bello. Era alto e sottile, molto pallido, col viso affilato e la fronte spaziosa. Volendo era meglio Paris, a parte l'espressione sgradevole. Indossava un completo scuro e un dolcevita color panna. Sopra quell’abbigliamento fuori moda mi sarei aspettata un cespuglio da sessantottino con i capelli lunghi e la barba, invece era una testa molto ordinata: riga da una parte, con i capelli neri pettinati leggermente all'indietro, in uno stile retró.

Ci salutò, andò dietro la cattedra, ma senza sedersi, tirò fuori dei dadi e cominciò a lanciarli, scrivendo qualcosa su un foglietto.

Mi girai verso Alberto, nel banco a fianco al nostro, e mi abbassai gli occhiali sul naso, nella classica imitazione della professoressa scandalizzata. «Ma è vera questa scuola?» sussurrai. Lui spalancò teatralmente le braccia.

«Numeri cinque e uno. Di Matteo e Barbier. Barbier?» ripeté in tono interrogativo. Alzai la mano: «Bàrbier.»

«Visto che sei nuova non posso chiederlo a te. Di Matteo!»

«Sì, professore?» rispose Alberto.

«Vuoi spiegare brevemente ai nuovi a che punto del programma siamo arrivati l'anno scorso?»

«Purtroppo, professore, non l'ha capito nessuno.»

Boato di risate.

«Quattro, Di Matteo» gli annunciò Vanini in tono soave. Alberto non fece una piega. «Parliamo del Rinascimento. L'epoca rinascimentale, il suo spirito, il suo nucleo, direi, il suo DNA... Barbier!»

Alzai di scatto la testa dal quaderno.

«Secondo te com'è il DNA del Rinascimento?»

Ma di che parlava? Il DNA? Boh, forse voleva dire che il papà del Rinascimento era il Medio Evo e la mamma l'epoca classica...

«Va bene, sei e mezzo.»

Non avevo pronunciato una sola parola. Vanini ricominciò a parlare ma mi persi le prime frasi perché ero troppo sorpresa. Mi chinai verso Alberto. «Ma non li scrive davvero sul registro, eh? I voti che ci ha dato, il tuo quattro e il mio sei e mezzo.»

«Oh sì, che li scrive. E non puoi capire che fatica sarà far sparire quel quattro...»

Lo guardai per vedere se era seccato per il mio voto guadagnato senza far niente ma sembrava tranquillissimo.

Quando suonò la campanella mi attardai dopo che gli altri erano usciti. Vanini stava scrivendo sul registro.

«Professore...»

«Sì?»

«Perché mi ha messo la sufficienza se non ho detto niente?»

Per un attimo sembrò che non mi avesse sentito, poi smise di scrivere e alzò lo sguardo. Aveva un viso poco espressivo e non si capiva cosa stesse pensando, ma ebbi l'impressione che fosse sorpreso. Questo aumentò la mia confusione. C'era poco da stupirsi per la mia domanda, mi sembrava naturale.

Vanini abbassò la testa e ricominciò a scrivere.

«Perché sono matto, Barbier. Sei qui da due giorni, non dirmi che non ti hanno ancora informato!» Chiuse il registro, raccolse le sue cose e uscì.


   
 
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