Anime & Manga > Inuyasha
Segui la storia  |       
Autore: solandia    11/08/2023    2 recensioni
Un Diavolo incompleto.
Due zingare di periferia.
E un Angelo bruno sullo sfondo del cielo lontano.
Una favola dark sulla scoperta di se stessi e del proprio io.
Una favola su un'inestinguibile anelito alla Libertà.
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Kikyo | Coppie: Inuyasha/Kagome, Inuyasha/Kikyo
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Limbo, Girone I

Un rumore stridente, come di unghie affilate contro un vetro, perturbò la coltre di silenzio che avvolgeva lo scantinato.

Si svegliò incazzato nero.

Merda, chi raspava contro il finestruolo di prima mattina?!

Gli avventori di quel postaccio non se n'erano forse andati tutti da un pezzo?

Sollevò la testa dal divanetto sul quale si era appisolato e rivolse uno sguardo iroso a quel pertugio impolverato che non si poteva nemmeno definire finestra: qualcuno, là fuori in strada, vi si era accasciato contro e biascicava litanie incomprensibili, carezzando il vetro con il fondo di una bottiglia di whisky.

Ci mancava solo l'ubriaco di turno.

E fradicio al punto da essere lì lì per sboccare, per giunta: l'odore di acetaldeide che emanava era inconfondibile.

Si alzò di scatto, deciso ad andarsene prima che lo stomaco di quel disgraziato si rivoltasse, ma la stanza prese a vorticargli intorno, beffarda.

Barcollò fino alla parete più vicina e vi si appoggiò pesantemente, afferrandosi la testa con le mani: le tempie gli martellavano come se volessero trapanargli il cervello.

Dannazione, che seccatura.

Odiava svegliarsi così, ma non c'era niente da fare: quel malessere faceva parte degli inconvenienti del suo Mestiere.

Aveva dovuto bere troppo, quella notte.

Almeno gli Umani si potevano ubriacare, bevendo, e per un po' se la spassavano.

Lui no.

Se beveva troppo, tutto quello che ci guadagnava era quel rognoso mal di testa, ma la sua coscienza non si attutiva né distorceva mai, per quanto alcool si buttasse in corpo.

Forse perché lui non aveva una coscienza. O almeno, questo era quello che gli avevano sempre insegnato.

Respirò a fondo, poi premette le mani sulle tempie e concentrò tutto se stesso in quel gesto, finché un alone verdastro prese corpo attorno alle sue dita e crebbe gradatamente di intensità, fino a illuminare l'intera stanza con il suo baluginio sinistro. All'intensificarsi della luce il dolore cominciò a scivolar via, mentre nuova vitalità si infondeva nel suo corpo ancora intorpidito dal sonno.

Questo era uno dei vantaggi di quelli della sua Specie: non aveva bisogno dell'aspirina. Ancora qualche manciata di secondi e sarebbe stato perfettamente in forma.

In quello stesso momento, però, il disgraziato là fuori mugugnò il nome di una donna e fece per portarsi la bottiglia alle labbra. Il suo povero stomaco, però, non ne volle sapere di collaborare e, in un violento conato, ributtò tutto quello che conteneva.

L'aura verdognola che si stava sprigionando dalle sue mani si dissolse all'istante: niente riusciva a rompergli l'incanto della concentrazione più dei rantoli di uno sbronzo che si vomitava anche l'anima.

Maledizione, si sarebbe dovuto tenere quello strascico di mal di testa ancora per un po'.

L'importante, in ogni caso, era che si fosse attutito abbastanza per permettergli di abbandonare quel postaccio senza che il cranio gli si spaccasse in due a ogni passo.

Afferrò un giaccone scarlatto che giaceva abbandonato sullo schienale di una seggiola, se lo buttò in spalla e si diresse verso le scale. Non c'è che dire, la giornata era iniziata davvero da schifo. E poteva solo peggiorare: in fondo era domenica, il giorno più odioso della settimana per tutti quelli come lui.

Perché lui era un Diavolo.

O quasi.

Salì al rallentatore i gradini metallici che conducevano all'uscita. Giunto alla porta, si fermò un attimo a soppesare lo scantinato dove aveva trascorso la notte. O meglio, dove aveva Lavorato per tutta la notte: niente da stupirsi se poi era crollato, sfinito, su quello schifo di divano.

I resti della festa erano ancora tutti lì, come spettatori muti al funerale del divertimento. Festoni strappati pendevano dal soffitto, quasi volessero afferrare i coriandoli e le stelle filanti sparsi al suolo; ovunque sul pavimento c'erano resti di cibarie e bottiglie di vodka, lattine di birra e mozziconi di sigarette. Una trentina di tovaglioli giacevano in un lago di aranciata sotto un tavolo; poco più in là qualcuno aveva sboccato, mentre qualcun altro aveva pisciato senza ritegno sul muro dirimpetto, proprio sotto il poster di una famosa spogliarellista che aveva fatto da bersaglio per una gara di sputi. L'aria era densa, impregnata del tanfo di tabacco e hashish e dell'odore nauseabondo di tutti gli Umani che in quella sala avevano ballato, sudato e scopato per una notte intera.

Non avrebbe dovuto addormentarsi in un posto del genere. Adesso l'odore merdoso di quella merdosa festa gli era penetrato nei pori della pelle e nelle fibre dei vestiti e non lo avrebbe mollato più per il resto della giornata.

Ok: domenica, svegliato dal vomito di un ubriaco, con il mal di testa e l'odore di fumo, sperma e sudore altrui impregnato addosso.

Si profilava proprio una giornata di merda.

Spinse il maniglione antipanico e se ne andò sbattendo la porta.


***


Un flebile raggio di luce si insinuò fra gli stipiti e venne a sfiorare il viso della bimbetta addormentata.

Solleticata dalla sua carezza gentile, la piccola si levò a sedere stropicciandosi gli occhi.

Era una strana luce. Grigia, elettrica. E trascinava con sé un odore che non avrebbe dovuto esistere.

Non nel suo Mondo.

La curiosità fugò in un istante il torpore del sonno: attenta a non fare troppo rumore, la bambina abbandonò il lettuccio e si inerpicò sui mobili sgangherati della cucina, raggiungendo la finestrella. Spinse su il vetro, reso opaco dalla polvere e dagli anni, e mise fuori la testolina, per divorare i colori diafani dell'alba e ascoltarne meravigliata il surreale silenzio.

Come aveva immaginato, c'era nebbia.

Una nebbiolina rada e inconsistente, che diffondeva tutt'intorno il pallore cereo di quell'alba autunnale, rotto solo dal nero delle sagome di tigli ormai spogli e dal giallo sfacciato delle foglie cadute al suolo.

Tutto il resto svaniva, confuso e dilavato fra la foschia.

Non v'era più traccia apparente delle altre roulottes, con il loro variopinto carico di uomini e suppellettili, né dei casermoni fatiscenti che circondavano lo spiazzo del campo.

Sorrise soddisfatta: lei amava le giornate di nebbia. Solo grigio, nero e oro. E la speranza di scoprire un Portale per un mondo fatato oltre la cortina vaporosa che avvolgeva ogni cosa.

Ma c'era qualcos'altro di particolare, quel giorno.

Molto particolare.

Odore di zolfo e odore di pace.

Li sentiva entrambi, distintamente, dispersi nell'umidità del mattino.

Quasi tutte le mattine profumavano di pace: era un odore che si avvertiva solo nell'ora magica del levar del sole, quando già sono estinti i bagordi notturni, mentre l'asfissiante frenesia del giorno è ancora lungi dal cominciare.

Ma l'odore di zolfo era raro.

A quell'ora del mattino in special modo. E di domenica, poi!

Inoltre aveva qualcosa di diverso da quello che le era capitato di percepire altre volte: anziché gremare, stavolta sembrava fosse consumato da fiamme vive.

Strano.

La cosa la incuriosiva.

Saltò a terra, attenta a non svegliare la sorella maggiore che dormiva nella branda accanto alla sua, si infilò due paia di calzini e degli zoccoletti gualciti, si buttò addosso un maglione più grande di lei, poi uscì dal carrozzone richiudendosi la porticina alle spalle con tutta la delicatezza di cui era capace.

Respirò a pieni polmoni una, due volte, mangiandosi la nebbia come se fosse un frammento di Cielo chinatosi ad avvolgere la Terra con il suo vapore, poi si allontanò di corsa, giocando a sollevare nuvole di foglie secche con i suoi piedini.

L'odore di zolfo proveniva dal canale, ed era là che voleva andare.


***


La porta metallica si richiuse fragorosamente alle sue spalle.

Oh, che fantastica idea lasciarla sbattere invece di accompagnarla, ora gli rimbombava tutto il cervello.

E c'era pure nebbia. Fottutissima nebbia a perdita d'occhio.

Doppio 'fanculo a quella domenica di merda.

Il vicolo su cui si apriva lo scantinato dove aveva trascorso la notte era immerso in una penombra surreale. Al di là di un cumulo di pattume giaceva riverso l'ubriaco che lo aveva svegliato poco prima, addormentatosi abbracciato alla sua bottiglia come a un grottesco bambolotto.

Disgustato, Inuyasha si chinò su di lui, lo afferrò per il bavero sollevandolo di peso e rimase a studiarne la fisionomia per qualche istante.

Era un giovane? Oppure un vecchio barbone? Non riusciva a capirlo: il degrado di quel corpo e dell'anima che ospitava erano tali da falsarne i connotati. Quel tizio ormai era un tutt'uno con l'immondizia sulla quale era crollato e non si sarebbe mai più risollevato. Evidentemente qualcuno dei suoi Colleghi aveva compiuto un ottimo Lavoro, su di lui.

Si lasciò sfuggire un ringhio lasciandolo ricadere sui sacchi di rifiuti.

L'avrebbe volentieri massacrato di botte, tanto per ringraziarlo della meravigliosa sveglia che gli aveva offerto, ma a lui non era concesso sfogarsi sui Protetti degli altri.

O, forse, sarebbe stato più corretto dire che non gli era concesso sfogarsi affatto.

Sputò a terrà e oltrepassò il malcapitato, avviandosi con passo pesante lungo il vicolo, mentre un sorrisetto amaro gli incurvava gli angoli della bocca: in fondo quell'uomo gli somigliava. Anche lui, agli occhi di quelli della sua Razza, non era che un fallito, condannato ad occupare il gradino più basso della Scala Diabolica.

Un misero Diavolo Tentatore, l'ultima ruota del carro.

Le alucce da pipistrello che aveva sulla schiena presero ad agitarsi spasmodiche. Succedeva sempre, quando si innervosiva, e pensare alla propria posizione lo faceva innervosire parecchio.

Per colpa di quella vecchia storia, quei porci bastardi dei Giudici e degli Esaminatori gli avevano affibbiato un ruolo da sfigato; si erano fissati su una simile stupidaggine, ignorando volutamente il suo valore, e gli avevano sprangato le porte degli Alti Ranghi e della Vita Adulta, relegandolo nei ghetti del Piano Terreno.

Tentare gli umani, capirai che meraviglia! Un'esistenza passata a sussurrare ai cuori di gentucola vile e insulsa per indurla a compiere scelte vili e insulse: un bicchiere di troppo, una moglie tradita, l'ennesima giocata alle videolottery...

Da brivido, eh?

Era proprio un Lavoro di merda: sciatto, ripetitivo e senza gloria alcuna.

Almeno avesse avuto a che fare con gente crudele! Le persone malvagie sì che arrivavano a fare cose in grado di portare quelli della sua Razza all'esaltazione! Purtroppo, però, i malvagi erano proprietà esclusiva dei Diavoli di rango superiore, come i Protettori e i Gerarchi; i Tentatori come lui dovevano accontentarsi degli ignavi. E passare l'esistenza nel loro stesso limbo. Starsene a marcire sanza infamia e sanza lodo fra i vicoli delle periferie umane era una prospettiva alla quale lui proprio non riusciva ad arrendersi, nonostante fossero trascorsi più di dieci anni da quando era stato assegnato a tale indegna mansione.

Sentiva di avere doti da condottiero e sapeva di avere la stoffa per far trionfare i vessilli del Male sul campo di battaglia dell'Eternità. Se solo gli avessero concesso una chance per dimostrarlo!

Ma questa situazione non sarebbe durata per sempre, no. Presto avrebbe fatto cambiare idea a quelle carogne dei Gerarchi.

Aveva i suoi progetti, lui.

Calciò una lattina che era lì a tiro. Poi fu la volta di un torsolo di mela e di un pacchetto di sigarette, mentre le sue alucce non facevano che agitarsi sempre più.

Il vicolo sbucò infine sull'ampio viale che conduceva al canale.

Tutto era deserto, silenzioso e chiaro.

Per un attimo fu costretto a schermarsi il viso con la mano: la nebbia diffondeva tutt'intorno la luce vergine dell'alba e i suoi occhi, avvezzi all'oscurità, faticavano ad adattarvisi. Quelli come lui erano fatti per le tenebre.

Ma a lui piaceva, l'alba.

E non solo perché a quell'ora il sole non era ancora così sfacciato da irritargli gli occhi: gli piaceva perché era l'unico momento della giornata che sentiva veramente suo.

La notte era per i Diavoli e le loro tresche. E per lui la notte significava Lavoro.

Fottuto Lavoro.

Il giorno era per gli Angeli e a lui non restava che rintanarsi come un topo nelle fogne.

L'aurora e l'imbrunire, invece, erano il Passaggio.

Ma, mentre il tramonto era territorio di entrambi, Angeli e Demoni, ed era quindi il momento propizio per le loro sfide, l'alba sembrava non appartenere a nessuno: una fase di transizione in cui i bravi bambini erano ancora a nanna, mentre quelli scapestrati ci erano andati da poco, così che Angeli e Diavoli non avevano ragione per essere in circolazione.

Così aveva fatto suo quel momento: uscendo all'alba, completamente solo, si sentiva padrone della città, dei suoi vicoli corrotti come degli eleganti viali del centro, si sentiva padrone di se stesso e della sua esistenza, si sentiva Libero.

E tutto questo lo inebriava.

Eppure sapeva che si trattava di un mero autoinganno: lui non aveva Libertà.

Solo gli Esseri Umani erano liberi; gli Eterni erano la manodopera della lotta fra il Bene e il Male, esistevano per servire la propria Gerarchia e solo in essa potevano trovare senso e compimento.

E solo aderendo ad essa avrebbero continuato ad esistere.

Così gli avevano sempre insegnato.

Sbuffò, infilando pesantemente le mani in tasca, e si avviò lungo il viale. Sperava di rilassarsi camminando, ma non ci riuscì affatto: le sue ali continuavano a fremere impazzite e a nulla valsero i suoi sforzi per calmarle.

Si trattava di un guaio, e non tanto perché con le ali fuori controllo gli riusciva impossibile levarsi in volo: con quei miseri abbozzi che si ritrovava sulla schiena non poteva certo pretendere di fendere l'aria per davvero; al massimo svolazzava, come un grottesco gallinaccio. Il pericolo maggiore era invece costituito dal fatto che, agitandosi in quel modo, gli rendevano difficile mantenersi Schermato dietro un aspetto apparentemente umano.

Per quanto a quell'ora ci fosse in giro poca gente, il resto del tragitto che conduceva alla sua tana era decisamente troppo esposto per sperare di percorrerlo senza dare nell'occhio.

Si infilò quindi in una viuzza laterale, ancora avvolta nella penombra e avanzò guardingo fino ad accostarsi a una vetrina.

Un ragazzo smilzo sulla ventina, dai lunghi capelli neri lucenti e la barba sfatta di qualche giorno, lo fissava da dentro il vetro, studiandolo con i suoi penetranti occhi verdi.

Bello?

Forse.

Di sicuro, fra il suo viso accattivante e il suo look studiatamente trascurato, ce n'era abbastanza per mandare in tilt il sistema ormonale di decine di troiette dei bassifondi.

Peccato che, tanto, non potesse averle.

Non era certo per conquistare delle femmine che quel suo aspetto era stato pensato: doveva avere un aria affidabile agli occhi di quelli del proprio giro, solo questo. Gli Esseri Umani dovevano fidarsi di lui, era fondamentale nel suo Mestiere. E niente ti rende più carismatico di una bellezza sfacciata malcelata sotto un aspetto volutamente incolto, in certi ambienti.

Con gli occhi fissi sulla sua immagine, strinse appena le palpebre e guardò Oltre: subito lo smeraldo delle sue iridi mutò in una calda ambra infuocata, mentre la barba spariva del tutto dal suo viso adolescente; i lunghi capelli neri si stinsero fino a diventare fili argentei, fra i quali spuntavano, alla sommità del capo, due cornini bianchi rivestiti di una morbida peluria, che mai si sarebbero induriti fino a diventare monumentali corna come capitava a tutti gli adulti della sua specie; sulla sua schiena, infine, due alucce nere da pipistrello si agitavano spasmodiche, saettando bagliori rossastri tutto intorno.

Rivolse un ringhio alla sua vera immagine, scoprendo i canini acuminati.

Dannazione, la sua Schermatura era davvero troppo flebile, non aveva neppure dovuto concentrarsi per vedere il suo reale aspetto. Certo, ad uno sguardo sommario appariva umano, ma sarebbe bastato acuire un poco la vista per smascherarlo. Ci sarebbe riuscito anche il più convinto miscredente.

Restarsene in giro con uno Schermo così fragile era a dir poco sconsiderato, lo sapeva.

Ma la città all'alba era il suo tesoro e non lo avrebbe ceduto a nessuno.

Aveva passato una nottata davvero snervante: lunga, ordinaria e accompagnata da una colonna sonora troppo groove per i suoi gusti heavy-metal; per di più non ne aveva ricavato che deprimenti peccatucci, insipidi come quegli stupidi umani che si era ritrovato a Tentare.

Per quanto fosse assonnato e la testa gli ronzasse come un vespaio, se si fosse rinchiuso nella sua tana, la giornata sarebbe finita lì: doccia, uno spuntino, quattro accordi con il suo basso, otto ore di sonno. E di nuovo al Lavoro per quella sera.

Capirai.

Lui voleva qualcosa di più, dalla vita.

Era fatto per qualcosa di Grande ed era costantemente intenzionato ad andarselo a cercare, anche solo girovagando per le strade quando il sole era alto (ma non troppo) e gli Angeli la facevano da padroni.

Forse proprio quella domenica mattina avrebbe sventato uno dei loro Piani di Bene, oppure sgominato da solo un manipolo di Serafini.

E avrebbe ricevuto gli elogi dei suoi simili.

Magari persino una Promozione, forse già quel pomeriggio stesso.

Gli sarebbe bastato scovare un angolo riparato dove rintanarsi, per ritrovare quell'equilibrio interiore, così simile al vuoto, che gli avrebbe permesso di ripristinare il suo Schermo e di curarsi il cerchio alla testa che ancora lo attanagliava.

E sapeva già dove trovarlo.

Diede le spalle alla vetrina, accelerò il passo e attraversò la strada, dirigendosi verso il ponte che attraversava il canale.

Sì, sì, lo sapeva: non c'era un briciolo di buonsenso in questo suo comportamento. Ma il buonsenso non era mai stato fra le sue qualità.

Se avesse avuto buonsenso a quest'ora sarebbe stato un Diavolo Completo, con lunghe corna ed ampie ali; avrebbe ottenuto lo status di Diavolo Custode, grazie al quale gli sarebbe stata affidata la responsabilità di guidare un Umano nei più profondi meandri del Male. E, di lì all'Eternità, avrebbe conquistato passo dopo passo ogni gradino della scala diabolica, crescendo sempre più in potenza e influenza, fino a diventare un Gerarca Infernale.

Invece era rimasto un misero Mezzodemone.

Tutti chiamavano così quelli come lui.

Mezzodemone: un essere incompleto.

Merda, che nervoso!

Si mise a correre, dribblando fra i veicoli parcheggiati, saltando siepi e panchine, sempre più veloce.

Correre gli serviva a non esplodere.

Ed era l'unico sfogo che non gli fosse proibito.

Raggiunto l'ampio ponte in muratura, posò le mani sul parapetto e saltò giù, atterrando sulla banchina in cemento che costeggiava il greto del canale. E qui si fermò, ansante, appoggiandosi ad uno dei piloni del ponte per riprendere fiato.

Seminascosto nella sua ombra, restò un poco ad osservare lo scorrere dell'acqua.

Il canale era quasi in secca e fluiva lento, suddividendosi in tanti rigagnoli che serpeggiavano fra rifiuti di ogni genere: c'erano una bici sgangherata e una vecchia lavatrice, tubature, lamiere, bottiglie di ogni foggia e dimensione e, ovunque, sacchetti di plastica sfilacciati che pendevano come fantasmi aggrappati alle sterpaglie sulla riva.

Deprimente.

Talmente deprimente che nessun Umano metteva mai piede lì sotto, neppure i mascalzoni.

Ma, di nuovo, gli bastò stringere gli occhi, riducendoli fino a due fessure sottili, per vedere Oltre: i rigagnoli d'acqua si gonfiarono e spumeggiarono fino a formare un fiume in piena, i cui emissari tumultuosi giungevano da oriente e da occidente, per poi confluire in un gorgo centrale e gettarsi giù, sempre più giù, fino all'imboccatura dell'Abisso.

Affogata nelle sue acque torbide e limacciose, una moltitudine di anime nere e urlanti veniva inesorabilmente trascinata nelle viscere della Terra. Le loro grida rimbombavano nell'aria confondendo l'udito, mentre i miasmi venefici che si sprigionavano dai flutti annebbiavano la vista e saturavano l'olfatto.

L'Acheronte, il fiume degli Inferi.

Era una delle Porte del suo Mondo.

Inuyasha trovava un che di ironico al pensiero che gli umani di quella città passassero accanto ogni giorno al Rivo Infernale senza vedere altro che un canale di scolo. Ma in fondo gli Uomini non erano che dei poveri sciocchi, quindi non c'era da stupirsene.

Il Mezzodemone rilassò infine gli occhi, tornando al Piano Terreno. E tutto fu di nuovo silenzioso e chiaro.

Fin troppo chiaro: il sole si stava innalzando inesorabile e presto il brulichio degli umani avrebbe invaso nuovamente le strade. Doveva pensare alla propria Schermatura, o si sarebbe davvero ritrovato nei guai.

Trasse un respiro profondo e chiuse gli occhi, posando le mani al centro del petto. Concentrò tutto se stesso in quel gesto, avvertendo l'energia rifluire in un circolo serrato fra le mani e il cuore. Restò immobile in quella posizione finché la sua mente non si svuotò dai torvi pensieri e il silenzio non dilagò nel suo cuore, ammansendolo.

In capo a qualche minuto la rabbia repressa che ancora gli serpeggiava nelle vene si acquietò e il cerchio che gli serrava le tempie svanì senza lasciare traccia.

A quel punto si portò una mano davanti al viso e rimase ancora immobile e concentrato per lunghi istanti, fin quando non sentì il suo Schermo perfettamente rinsaldato.

Perfetto, adesso era a prova di bomba.

Soddisfatto e sicuro di sé, abbassò la mano e aprì gli occhi.

E trasalì: una bambina lo stava fissando.

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Inuyasha / Vai alla pagina dell'autore: solandia