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Autore: Nina Ninetta    14/08/2023    7 recensioni
Maia Smith è una giovane insegnante di 27 anni che credeva di aver finalmente trovato il suo posto nel mondo: un lavoro che adora in una piccola cittadina soleggiata, così diversa dal villaggio montano in cui è nata; un nuovo amore; amicizie sincere. Poi, un giorno, accade uno spiacevole evento e Maia si perde (metaforicamente parlando). Inizia quindi un percorso terapeutico di recupero con la dottoressa Anna Carter, ma riuscirà a "ritrovarsi"?!
Seconda classificata (parimerito) al contest "PTSD Awareness Contest indetto da Spoocky sul forum di EFP"
Quarta classificata al contest “Emozioni incrociate” indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti!
Questa OS partecipa a ben due contest e vorrei quindi ringraziare i due giudici che mi hanno ispirata. Ho provato ad affrontare una tematica molto delicata, ossia lo stress post-traumatico che può colpire chi vive una situazione di estremo pericolo per la propria incolumità. Non sono una psicologa/psicoterapeuta/psichiatra e chi più ne ha più ne metta, siate perciò magnanimi nell'elargire puntualizzazioni in merito alla "terapia" seguita (leggendo capirete meglio a cosa mi riferisco).
Grazie per la comprensione,
Nina^^

 
֎ IRIS WILSONII ֎
 
 
Maia Smith sfogliava distrattamente la rivista di arredo quando la segretaria – una giovane donna sulla quarantina – le si accostò, chinandosi appena in avanti e facendole ombra con il suo corpo.
«Signorina Smith?» aveva il tono meravigliato.
«Ehm?!» Maia sollevò il capo dalla rivista che ritraeva splendide ville costose arredate in stile industrial: freddo, essenziale, monocolore.
«Prego» la donna la invitò a seguire il corridoio immacolato allungando un braccio.
«Ah, sì…» Maia abbandonò il giornale sul tavolino di vetro alla sua sinistra, notando gli sguardi incuriositi dei presenti e il sorriso di circostanza della segretaria. Il classico sorriso che si riserva a un bambino un po’ tonto – e lei lo conosceva bene, era lo stesso che usava quando ne arrivava uno nuovo nella sua classe – o a un adulto che ha perso la bussola. Per usare un eufemismo.
«L’ultima stanza a destra» aggiunse la donna, osservando Maia di spalle fin quando non scomparve oltre la porta.
Maia entrò e trovò lo studio vuoto. La cosa non la stupì, non perché fosse normale, ma proprio perché non le interessava sapere dove fosse o cosa stesse facendo la dottoressa. L’unico particolare che attirò la sua attenzione, facendole provare quel profondo – e ormai noto – senso di disagio, fu un bellissimo bouquet di fiori gialli posto in un vaso sulla scrivania. Maia non se ne intendeva di botanica, sapeva riconoscere solo i fiori più comuni, come le rose, le margherite, i girasoli e pochi altri. Quindi non avrebbe saputo dire il nome di quegli splendidi esemplari dallo stelo spesso e la corolla gialla che ricordava il becco di un pappagallo. Avrebbe però potuto elencare le parti che lo costituivano: stelo, corolla, stami, pistillo, ovario. Deformazione professionale.
Distolse lo sguardo e si avvicinò alla finestra. Tutto quel giallo la disturbava, la innervosiva e le faceva riaffiorare immagini contro cui stava combattendo – reprimendo – da mesi. Oltre i vetri passò in rassegna un panorama che le era fin troppo noto: montagne livide, innevate, facevano da contorno a un piccolo paese del nord del Minnesota, lo stato in cui era nata e cresciuta. E che non avrebbe mai dovuto lasciare. Sua madre glielo aveva detto: “Quelli come noi non sono fatti per le grandi città. Laggiù ti perderai!”
E aveva avuto ragione!
Dopo un paio di anni lontano da quei paesaggi montani si era persa davvero. Una parte di lei sembrava essersi separata da sé, come una scissione interna, si era volatilizzata, eclissata. E lei non si era più riconosciuta.
All’improvviso udì lo sciabordio di uno scarico e quello dell’acqua corrente. Poi la porta a soffietto alle spalle della scrivania – che ovviamente non aveva notato prima – scivolò sul telaio e ne comparve una signora in camice bianco, un caschetto ramato cotonato e il viso tondo. Si stava asciugando le mani con una salviettina monouso che appunto gettò in un cestino ai suoi piedi.
«Buongiorno! Scusi per l’attesa…» la dottoressa sorrise, inforcò gli occhiali appesi al collo con una catenina color oro e sbirciò sui fogli adagiati sopra la superficie di legno della scrivania. «… Signorina Smith» aveva denti bianchi ma non perfetti. Prese in mano uno dei fogli e se lo avvicinò al viso. «Maia Smith, 27 anni. È giovanissima! Posso darle del tu?» La guardò.
«Sì.»
«Benissimo Maia, ti prego di fare lo stesso con me. Io sono la dottoressa psicologa Anna Carter, ma puoi chiamarmi Anna.» Quest’ultima allungò una mano e Maia gliela strinse tranquillamente, sebbene non avesse più la presa salda e sicura di prima.
Sfacciata la definì una volta Alex.
Inoltre, aveva i palmi sempre un po’ sudaticci.
«Preferirei dottoressa Carter» rispose Maia.
Anna sollevò le spalle, senza smettere di sorridere con garbo:
«Tutto quello che ti mette a tuo agio» si voltò a prendere un’agenda e una matita, poi la invitò ad accomodarsi sul divano di pelle che praticamente riempiva la stanza. Era di un beige neutro, curvava verso destra formando una L dalle forme arrotondate. Maia si accomodò a un’estremità e la psicologa dall’altra.
«Allora Maia, immagino tu sappia perché sei qui e il percorso che andremo a intraprendere insieme.»
«Sì.» La ragazza teneva lo sguardo basso e cominciava a staccarsi le pellicine intorno alle dita.
«Ho letto la tua storia, era sui giornali locali. Innanzitutto, voglio ringraziarti per quello che hai fatto. Non è da tutti, sei stata molto coraggiosa.»
Maia abbozzò un ghigno. “Sì, come no!” Avrebbe voluto rispondere. “Coraggiosissima!” Se qualcuno le avesse letto nella mente avrebbe provato ribrezzo, orrore, nei suoi confronti. Eppure, a lei non importava perché era viva – diciamo – e in quel momento era stato il suo unico pensiero: restare in vita a qualunque costo.
Qualunque…
La dottoressa assottigliò gli occhi, erano chiari: quella ragazza non aveva alzato lo sguardo neanche per un secondo da quando era lì. Le era già capitato altre volte che i pazienti evitassero di guardarla in faccia, era normale, soprattutto durante le prime sedute, ma lei evitava proprio di osservarsi intorno, come se davanti avesse uno spettacolo spaventoso.
«C’è qualcosa che ti disturba nella stanza?» Le chiese infine.
Maia Smith deglutì.
«I fiori.»
«I fiori?» Anna si voltò indietro e scrutò il bouquet. «Sono Iris Wilsonii, originari della Cina» tornò con l’attenzione sulla ragazza. «Ti va di dirmi il motivo per cui ti indispettiscono?»
«È il colore» spiegò a denti stretti Maia, scorgendo l’altra scrivere sull’agenda. Ecco che cominciava la dissezione della sua psiche. D’altronde, era lì per quello, no? Cercare di ritrovarsi… stronzate!
Era stata sua madre a insistere, a portarcela con la forza. Non a caso, adesso era parcheggiata a pochi passi dall’ingresso della clinica. Maia aveva percepito il suo sguardo puntato addosso fin quando non aveva oltrepassato le porte d’ingresso. Certo, la detestava per questo, le aveva urlato contro le peggiori ingiurie, di farsi gli affari suoi, che aveva quasi trent’anni, non era più una bambina, ma un’adulta capace di intendere e di volere. Tuttavia, non poteva darle tutti i torti se la trattava come un’adolescente in piena crisi emotiva. All’inizio, il nascondiglio in cantina aveva funzionato. Quando le mentiva dicendole che usciva con le amiche – che non aveva – si nascondeva nel sottoscala e li rimaneva per ore e ore, al buio, con una bottiglietta d’acqua in caso le venisse sete, sebbene alla fine non toccava neanche per paura che le fosse scappato di fare pipì. Questa storia era andata avanti per settimane, anche quando prendeva appuntamento con la psicologa e invece si chiudeva in cantina, fra cibo in scatola, scope, secchi e odore di stantio. All’inizio era fastidioso, poi si era abituata pure a quello e al timore di qualche ragno annidato negli angoli. Il buio, al contrario, non era un problema, giacché se ne stava con gli occhi chiusi tutto il tempo, chiedendosi se morire e passare l’eternità in una bara, sottoterra, equivalesse un po’ a quello stato.
L’essere umano si abitua davvero a tutto.
«Maia, è il giallo che ti dà fastidio o il tipo di fiori?» Ripeté Anna aumentando appena il tono di voce per sovrastare i pensieri della giovane.
«Lui era vestito di giallo, completamente. Calzoncini gialli di lino e una camicia a maniche corte dello stesso colore con grandi fiori hawaiani stampati qua e là, di un verde intenso.»
 «Per lui intendi il killer?»
Maia sobbalzò a quella parola. Killer, assassino, carnefice. L’avevano definito in ogni maniera possibile, ma lei aveva visto solo un ragazzo di diciassette anni con seri problemi sociali e psichiatrici a cui non era stata data una seconda chance. Come invece era stato concesso a lei, anzi, era già arrivata a contare parecchie chance nella sua vita. In ogni caso annuì: spiegare di provare pena per la persona che l’aveva ridotta così era sintomo di un disturbo diverso, una specie di complesso che aveva letto una volta su una rivista ma adesso non ricordava bene. E neanche le interessava, se è per questo.
La dottoressa Anna Carter si alzò e portò il vaso con il bouquet in bagno, quindi richiuse la porta.
«Così va meglio?»
«Sì.» Finalmente Maia sollevò lo sguardo e le parve di poter prendere aria, di tornare a respirare. Anche la stanza le sembrò meno angusta, più luminosa. La psicologa notò che aveva occhietti piccoli e castani, che si muovevano veloci, seppur velati di una tristezza apatica.
«Allora, Maia, vuoi raccontarmi come una ragazza del Minnesota si è ritrovata a fare la maestra in una scuola elementare della Georgia?»
Maia Smith prese fiato, cercò di fare mente locale e cominciò col dire che il suo piccolo paese di montagna le stava stretto. Perciò, dopo l’università, aveva cercato lavoro come maestra in varie zone degli Stati Uniti e quando le era arrivata un’e-mail dalla Windsor Elementary School aveva toccato il cielo con un dito! Dopo un paio di giorni era già lì, precisamente a Windsor Forest: un quartiere della città di Savannah, praticamente sul mare. Il sogno di una vita, insomma: clima temperato, sole, mare… c’era tutto ciò che una giovane ragazza potrebbe desiderare.
Mentre Maia raccontava, Anna annotò solo un paio di cose sulla propria agenda. La prima fu il tono di voce, il quale somigliava vagamente a quello di un robot, senza inclinazioni particolari. Piatto. La seconda nota riguardò le emozioni: neanche i ricordi felici la smuovevano. Scrisse la parola APATIA a lettere maiuscole al centro del foglio e la cerchiò.
«Ti sei subito ambientata?» Chiese la psicologa quando Maia smise il racconto.
«Sì» annuì. Cavolo, era una ragazza socievole, estroversa, disponibile.
“Mi amavano tutti” avrebbe voluto aggiungere, ma lo tenne per sé.
Intanto, fuori aveva cominciato a nevicare. Una volta Maia detestava la neve perché causava solo disagi alla sua vita sociale: non poteva uscire con i suoi amici, ad esempio. Ora le era indifferente.
«Avevi intessuto rapporti particolari laggiù?»
La giovane insegnante si prese qualche secondo prima di rispondere. Cielo, si era costruita una specie di famiglia felice: la collega cinquantenne che la domenica la invitava a pranzo per non lasciarla da sola e aveva quindi conosciuto i suoi due figli che oramai la chiamavano zia Maia; oppure i vicini che il giorno dopo il suo arrivo le avevano fatto trovare beni di prima necessità nella veranda. E infine c’era stato Alex, il collega di matematica della High School, che l’aveva accompagnata fin davanti la sua aula il primissimo giorno di lezione, dal momento che si era letteralmente persa (fisicamente, allora) e poi l’aveva invitata a cena fuori affinché lei potesse sdebitarsi della gentilezza ricevuta. Maia aveva riso imbarazzata, ma aveva accettato di offrirgli un hot-dog.
Alex, il primo che si era accorto del suo cambiamento dopo l’accaduto, dei problemi seri che la scuotevano, degli incubi notturni che la svegliavano in preda al panico. Alex, che le aveva consigliato un percorso terapeutico e che lei aveva aggredito simile a un animale inferocito, a volte non solo verbalmente, e che lui, con un atteggiamento stoico, aveva sopportato e subito. Alex, che alla fine, per la sua incolumità, aveva telefonato ai genitori nel lontano Minnesota e, con tutta probabilità, aveva cominciato dicendo: “Salve signora Smith, lei non mi conosce, ma io sono Alex: il compagno di sua figlia. La chiamo per dirle che Maia non sta bene…”.
Maia non aveva mai fatto parola di Alex con sua madre, poiché sapeva che altrimenti lei avrebbe insistito per conoscerlo, immaginando già fiori d’arancio e nipotini da accudire. Perciò, quando un pomeriggio soleggiato di agosto – dopo circa tre mesi dall’incidente – Maia aveva aperto la porta di casa e si era ritrovata dinnanzi i suoi genitori, aveva dato di matto. Ma sua madre, che aveva origini sudamericane e quindi era più cocciuta di un mulo, si era piantata in casa e l’aveva costretta a prendere gli ansiolitici che lo psicoterapeuta della scuola le aveva prescritto e dei quali lei non aveva neanche mai aperto la scatola.
Le cose un pochino erano migliorate, gli incubi erano quasi scomparsi e le diapositive di quei momenti si erano dissipate, annebbiate. D’altra parte, a causa di quei farmaci dormiva quasi tutto il giorno e quando era sveglia le sembrava comunque di vivere la vita di qualcun altro, di essere sconnessa dal proprio corpo.
Un giorno, sua madre volle parlare con il medico della scuola che seguiva coloro che si erano ritrovati invischiati nell’incidente. L’uomo, uno psichiatra ormai prossimo alla pensione, le spiegò che sua figlia Maia era probabilmente affetta da un disturbo da stress post-traumatico. Ciò che aveva dovuto affrontare non era cosa da poco e la sua mente non riusciva a superarlo.
«Dottore, lei crede che portarla a casa, in Minnesota, possa aiutarla?»
«Assolutamente sì. Spesso, le persone affette da questa patologia soffrono anche solo nel vedere il luogo in cui sono stati male o stando con chi ricorda loro l’evento, come colleghi o alunni in questo caso».
La signora Smith uscì dallo studio del medico con un’idea ben precisa in testa: riportare Maia a casa. Si sarebbe aspettata un’opposizione sfrenata, esagerata, invece sua figlia la stupì grugnendo e tornando a sonnecchiare sul divano, tanto che la donna si chiese se avesse realmente recepito il messaggio: si tornava nel Minnesota, bye bye Georgia, sole e mare.
«Maia, va tutto bene?» Di nuovo la voce ferma della dottoressa Carter la destò dai suoi pensieri.
«Avevo un compagno laggiù» disse Maia, inespressiva.
«Un fidanzato vuoi dire? Lo senti ancora?»
«No.»
«Perché?»
Maia fece spallucce, non c’era una vera risposta a quella domanda.
«Non so. Ho smesso di rispondergli.»
«Faceva riaffiorare in te quei momenti?»
«Non saprei.»
La dottoressa Carter scrisse poche righe sulla sua agenda, poi la chiuse e la guardò con professionale gentilezza:
«Per oggi abbiamo finito Maia, sei stata molto brava» a quelle parole la giovane si sentì stupida: brava, come fosse un bambino che scrive per la prima volta il suo nome. «Ci vediamo fra due giorni.» La donna si alzò e si mosse verso il bagno.
«Pensavo che gli appuntamenti fossero settimanali.»
«All’inizio è meglio vederci con una maggiore frequenza.» Anna prese il vaso con il bouquet di fiori gialli e lo adagiò al suo posto sulla scrivania. A quella vista Maia distolse lo sguardo e uscì di gran carriera, aveva avuto l’impressione che le pareti della stanza le si stringessero attorno.
La dottoressa Anna Carter annotò ancora due parole sul taccuino.
 
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Alla quarta seduta la psicologa si fece trovare seduta dietro la cattedra. Stava scrivendo qualcosa e quando Maia entrò la salutò fugacemente, invitandola a mettersi comoda. Il vaso con i fiori era sempre sul tavolo, con i medesimi Iris Wilsonii giallissimi.
La giovane si sedette sul divano, nel suo angolo, sforzandosi di guardare altrove (il pavimento per la precisione). Ripensò al litigio avuto con sua madre pocanzi. Le aveva assicurato che non c’era bisogno che l’accompagnasse e l’aspettasse per tutto il tempo in macchina come la prima volta. Ma lei non aveva voluto sentire ragioni, non le avrebbe permesso di rinchiudersi in cantina e sfuggire al suo dovere. Sì, perché per sua madre vivere e farlo bene era un dovere morale di ogni anima sulla Terra.
«Prendo già le medicine, non bastano?»
«No» era stata la risposta secca, poi erano salite in auto ed ora era lì. Di nuovo.
Non le andava di rispondere all’interrogatorio della Carter, non le andava di parlare di cose private – emozioni per lo più – con una persona che la scrutava come fosse un fenomeno da baraccone. Aveva affrontato un brutto quarto d’ora – facciamo anche un’oretta buona – e allora? Le persone subiscono shock continuamente, perché mai per lei sarebbe dovuto essere diverso?
Era cambiata? Si disinteressava della vita, e allora?
Fatti suoi, no?
Anna Carter si alzò, annunciando di essere pronta, prese la sua agenda e si accomodò sul divano, un pochino più vicino rispetto alle volte precedenti.
«Come stai, Maia?»
«Bene.»
«Riesci a dormire?»
«Fin troppo.»
La dottoressa rise, prendendo quella risposta come una battuta, sebbene Maia non stesse scherzando.
«Il giallo dei fiori ti crea noie?»
«Sì» ammise la giovane paziente.
«Ma questa volta non lo toglierò. È ora che cominci ad affrontare il disagio. Va bene per te?»
Maia Smith non rispose, si limitò a incassare il colpo e stringersi nelle spalle. L’atteggiamento della psicologa era leggermente cambiato rispetto alla prima seduta. Più rigida, meno accondiscendente, ma lei sapeva benissimo che faceva parte del suo lavoro, della terapia. Mai farsi vedere troppo disponibili o chi si ha di fronte – paziente, cliente, alunno – se ne approfitterà.
«Hai sentito Alex in questi giorni?»
Maia scosse il capo, meravigliata da quella domanda.
«Cosa provi?»
«Nulla» fu la risposta istintiva della ragazza.
«Ma in passato hai provato emozioni, forti anche, proviamo a farle riaffiorare? Le affrontiamo insieme…»
«Non mi ricordo» Maia si strinse le mani con forza, sapendo di mentire.
Certo che le ricordava tutte le sensazioni che aveva provato, le ricordava così bene che ancora le si accapponava la pelle o provava vergogna, perciò le aveva ricacciate indietro, come fossero animali, ma non bestie feroci, più insetti subdoli, insidiosi, che si infilavano sotto la pelle e la facevano impazzire. Allora, li aveva raccolti tutti e chiusi in un barattolo, lasciato poi a marcire in fondo al proprio subconscio.
«Proviamo insieme, va bene?» La dottoressa Carter attese qualche secondo una risposta che non arrivò mai, quindi aggiunse: «Ti ricordi cosa stavi facendo quando lui è entrato in aula?»
La seduta precedente a quella, Anna Carter le aveva chiesto di descrivere il suo aguzzino e purtroppo Maia se lo ricordava benissimo: abiti gialli; capelli castani; occhi chiari; magro; alto. Normale.
«Stavo leggendo una favola…»
Maia Smith ricordava ancora a memoria la pagina aperta del libro e quello stupido disegno infantile nell’angolo in basso a destra del foglio che ritraeva un bambino con la testa sproporzionata rispetto al corpo mingherlino e il suo gatto Tom che sapeva parlare. Poi la porta dell’aula si era spalancata e un ragazzo trafelato era rimasto qualche secondo sull’uscio, respirando con la bocca aperta come se avesse corso la maratona di New York. Con le spalle che andavano su e giù per riprendere fiato, gli occhi marroni si muovevano agitati scrutando i bambini che intanto lo fissavano incuriositi. Maia aveva chiuso il libro e si era alzata in piedi, pronta a chiedergli se cercasse qualcuno o si fosse perso, ma non ebbe neanche il tempo di formulare mezza frase poiché l’altro – che poi scoprì chiamarsi Ray Pearson – chiuse la porta alle sue spalle con un tonfo e da dietro la schiena tirò fuori una pistola.
«Oh, mio Dio!» Furono le prime parole di Maia, la quale sentì subito le gambe come gelatina e d’istinto si nascose sotto alla cattedra.
«Non vi muovete!» Aveva esclamato Ray, puntando l’arma contro tutti e nessuno, gli tremava visibilmente la mano. I bambini intanto urlavano e piangevano e non ci volle molto che tutto quel fracasso attirasse l’attenzione degli altri docenti. Qualcuno bussò alla porta, provando a entrare, ma si ritrovò di fronte la faccia smunta e sudaticcia del ragazzo e la canna della pistola in bella vista:
«Non provate a entrare o vi ammazzo!» Richiusa la porta aveva tuonato ai bambini di fare silenzio, ma questi continuavano a piagnucolare come ossessi. Allora si era mosso verso la cattedra affacciandosi:
«Per favore, non farmi del male! Per favore, non-» gemette Maia.
«Vieni fuori e digli di smetterla di piangere!»
«Per favore, io non sono neanche di qui…»
«Vieni fuori, ho detto!» Ray l’aveva afferrata per un braccio e tirata allo scoperto. Vedendo la loro maestra i piccoli alunni sembrarono calmarsi appena.
«Ba-bambini, per piacere, non-» cominciò singhiozzando la giovane del Minnesota, ma Ray la interruppe bruscamente
«URLA!!! Digli che devono stare zitti o li ammazzo uno a uno!»
I bambini allora tacquero di loro, erano piccoli ma non così tanto da non comprendere quando era meglio chiudere il becco per avere salva la vita.
Appena smisero di lagnarsi, però, si udirono le strilla di quelli da fuori: insegnanti, dirigenti, genitori accorsi e sirene della polizia in lontananza.
«Lasciaci andare, non è successo niente. Lasciaci liberi…» provò Maia, ma in tutta risposta il ragazzo ordinò di sedersi in fondo all’aula e di fare silenzio.
La sua intenzione non era fare un massacro, come a volte succedeva in quegli stati di merda come il Texas, disse, ma cercava un solo bambino. Uno solo. Un certo Samuel, poiché gli aveva rovinato l’esistenza portandosi via sua madre.
«È tuo fra-fratello?» Chiese Maia, sperando di prendere tempo, ma a quella domanda Ray si alterò.
«È una cazzo di sanguisuga fotti mamma!» Tra un eccesso e l’altro, raccontò che sua madre si era sposata dopo la morte del padre con un altro succhiacazzi e ci aveva fatto un figlio: Samuel, appunto. Solo che da quando era nato questo piccolo mostro, la sua vita era diventata un inferno poiché lei non aveva occhi che per lui, mentre oramai Ray era diventato grande e doveva trovarsi un lavoro – parlava di sé in terza persona.
«Allora, chi di voi è Samuel?» Domandò alla fine.
I bambini tenevano lo sguardo basso, tremavano e qualcuno se l’era fatta anche addosso, se ne poteva sentire l’odore acre di urina, ma anche di paura. Se ne stavano stretti uno addosso all’altro, solo qualcuno si era avvinghiato alla maestra che sedeva quasi al centro della lunga fila.
«Chi di voi è SAMUEL?» Ringhiò Ray, impugnando la pistola convulsamente, scosso da tremori di rabbia. Anche la voce gli era cambiata, come impossessato.
«Non c’è nessun Samuel in questa classe» rispose Maia con un filo di voce e subito si ritrovò la pistola puntata contro. Cominciò a piangere.
«Stai mentendo! Chi è Samuel?»
«Te lo giuro, non c’è nessun bambino di nome Samuel! Pu-puoi controllare sul registro se vuoi…» Il tono di Maia si era fatto più stridulo e petulante, quasi non lo riconosceva.
«STAI MENTENDO! VI AMMAZZO TUTTI! CHI È SAMUEL?»
 
A questo punto il racconto di Maia si interruppe. Era la prima volta che raccontava ad alta voce ciò che era accaduto in quell’aula. Certo, c’era stata la deposizione alla polizia, ma era avvenuta in maniera diversa. E a loro interessava poco o niente considerando che…
«Maia, tutto bene? Cos’è successo dopo? Non interrompere il flusso dei ricordi, rimani concentrata» la dottoressa Carter la invitò a continuare, mentre annotava alcune domande che le avrebbe posto in seguito.
 
Proprio mentre Ray urlava come un ossesso e puntava la sua pistola contro i piccoli alunni della scuola, sulla sua tempia era comparso un puntino rosso luminoso. Il ragazzo non aveva fatto neanche in tempo a comprendere cosa fosse che un proiettile lo aveva attraversato da parte a parte.
Non si udì nulla, né lo sparo, né l’urlo di dolore – ammesso che ne avesse provato – del giovane. Solo il tonfo sordo del suo corpo che si accasciava sul pavimento dell’aula, urtando un paio di banchi prima di toccare terra. Un attimo dopo una pozza di sangue scuro e denso prese ad allargarsi sotto al suo cranio.
Maia si era alzata in piedi, temendo per un attimo che le gambe non la reggessero, dovendo appunto sostenersi ai vari tavolini e alle piccole sedie, solo per affacciarsi su Ray: un ragazzo dall’aspetto normale che adesso la fissava con occhi vacui e l’espressione stupita.
Fu in quel momento preciso che avvenne la separazione dentro di sé. Una parte della sua anima, del suo essere se stessa, era rimasta per sempre intrappolata in quello sguardo vuoto, profondo e scuro come un pozzo nero dal quale non era più riuscita a risalire.
Qualcuno l’aveva portata via sostenendola per le braccia, forse dei poliziotti, mentre i bambini venivano accompagnati fuori, al sicuro dai loro genitori. Tutto sembrava muoversi al rallentatore, persone che la sfioravano e la ringraziavano con le lacrime agli occhi, altri che le chiedevano se stesse bene, perché era stato davvero orribile quello che era capitato.
Lei non riusciva a smettere di pensare agli occhi di Ray…
«Perché prova tanta pena per lui?» Le chiese Anna Carter.
«Perché è stato vittima della società.»
«Vuoi spiegarti meglio, Maia?»
Quando era stata portata alla stazione di polizia per depositare la sua versione dei fatti, la tizia che l’aveva ascoltata alla fine le aveva riferito che Ray Pearson era figlio unico e che suo padre non era morto, né sua madre si era risposata con un altro uomo dando alla luce un bambino. Non esisteva nessun Samuel. Faceva tutto parte della sua immaginazione, della sua mente. Era un ragazzo tremendamente malato, instabile, che aveva solo bisogno di aiuto. Un aiuto che non gli era arrivato da nessuno: né da una famiglia dalla mentalità troppo chiusa che non aveva compreso o accettato la malattia del figlio; né da una società che l’aveva lasciato solo e giustiziato prima ancora di sentire la sua versione dei fatti. La pistola che impugnava, d’altro canto, era vera e con un colpo in canna.
La poliziotta l’aveva poi ringraziata stringendole la mano per essersi presa cura di quei bambini, per averli protetti e tenuti al sicuro. Maia non aveva risposto, semplicemente era andata via ed era salita in macchina con Alex. Gli incubi erano cominciati quella sera stessa.
La psicologa Anna Carter chiuse l’agenda e decretò la fine anche di quella seduta. Aveva fatto un enorme passo avanti quel pomeriggio e se ne congratulò. Non erano lontani dal raggiungimento dell’obiettivo, di sicuro la strada intrapresa era quella giusta.
 
Maia entrò in macchina chiudendo lo sportello e guardando fisso davanti a sé, come faceva sempre. Sua madre la osservò qualche secondo, prima di chiederle come fosse andata.
«Bene» fu la risposta secca della figlia.
«Cosa vuoi per cena? Lasagne o pizza?»
«È uguale.»
La madre mise in moto, sospirando profondamente. Una volta Maia le chiedeva di cucinare questo o quello, amava il buon cibo e la compagnia che ne scaturiva da una bella mangiata. Adesso, invece, le era tutto indifferente: che le preparasse un’insalata o una bella lasagna all’italiana non le faceva nessuna differenza.
“Pazienza”, si ripeté come faceva da diversi mesi a quella parte, “pazienza”. 
 
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Dopo poco più di un mese di terapia, il colore giallo del bouquet sulla scrivania della dottoressa Carter la infastidiva molto di meno. Il giallo non sarebbe diventato il suo colore preferito e probabilmente non avrebbe mai comprato un abito di quella tonalità, né una borsa, o un foulard, ma il solo fatto di riuscire a sfiorare con lo sguardo quei bellissimi fiori – Iris Wilsonii – era una bella soddisfazione.
Conquista avrebbe detto la psicologa. Era una conquista.   
Maia Smith e Anna Carter si accomodarono quasi all’unisono sul divano, del quale oramai non occupavano più le due estremità, ma entrambe tendevano a sedersi un pochino più al centro senza l’accortezza di stare a debita distanza.
Maia si era ritrovata, o quasi. Ma riusciva a vedersi, a distinguere di nuovo la sua sagoma, quella parte di sé che credeva di aver perso e che invece si era solo acquattata sul fondo della cantina della mente. Un po’ come faceva lei quando si nascondeva nel sottoscala per sfuggire agli impegni e alle responsabilità che parevano volerla affossare. Invece, i problemi vanno affrontati, vanno guardati in faccia, chiamati per nome, compresi e risolti. Senza fretta, perché ogni cosa necessita del proprio tempo per guarire, rimarginarsi, crescere. Adesso lo sapeva, era una lezione di vita che non avrebbe dimenticato mai più.
«Ho telefonato ad Alex ieri sera» disse all’improvviso la giovane maestra, senza neanche attendere che la dottoressa glielo chiedesse.
«Di tua spontanea volontà?»
«No, perché mia madre aveva detto che aveva chiamato – di nuovo – per chiedere come stessi» Maia sollevò e abbassò le spalle in un gesto di superficialità. «Così ho pensato di richiamarlo per fargli sapere che sto meglio. Che va meglio…»
«Se era ciò che desideravi hai fatto la scelta giusta» approvò Anna. «Che effetto ti ha fatto risentirlo?»
Maia Smith distolse lo sguardo per guardare fuori dalla finestra e cercare di comprendere le sue emozioni. Quello era un esercizio che aveva imparato a fare lì, durante i pomeriggi in compagnia della signora Carter.
«Pensavo mi avesse scombussolato in qualche modo e invece niente. Mi sembrava di parlare con un vecchio conoscente al quale si rivolgono frasi di circostanza».
Anna Carter la osservò per qualche istante. Maia era stata davvero una brava paziente, difficilmente si raggiungevano obiettivi così soddisfacenti nel giro di qualche mese. Invece, quella giovane ragazza, che quando aveva varcato la soglia del suo studio riusciva a malapena a tenere lo sguardo alla sua stessa altezza a causa della presenza di un paio di fiori gialli, adesso affrontava le sue paura a testa alta, senza il timore di esternare ciò che provava. Eppure, gli anni di pratica, l’esperienza e soprattutto uno spiccato sesto senso le suggerivano che c’era ancora qualcosa che quella ragazza si portava dentro. Un pensiero forse, un sentimento che la tormentava. Forse il peggiore di tutti perché se ne vergognava. Temeva di essere giudicata? Aveva avuto a che fare con casi di sequestro di persona in cui la vittima piangeva disperata perché le mancava tremendamente il proprio rapitore. E non era tanto la mancanza il tormento principale, quanto l’imbarazzo di ammettere di sentirsi sola senza di lui.
La psicologa sospettava che Maia provasse qualcosa di simile, ma non direttamente legato al giovane Ray Pearson, poiché aveva già ammesso – e senza remore alcuna – di aver provato pietà e pena per un diciassettenne che aveva solo bisogno di un aiuto concreto.
Anna chiuse l’agenda e l’adagiò sul divano alle sue spalle. Maia lo osservò con un cipiglio fra gli occhi: non capiva. La donna si sporse in avanti: voleva che l’altra comprendesse che non era più una conversazione fra medico e paziente, ma una chiacchierata fra amiche, uno sfogo che sarebbe rimasto fra quelle quattro mura.
«Maia, siamo ormai agli sgoccioli del tuo percorso. Potremmo vederci ancora qualche volta se ti fa piacere, se ti fa stare bene, ma il peggio te lo sei lasciato alle spalle.» Anna Carter la guardò negli occhi. «Te lo chiederò una volta soltanto: c’è qualcosa che vuoi dirmi che non hai ancora fatto?»
Maia ebbe un sussulto. Schiuse le labbra per pronunciarsi, ma alla fine scosse il capo: non ce la faceva, era più forte di lei. Proprio non ci riusciva…
 
Quando Ray Pearson aveva chiesto chi fosse Samuel e ricevendo una risposta negativa aveva minacciato di uccidere i bambini uno a uno se non gli avesse detto la verità, Maia lo aveva supplicato di farlo se questo fosse servito a salvarle la vita. Aveva pregato di lasciarla libera, di tenersi i bambini, di sparare in testa a ciascuno di loro, ma di lasciarla vivere. Non voleva morire, era troppo giovane e la vita per lei era appena cominciata. Successivamente, i suoi alunni erano troppo piccoli e sconvolti per ricordare le suppliche che la loro maestra aveva rivolto a Ray, ma davvero Maia lo aveva fatto. “Ammazzali tutti se vuoi, ma lasciami andare, ti prego!”
E, alla fine della fiera, le mamme di quegli stessi studenti l’avevano ringraziata per essersi presa cura dei loro bambini, per averli protetti da quel pazzo ed essersi sacrificata. Anche la polizia l’aveva ringraziata e, il giorno dopo, tutti i giornali – locali e non – parlavano di Maia Smith come di una maestra modello che si era immolata per i propri piccoli studenti. Un eroe…
Maia si era sentita sporca. Una truffatrice. Di fronte a un evento estremo era venuto fuori il suo vero IO e aveva scoperto di essere una merda di essere umano!
 
Spostò lo sguardo oltre la dottoressa, fissando gli occhi castani sui fiori gialli alle spalle della donna in camice bianco, poi abbozzò un sorriso e la guardò:
«No» disse calma. «Nulla più da riferire.»
Anna Carter si fece indietro con la schiena, fino a toccare la pelle beige del divano, si tolse gli occhiali tastandosi la fronte prima di rimetterli.
«Perfetto allora» si alzò in piedi e Maia fece lo stesso mentre si stringevano la mano. «Permettimi ancora di ringraziarti per quello che hai fatto in Georgia per quei bambini. Non è da tutti. Hai dimostrato di avere molto coraggio, anche se hai dovuto pagarlo a tue spese.»
Maia fece per uscire dalla stanza, abbassò la maniglia della porta, ma prima si voltò indietro:
«Dottoressa Carter» la chiamò e attese che la donna la guardasse. «Non chiamatemi eroe. Non lo sono. Sarei fuggita volentieri da quell’aula se Ray me ne avesse dato l’opportunità.»
Anna Carter annuì un paio di volte con la testa. Adesso sì che le aveva confessato davvero tutto e il suo intero inconscio era stato messo a nudo.
Smascherato.
«È normale. Si chiama istinto di sopravvivenza ed è ciò che ci tiene in vita.»
 
 
֎
 

Maia entrò in macchina più leggera di quando l’aveva lasciata un’oretta fa.
Sua madre mise in moto dopo la domanda di routine: com’è andata? Ricevette la solita risposta che voleva dire tutto e dire niente: bene. A volte, ad entrambe, sembrava di essere tornate indietro nel tempo, a quando l’adolescente Maia tornava da scuola e sua madre le chiedeva della giornata.
Erano ferme al semaforo da qualche minuto, le strade costeggiate dalla neve mentre un termometro elettrico di una parafarmacia segnava diversi gradi sotto lo zero.
«Mamy» disse Maia all’improvviso, sembrava una vita che non la chiamava più così. «Per cena mi piacerebbe mangiare lasagne.»
La madre sorrise, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime scattò il verde. Mise la prima e partì piano, temendo che le ruote potessero slittare sull’asfalto ghiacciato. O che il suo cuore impazzito potesse farlo.
«Sì» affermò felice. «Sì, certo».


 
Ƒine
 
  
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