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Autore: ClodiaSpirit_    17/08/2023    0 recensioni
[Un Professore]
Un giovane professore si trasferisce in un nuovo appartamento al secondo piano, venduto a buon prezzo. L'appartamento ha già due inquilini, uno al secondo e uno al terzo piano, nella periferia di Roma.
Simone, il nuovo arrivato, non crede alla voce secondo cui, quel secondo piano, sia infestato dal fantasma del proprietario precedente che ci è morto.
Genere: Angst, Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I fantasmi di ricordi e di addii vi si mescolano con l'inizio di centinaia di viaggi per destinazioni lontane, senza ritorno. (Zafón, Marina)




 

 

 

Quando decisi di trasferirmi in una nuova casa, per allontanarmi dal temuto tetto condiviso con un coinquilino - da già tre -, ero già sulla soglia dei trent'anni.
Lavoravo già, ma non ero mai riuscito a comprare ancora una casa per me, neanche un piccolo e decente appartamento a poche miglia dal centro di Roma. Era impensabile trovarlo anche solo perché da un po' di tempo ricorrevo un quell'impresa.
Dividevo le spese, le bollette, gli orari in cui il mio giovane coinquilino come un personaggio venuti fuori da qualche vita alternativa e differente dalla mia, ritornava quattro sere su sette tardi a casa.
Non ho mai saputo secontinuasse a studiare o meno, ma io avevo già un lavoro da ben due anni.
Fare il professore di matematica: era in questo che avevo sempre eccelso, questo che mi era piaciuto scegliere, che avevo voluto scegliermi come professione fin dal liceo.
Trovavo nei numeri le probabilità più esatte a tutto il resto: la vita, semplicemente, mi era più prevedibile.
Quando finalmente potei di comprare un appartamento e potevo permettermi il lusso di avere i miei orari, la mia autonomia, di invitare chiunque volessi, c'era stato solo un piccolo problema: parte dei soldi, che avevo categoricamente rifiutato perché i miei mi sistemassero, avevo dovuto metterli da parte - prima che iniziasse a lavorare e escludendo di spendere quelli della mia laurea - per almeno quattro anni. La speranza che avevo coltivato, si era in qualche modo esaudita gli ultimi mesi della mia convivenza forzata, controllando i vari siti infiniti di offerte e svendite di monolocali in affitto e appartamenti che spulciavo con un'ossessione maniacale.
La speranza arrivò in un giorno pari di Novembre.
Lo ricordo bene, il cielo era grigio e non pioveva e il mio presunto coinquilino si era chiuso in stanza per dormire. Mi interessò uno degli ultimi annunci, si trattava di un appartamento all'interno di un vecchio palazzo semi-ristrutturato. Avevo scorso almeno su una quindicina di foto (alcune si ripetevano) da cui avevo tratto l'impressione che non fosse una truffa. Per sicurezza, quel 18 del mese avevo salvato il numero in rubrica. Chiamai quella sera stessa per informarmi meglio. L'interno era al secondo piano, la zona del condominio era periferica - ma non importava perché guidavo e prendevo i mezzi pubblici solo per spostarmi lo stretto necessario in centro e dintorni - e con parcheggio incluso data la scarsa presenza di vicini. Quella speranza formato mura ridipinte e finestre rinforzate, costava ben più della metà di tutti i miei risparmi, ma la verità è che non vedevo l'ora di imballare la mia roba, salutare il mio tremendo coinquilino e trasferirmici all'istante.
Vedevo già fiero il futuro nome affisso sulla targhetta accanto alla porta: Simone Balestra.
Avevo fissato un appuntamento per vedere la casa. La speranza mi aveva baciato la fronte: rispettava esattamente ciò che avevo visto nelle foto sul sito di vendita. C'era da cambiare solo qualcosa, aggiustare qualche presa elettrica o togliere qualche quadro troppo antico. Mi sembrò subito perfetta per viverci.

Mi trasferii una settimana dopo.
La ditta di trasporti arrivò puntuale (per mia fortuna) un lunedì pomeriggio. Venni avvisato prima di pranzo in modo da organizzarmi e così, salì a poco a poco tutto in casa.
Mi ero ricordato di videochiamare mio padre e di mandare un vocale a mia madre ovviamente, tra un pacco e l'altro e di pranzare con dei tramezzini comprati in un supermarket vicino insieme a qualche birra e delle uova e formaggio. Fu la mia cena mia cena di quella sera, avevo bisogno di qualcosa di veloce per via della stanchezza.
Seppi in breve tempo di avere poca compagnia in quel palazzo, gli inquilini erano rispettivamente uno al secondo e l'altro al terzo piano. Il primo piano era ancora in fase di ristrutturazione e sarebbe stato messo in vendita a breve, almeno così avevo sentito dire.
Una famiglia di quattro persone al terzo piano e una signora che viveva con un cane di piccola taglia al secondo, proprio di fronte alla mia porta.
Quelle persone mi salutarono entrambe, solo, in momenti diversi.
Della famiglia conobbi i due gemelli e la madre, una donna abbastanza giovane e dalla pelle perlacea, il marito era sempre al lavoro e non ebbi mai modo di vederlo.
La signora in compagnia del suo cane invece, si interessò di più, invece. Nel martedì, corsi via dalla mie due normali ore di lezione. Mi muovevo infatti con la porta aperta, senza paura che nessuno curiosasse all'interno.
Oppure semplicemente inconscio, approfittavo della mia libertà di non avere qualcuno di insopportabile tra i piedi.
Avevo fatto una seconda spesa più consistente il secondo giorno - dato che il frigo era capiente e la sua presa elettrica non doveva essere sostituita - ed ero sul punto di aprire pochi altri scatoloni con i miei effetti personali dentro e liberarli da chili di scoatch, quando un leggero guaito, seguito da dei passi sulle scale non umani, mi fece girare. Uno yorkshire terrier con un collare mi fissava e usciva fuori la lingua, mentre la sua padrona sulla sessantina, teneva le chiavi di casa in mano e gli sussurrava qualcosa. Poco dopo, lo guardò e copiò il piccolo peloso. La donna mise su un sorriso rivolto tutti quanto a me, indossava un cappotto grigio, come i suoi capelli corti.

« Ah, buongiorno, lei deve essere il nuovo inquilino? »

Annuì, mostrando a mia volta un sorriso. Mi mossi nel corridoio e mi sporsi per allungarle la mano.

« Piacere, Simone. Non ci siamo presentati prima, sa il trasloco... mi dia del tu se vuole. »

Aveva poche rughe, la sua stretta libera dal guinzaglio, la trovai vigorosa e forte.

« Antonia »

Mi studiò abbastanza, mentre mi chinavo per accarezzare il cane ai suoi piedi, che mi leccò senza mostrarsi ostinato.

« Sei di Roma? »

« Sì, insegno, sono un professore. »

« Così giovane, ah, beh che fortuna. » si complimentò.

Antonia annuiva sempre più curiosa ad ogni informazione.

« Devi avere un bel fegato ragazzo, come tutti gli altri che sono venuti ad abitare qui, del resto. » si lasciò scappare, colorando il tutto con una risata.

Trovai curioso quel suo atteggiamento.

« Perché mai?»

Antonia, la mia nuova inquilina, aprì la serratura della porta di casa, il cagnolino rimase a studiarmi con la lingua esposta in fuori. Sospirò rivolgendomi gli occhi chiari.

« In quell'appartamento c'è morto un ragazzo, circa due anni fa, io vivevo già qui allora.» spiegò metodica « Quel giorno ero fuori casa, ci fu un incendio. I pompieri non sono arrivati in tempo. Ecco perché l'ascensore è nuovo, meglio rispetto al precedente: i fili elettrici si sono bruciati. Il poveretto però, dopo un'ora e mezza era bello che andato. È da allora che l'appartamento viene venduto e svenduto in tempi record di pochi mesi. »

La mia faccia dovette assomigliare a un punto interrogativo per lei, perché sorrise divertita. Ero ancora piegato ad accarezzare le orecchie del suo cane.
Era scontato, troppo palese chiederlo, ma io lo feci ugualmente.

« E perché? »

Antonia, scrollò le spalle, invitò Byron dentro casa, lasciando il guinzaglio a e quello scomparve oltre la porta in un lampo.

« Perché dicono che quell'appartamento sia infestato.»

Mi alzai dalla mia posizione, mi grattai la testa.

Le storie di fantasmi sono solo storie.

« E lei ci crede? »

« Non ho mai saputo che cosa pensare, » ammise la signora, una linea piatta sulle labbra, le sostituì la dentatura ancora non intaccata e sfoggiata poco prima « sono una povera vecchia per riuscire a spiegare certe cose, so solo che non ho mai voluto entrarci. Più che altro, » continuò abbassando la voce mettendo la mano affianco alla bocca « non mi fidavo tanto degli inquilini. »

Quello sguardo doveva farmi paura forse, ma io non credevo alle leggende, né tanto meno a spiriti o fantasmi. Quelli esistevano nella fantasia e nelle storie degli adulti per spaventare o divertire i bambini, ma erano solo storie. Non mi spaventai, credo che trovai solo un po' ambizioso credere a eventi soprannaturali in un posto come Roma, soprattutto nella periferia. La cosa più soprannaturale che esisteva erano le centinaia di buche, turisti cafoni e vortici in cui la spazzatura non veniva risucchiata ma si accumulava a dismisura.
Antonia mi lanciò un sorriso quasi dispiaciuto e che sistemasse la mia espressione confusa. Ero arrivato da otto giorni, parlare di presenze non era di certo l'argomento migliore per accogliere un nuovo arrivato.

« Chissà, forse questa volta sarà diverso. Forse è solo suggestione. Beh, ti auguro una buona giornata e una buona permanenza nel condominio. »

Le sorrisi come lei sorrise a me e quando la mia inquilina chiuse la porta dietro di sé, ritornai dentro quella che sarebbe stata la mia nuova casa. Decisi di accendere lo stereo, collegai il cavo del cellulare alla porta usb e la mia playlist preferita per occupare il tempo mentre mi attendavamo altri scatoloni da spacchettare e vecchie cose da sistemare.
 

**

 

Il primo weekend lo trascorsi pulendo da cima a fondo il mio nuovo appartamento - nonostante mi fosse stato presentato impeccabile - per la paura della polvere gli scatoloni avevano trasportato e anche perché, sentì la necessità di accendere la musica ancora una volta e poi rilassarmi con una tazza di thè fumante. Il mio pomeriggio fu tranquillo, con la pioggia che batteva sui vetri e il bollitore, un regalo di nonna, che non raggiungeva la temperatura sul fuoco. Deve essere stato in quel momento, mi ero girato un attimo a controllare il film da guardare quella sera, che il cucchiaino messo dentro la tazza sul bancone cadde a terra. Forse, distratto, non lo avevo più messo dentro l'oggetto, ma lasciato fuori.
Così lo raccolsi, sospirando. Era da un po' che sistemavo quel nuovo nido per così dire, per renderlo confortevole e perfetto in mezzo ai turni mattutini che spendevo per la mia classe, ai compiti che portavo a casa.
Probabilmente la mia, era solo stanchezza.

La mattina seguente, ripresi la mia routine solita: tanto caffè, due biscotti e un bicchiere d'acqua. Avevo già messo la moka sul fuoco - ero contro l'uso di macchinette industriali del caffè, preferivo un aroma deciso, pronto a svegliare anche l'orso più pigro del mondo. Questa volta, mentre mi lavavo i denti, sputavo il dentifricio e finivo pulendo lo spazzolino, il rumore dalla cucina mi colpì particolarmente. Non fu il cucchiaino a cadere, bensì la tazza in ceramica ancora non riempita. Il caffè era appena salito dentro la moka col suo odore tipico. Mi grattai la testa imprecando appena. Avevo lasciato la finestra aperta quella domenica, l'aria era frizzante ma non tirava molto vento.

« Okay, questo è strano. » ricordo di essermi detto tra me e me.

Chiusi così la finestra attesi a non tirare le tende perché erano ancora le nove del mattino e sospirai.
Per fortuna, avevo portato una serie di tazze custodite nei primi pacchi che avevo disfatto dal trasloco, non perché le collezionassi, ma perché era parte del corredo che mi aveva conservato nonna prima di finire da alcuni mesi in un ospizio per problemi motori e quelle tazze variopinte, me la ricordavano.
Non ero il né primo né l'unico materialista che vedeva in un oggetto un ricordo.
Non ci misi molto a buttare i vetri rotti dopo averli raccolti, sostituì la tazza vecchia con una nuova, presi la zuccheriera, versai il caffè, feci lo stesso con lo zucchero e girai con un cucchiaino che riposi subito dopo nell'apposito cassetto.
Mentre bevevo il caffè e cercavo di godermelo, davo le spalle al bancone della cucina, il tavolo davanti a me, così come la finestra.
Pioveva, c'era una tipica arietta pre-invernale.
Non so perché, ma in quel momento le parole della mia inquilina mi tornarono in mente, le ricordavo nonostante fossero passati nove giorni, beh devi avere un bel fegato. Poi però pensai lucidamente. Risi in modo ridicolo, guardai il caffè dal suo colore scuro: mamma mi aveva sempre detto che molte cose le costruiamo noi stessi per compensazione alla solitudine, per tormento, dando vita a nuovi mostri interiori che ingigantiamo e ci divorano pian piano. Non era una psicologa, ma ne avevo frequentata una al liceo. Poteva essere il tipico comportamento di chi manifestava la propria paura attaccandola un po' a tutto, anche ai piccoli oggetti.

C'ero solo io in quella casa, nessun'altro. Stavo vivendo in prenda a una suggestione, solo questo.

« Gli spiriti non esistono, sei solo stanco. » mi ripetei.

Ritornai dall'uscita con i miei amici di vecchia data - e gli unici ad essere rimasti credo, dopo una serie di cambiamenti e presenze che erano andate e venute nella mia vita - e stanco morto, ricordo che aprì la doccia. I miei occhi erano aperti, riuscì ad aprire il doccino e toltomi i vestiti di dosso, senza nemmeno fare caso a dove mette o cosa, mi infilai in doccia. Il getto della doccia caldo fu un sollievo sulla mia pelle gelida.
Il sapone profumava i miei ricci, forse l'unica parte del mio corpo di cui andavo fiero e geloso e quando toccò al bagnoschiuma, quello mi sfuggì dalle mani. Riuscì ad acciuffarlo in breve, spremerne un po' sul palmo della mano e iniziare a insaponarmi ad acqua chiusa.
Abituato ad eventi spiegati in fisica e calcoli, mi stupì quando il contenitore del bagnoschiuma cadde dall'apposito ripiano, senza nemmeno una folata di vento. Le mani si fermarono sul mio corpo: il bagno non aveva una finestra in quella casa. Non so perché ma ebbi l'istinto di guardarmi intorno, come se qualcuno mi stesse spiando. Anche l'ordine del mio shampoo ora era diverso, non più a destra, ma a sinistra in alto.
Per la prima volta pensai fosse inquietante. Mi chinai dopo alcuni secondi di riflessione, come se potessi ricomporre il puzzle di stranezza che si insinuava dentro di me.

« Simone Balestra, stai diventando forse pazzo?» dissi in terza persona, proprio come uno schizzato.

Mi misi a cantare a voce così alta che avrei potuto spaventare qualsiasi ladro o scassinatore che avesse voluto entrare in casa e prendere ciò che voleva.
Una spiegazione più che valida.

La cosa più strana però, non era ancora arrivata.
Terminata la doccia, asciugati i capelli, avvolto nel mio pigiama, non avevo sonno.
Disteso a letto gambe divaricate e braccia dietro la schiena, ripensavo al cucchiaino, alla tazza ed ora, al bagnoschiuma.
Ecco, che il salotto mi accolse, accesi la televisione e controllai: le tre di notte.

Per fortuna non avevo lezione l'indomani.

Stringevo il telecomando in mano. Accesi la televisione sperando che mi inducesse la sonnolenza che all'improvviso era scomparsa. Beccai un film per caso su un canale, non mi informai neanche sulla trama, avevo solo bisogno che i miei occhi si stancassero. Una scena di donna e un uomo, intenti in una situazione classica comunemente vietata a un minore di diciotto anni, sbattuta lì per gli insonni e indurli a pensare alla sfortuna e carenza di chi praticava le stesse pose o gli stessi versi. Sospirai, portando una mano sul viso. La cosa più divertente avvenne proprio nel momento in cui il climax si stava definendo, la bocca della donna era troppo rossa e sguaiata, - ma di cui dimenticai subito perché i miei occhi erano rivolti solo su di lui - il canale cambiò senza che toccassi un pulsante.
Ero lucido.
Cambiai un'altra volta, portando il corpo a rannicchiarsi sul divano come un animale spaurito che aveva superato la fase dello svezzamento.
Tremava la mano con cui reggevo l'oggetto. La cosa successe altre due volte, e due volte ritorni al canale precedente. Alla terza, spensi il televisore. E me ne tornai a letto. Ricordo perfettamente di aver urlato senza grazia, né candore:

« VAFFANCULO! »

 

Non dormii per due notti di fila, il mio ritorno a scuola ne risentì. Avevo in corpo almeno due caffè e un terzo preso nella macchinetta a scuola, ma dopo mezz'ora che mi trovavo in quel luogo, le palpebre volevano chiudersi e il corpo stendersi in un anfratto di letto e dormire.
Ero riuscito ad ascoltare un mio studente chiamato alla lavagna per i primi dieci minuti, poi lo avevo mandato a posto, senza controllare che avesse risolto così bene l'equazione.
Sapevo che una volta ritornato a casa, sarei stato indaffarato a capire se vivevo davvero da solo o dividevo i miei spazi con qualche anima fluttuante che amava prendermi in giro.
Pensai di aver scritto sulla fronte pazzo visionario.
Facevo abbastanza rumore di mio quindi, da quando quegli eventi erano cominciati: avevo preso l'abitudine di canticchiare in determinate ore per evirare che venissi colto di sorpresa o a chiudere più volte le finestre durante la giornata.
Come uno straccio giovedì tornai a casa, aprì la porta di casa, buttai le chiavi sul tavolo, tolsi le scarpe senza riporle e il cappotto allo schienale della sedia, tutto in questo preciso ordine.

« Ora ti fai un thè caldo e ti stendi. Simone, sta calmo. »

Tranquillo, divenne la mia parola mantra.
Come se una parola potesse effettivamente risolvere le cose all'interno della mia testa.
Il miracolo di una parola che potesse contenere l'ansia e l'inquietudine, dovevano ancora inventarla.
Forse avrei dovuto pratica della meditazione, molti miei colleghi a scuola ne parlavano, non era una cattiva un'idea.
Inviai anche un messaggio di risposta a Laura - una delle mie amiche storiche - per scriverle che non riuscivo a raggiungerla per pranzo.
Trovai la forza di mettere su il bollitore con l'acqua, presi una bustina a caso e aspettai. Il gas era acceso, tenevo gli occhi fissi sulla tazza in modo che non avesse intenzione di saltare giù questa volta e rompersi. O meglio, che qualcuno la buttasse giù per romperla. Combattei contro lo sbadiglio che sentivo arrivare. L'acqua stava per sfiorare il bollore, strappai l'involucro della bustina di thè. La stanchezza vinse e nel momento in cui strizzai gli occhi per sbadigliare, non ebbi nemmeno il tempo di spendere il gas. Stesso schema di sempre, finestre chiuse. Raccolsi le forze che mi rimanevano, presi il bollitore e lo sbattei con una certa forza contro il bancone, poco distante dalla tazza che reggevo dal manico.

« Ascolta, adesso basta! » alzai il tono di voce, furente « sono stanco, chiunque tu sia, ho bisogno di dormire, non ho tempo per questi giochetti! Ti diverti? Bene, io no. Cazzo, non mi diverto per niente. Non voglio disturbare nessuno, » non sapevo a chi stessi parlando, ma mi ero girato di scatto verso il divano, la scrivania a muro con la piccola libreria Ikea, vicine alla seconda finestra « sono venuto in questa casa per stare meglio. Voglio solo che questa giornata passi e soprattutto voglio riposare. » borbottai.

Discutevo e parlavo al silenzio, versai l'acqua dentro la tazza, era ancora calda. Sperai che Antonia, la mia inquilina non fosse in casa, lo sperai davvero.

« Lo capisci questo? R i p o s a r e. » scandì bene.

Forse parlavo a un'anima straniera, non potevo esserne certo. Mi sentivo uno stupido in ogni caso, però come ogni stupido che si rispetti, non potevo mettere un punto a ciò che avevo iniziato. Dovevo arrivare alla fine. Era un giovedì e Simone Balestra parlava al nulla dentro casa sua. « Se ti annoi puoi benissimo passare oltre i muri e cercarti qualcun altro da tormentare. »

Attesi.

Non so perché mi aspettassi una risposta.
Mi stava prendendo la pazzia che qualcosa di soprannaturale mi rispondesse e la cosa mi provocava una risata quanto raccapriccio.
La scienza non poteva venirmi in soccorso, solo qualcosa al di fuori, qualcosa di diverso al suo posto.

Mi sedetti al tavolo, a bere dalla mia tazza, percepì solo il rumore dei miei sorsi, l'aroma del thè, il respiro che faceva fatica a calmarsi. Un punto fisso della parete aveva preso la mia attenzione, forse credetti di poterci vedere qualcosa. Forse avrei avuto un po' di pace, da quel momento in poi.



 

**


 

Non so che ore fossero di preciso.
Dopo una giornata stancante, che in parte mi aveva portato a fare visita mia nonna Virginia in ospizio, fare la spesa, passare in banca e dividere la spazzatura, cenai con latte e biscotti, una cena frugale ma veloce e senza impegno che mi ricordò quando ero ancora un adolescente. Avevo lasciato le finestre aperte per fare girare l'aria dentro la camera. Era novembre inoltrato, ma per qualche strana ragione non sentivo freddo. Ricordo che chiusi gli occhi dopo aver a lungo cazzeggiato su internet dopo cena e cercato di portare a termine la correzione di qualche verifica dei miei studenti, arrivando a correggerne circa meno della metà per via degli occhi pesanti.

Pazienza, mi dissi, avrei concluso l'indomani.

Molti di quei fogli erano rimasti sul comodino, altri erano scivolati a terra perché il sonno mi aveva preso con sé.
Il vento li spostava creando un leggero rumore di carta sul pavimento.
Questo almeno fui certo di non immaginarlo.
Il sorriso di mia nonna mi accompagnò chiudendomi gli occhi, respirai piano e quando quel respiro si fece regolare, caddi addormentato.
Ero così stanco che non dimenticai tutti i miei pensieri.
Anche quello, mi avrebbe fatto ridere se /lo avessi elaborato: non esisteva Simone Balestra senza un cervello iperattivo che lavorasse più del dovuto, anche dormendo. E invece non sognai nulla.
Proprio per questo stato di mollezza e abbandono, non so cosa mi portò a svegliarmi.
Forse avevo bisogno di bere, oppure cominciai a sentire freddo.
Ma il mio corpo - fui sorpreso di capire - era già al caldo, coperto.
Non ricordavo di aver tirato le coperte. Troppo stanco, non avevo nemmeno tolto la tuta per stare a casa, ero maglia a maniche corte e pantaloni pesanti. Ero crollato a letto senza infilarmi il pigiama, intento com'ero a correggere le verifiche, figuriamoci tirarmi addosso il piumone.

Mi stropicciai gli occhi con una mano e lentamente mi portai sul materasso tirandomi su. I miei occhi si aprirono. Sbattei le palpebre più volte.

Rabbrividì.

Non esistevano i fantasmi. E allora cosa stavo guardando?

All'inizio mi sembrò un'ombra. Ma le ombre non erano chiare, né fatte di una luce bianca e velata tanto da potervi vedere attraverso. Proprio come un angelo, ma di meno, credo. Non ne ero sicuro dato che non avevo mai avuto la fortuna di vedere un angelo. Non avevo mai creduto a quelle cose, non ero un esperto.
Quella luce velata, un po' abbagliante, aveva un sagoma, quella sagoma era quella di un uomo, ne ero certo. Non credetti ancora a cosa stavo vedevo, scattai indietro con la schiena contro la tastiera del letto, spaventato.

« Che diavolo...» mormorai ansioso.

Lo spirito si mosse, indietreggiando con la testa o almeno così lessi quel movimento. Fu troppo veloce da elaborare. Distinguevo meglio quello che una volta era stato il naso, la bocca, gli occhi. I capelli onde indistinte, forse fatte di ricci, una volta..
Avvertì come una brezza di vento soffiarmi addosso, quando quella luce sagomata parlò.

« Tu riesci a vedermi? »

La mia testa incontrollata faceva su e giù, mi tenni a debita distanza. L'ombra era in qualche modo, seduta di fronte a me sul mio letto. Deglutì.

« Tu mi vedi. » ripeté. Lo stesso spruzzo d'aria mi investì il viso.

Quell'ombra sembrò stupirsi, quando invece la persona a cui doveva rifarsi quel sentimento ero io.
Io che avevo subito i suoi scherzi, io che mi dannavo per quelli da una settimana, io che non avevo mai visto qualcosa di soprannaturale al di là dello schermo della mia televisione.

Fu chiaro senza alcun dubbio ormai: io Simone Balestra vivevo ufficialmente con un fantasma dentro casa.
Potevo testimoniarlo, non era ancora pronto a morire di crepacuore.

Il fantasma del ragazzo restò immobile.

Seppi che era una domanda stupida quella che stavo per porgli, ma non mi era stato descritto, anche se davo per scontato quell'informazione e così lo chiesi lo stesso.

« Sei... » articolai senza finire. Strinsi appena il bordo del piumone con le dita e cercai di capire come fosse possibile riconoscere quei tratti di un'anima che una volta era in vita.
« Sei il ragazzo che è morto qui dentro, vero? »

Non ricordavo il suo nome, ero troppo scosso, i miei occhi ancora pesanti ma furono vinti dal mio battuto accelerato. Forse non era poi così tardi per perdere i sensi.
Antonia me lo aveva detto al nostro secondo incontro il giorno in cui l'addetta del servizio del palazzo era intenta a lavare le scale, mentre ritornavo da casa dei miei.
Forse me lo sognai, ma mi era sembrato stesse facendo una smorfia. Non entrava nessun tipo di luce, quello spirito era il solo ad emanarla.
Non sapevo cosa provare, non mi ero ancora abituato a quella presenza.

« Manuel, quello che c'ha avuto la fortuna de morirci, sì. E tu sei il nuovo inquilino. »

Me lo disse con un misto di disappunto, di rassegnazione, anche curiosità forse. Non lo so, non riuscì a interpretarlo: era pur sempre qualcosa di evanescente, irraggiungibile.

Non ero mai stato il tipo da cose misteriose, anzi, quelle preferivo segregarle con me se necessario. Ma erano piccole. Non avevo morti sulla coscienza. Mi resi conto che era passato più di un secolo dall'ultima volta che avevo parlato.

« Sei qui da molto? »

Il mio cervello mi urlò automaticamente che dovevo comporre il numero di qualcuno, un psichiatra, un medico, qualcuno che sapesse dare un minimo di significato a quella visione. Il corpo invece portò due dita a pizzicarsi il braccio sopra la felpa.

« Non tanto, » anche la risata vibrò come una brezza che parve spostarmi i ricci « solo due anni. »

Annuì. Due anni prima vivevo ancora con il mio coinquilino, e stavo finendo i miei studi universitari.

« Ha intenzione di tormentarmi ancora? » chiesi con un filo di voce.

Mi studiò.
Un fantasma mi studiava e sembrava che si divertisse nel farlo. Si dondolò - o almeno ci provò - e la sua forma incorporea attraversò l'aria, anche se mi sembrò di finire dentro le sue pupille vuote.
Non rispose, si teneva le mani sulle piante dei piedi, speculari. Non avevo capito quando, ma si era messo a gambe incrociate, quelle che comunque una volta lo erano.
Deglutì ancora.

« Non so se hai ucciso qualcuno o se sei qui per un tornaconto personale, » cominciai a dire senza sapere dove stessi andando con quelle parole « ma non lascerò questa casa, qualsiasi cosa tu faccia. Io ci vivo, adesso. »

Il fantasma di Manuel scoppiò a ridere.
Ricordoche il rimbombo mi arrivò in un eco e al petto, come se nella stanza si fosseromaterializzate delle montagne o alte vallate in un secondo e io fossi sullaloro cima.

« "Ucciso qualcuno", ma che te sembro, Patrick Swayze in Ghost? »

Strabuzzai gli occhi.
Non mi venne da sorridere, anzi, masticai l'interno del palato quasi imbarazzato.
Quell'approccio fu il più strano della mia vita.
I miei occhi dovettero sembrargli interessanti, perché si fermò il tempo per riprendere a studiarmi. Alzò una mano, per portarla dietro la testa, parte delle dita non affondarono, fluttuarono in aria.

« Non ho ucciso nessuno. E nessuno ha ucciso me. Sono bloccato in questa casa da quando sono morto. »

Era un passato scomodo quello che si stagliò nei suoi occhi che davano più sul grigio, rispetto al resto della sua forma.

« Oh... » borbottai.

Mi dispiace che uno spirito sia rimasto intrappolato in casa mia.
La bocca non seguì la testa, andò slegata, impertinente.
Non fermai la mia lingua quindi.

« Due anni sono tanti per annoiarsi... »

Lo spettro sembrò ridere.

« E lo dici a me? »

« Sono sicuro che troveremo un accordo. » buttai fuori aria invisibile.

Pensai che fosse il suo passatempo, nonché l'unico per tenersi occupato. Mi misi nei panni di quella strana presenza.
Lo spirito di Manuel continuava a studiarmi invidioso forse della mia forma in sangue e carne. Non gli andava sicuramente a genio una presenza che disturbasse il suo spazio.
Il mio desiderio era quello di una convivenza pacifica.

« Io voglio restare. » conclusi.

Manuel non mi rispose.
Fece un'altra smorfia ma non rivolta verso di me, guardò la finestra alla mia sinistra, invece.
Io volevo restare e lui voleva andarsene ma per un motivo che non capivo non avrebbe potuto farlo.
Bloccato, aveva detto.

« Forse già sai, quasi tutte le mattine la casa è libera... » non lo guardai in quelle pupille vuote, non perché mi facessero paura, ma perché non riuscivo ancora a rendermi conto che era vera quella esperienza.

Lo invitai con quella affermazione a fare tutto il caos che desiderava, senza la mia presenza, speravo di averlo reso chiaro.

« Giusto, allora penso di non avere altra scelta. » mormorò, mi arrivò una brezza leggera addosso. Non fece nessuna smorfia, sospirò forse da quel che potei vedere rialzando lo sguardo. « Limiterò la mia presenza per quel che posso. »

Mi sistemai il piumone alzandolo sopra le ginocchia. Mi infilai all'interno, ma non ero più spaventato come prima. Prima che il fantasma sparisse però, ricordo molto bene cos'altro gli chiesi. Ormai, non avevo più una spiegazione razionale e non credevo ci fosse più motivo di perdere le forze a cercarla.

« Dove uhm... dove sei abituato a dormire? »

Glielo chiesi come fosse una cosa normale.
Ci ripensai bene: rientrava nella categorie delle domande stupide da non fare per non essere scambiati per deficienti, appunto. Ma la logica mi aveva pure sempre abbandonato, quindi mi concessi qualche stupidaggine.
Me lo chiesi, anche perché ero già da dieci giorni in quell'appartamento e se ero stato spiato nel sonno o guardato come era capitato quella notte, avrei voluto saperlo.
In fondo, credevo di avere già la risposta ma non mi spinsi oltre quel muro.

« Simone, » sussurrò, Manuel si era già alzato dal mio letto, il busto si torse, gli occhi diventarono più piccoli, la sua figura ancora l'unica fonte luminosa della stanza « i fantasmi non dormono. »

L'altra cosa che mi chiesi fu perché sapesse il mio nome.
Manuel mi anticipò.

« Antonia. »

Manuel si dirigeva verso la cucina, perché uscito fuori dalla camera, la prima stanza che avrebbe incontrato sarebbe stata quella.
Il tavolo con il runner e sopra il vaso con i fiori freschi di un giorno.
O quella o avrebbe vagato per la casa. « Quella donna è 'na santa che cammina. Vi ho sentito parlare. »

Annuii lentamente.
Non seppi che altro fare, quindi mi stesi a letto girandomi su un fianco. Guardai la sveglia sul comodino, avevo l'impressione segnasse le tre.
Passarono pochi secondi, il silenzio avvolgeva di nuovo la stanza ed io ebbi l'urgenza di parlare un'ultima volta quel giorno.
Mi sembrò strana tutta quella situazione, gli eventi che la avevano preceduta, ma lo ammisi a me stesso dall'altra parte, trovavo conforto nell'avere qualcuno con cui condividere quello spazio.

Sì, Simone, sei pazzo, mi sussurrai in mente.

« Buonanotte... »

Non ricevetti risposta. Quella brezza proveniente dalla direzione opposta si allontanò.
Chiusi gli occhi, la stanchezza mi riprese con sé, così come lo stato di calma.
Dall'altra parte della stanza invece, mentre io venivo cullato da Morfeo, lo spirito mi guardò in silenzio per vari minuti.
Restò davanti la porta, poi si sentì in qualche modo libero di lasciarmi dormire.

 

   
 
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