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Autore: time_wings    19/08/2023    1 recensioni
[Wolfstar, Jily + una ship non taggata]
Sirius Black sa che ha quattro mesi prima di perdere la vista. James Potter sa che hanno quattro mesi per vedere il mondo insieme. Dopo averci riflettuto per meno di dieci secondi, i due partono per un viaggio dalle destinazioni incerte, che li porterà più lontano di quanto avessero previsto. Perché alla fine è davvero così cruciale trovare se stessi?
Una storia raccontata da alcuni occhi.
Dal testo: “Sei uno che pianifica molto, eh?” La verità era che non lo sapeva, era cresciuto con l’idea che leggere gli altri servisse solo a sfruttarli successivamente. Era nuovo a questo gioco.
“Mh, un sacco.”
“È molto grave, fa male alla salute.” Inclinò il viso su un lato, lo guardò ancora, le palpebre di colpo pesanti rispondevano più al torpore che al sonno. Un altro paradosso di quel paese. Le ciglia di Remus si piegavano sulle guance, la pelle era segnata da qualcosa che sembrava vento. “Dove hai detto che vai?”
Genere: Commedia, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: James Potter, Lily Evans, Peter Minus, Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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Parlami di mari in tempesta



 
 


Ogni cosa era vento.
Inconsistente, alla fine, più sensazione che visione. Avrebbe dovuto rincuorarlo e invece era una cornice, un assist, un candelabro che avrebbe potuto fare da protagonista nella casa di un collezionista, ma che restava in qualche modo inutilizzato se non ospitava candele.
Si abbatteva su ogni superficie che osasse sfidarlo e lui, umano inutile, non lo sfidava, ma ne restava vittima ingiusta lo stesso.
Il vento se la prendeva anche con una cosa sottile come il pelo dell’acqua, una barriera insignificante che acquistava forza quando si faceva distesa, quando si faceva oceano. E allora il vento perdeva, veniva a patti con quel mostro liquido e gli stringeva la mano finché le loro dita intrecciate non intessevano motivi geometrici sulla superficie.
Un’onda si abbatté alla base della scogliera, spruzzò colonne di spuma. Intanto, un uccello troppo lontano per venire identificato si stagliava sullo sfondo. In alcuni punti, la scogliera era bucata, apriva finestre e scorci su altri panorami, l’acqua cristallina catturava la luce e si faceva beffe della possibilità di chi la guardava di poter fare solo quello e non toccare. Il cielo era terso ma tratteneva il fiato, perché all’orizzonte si avvicinavano nuvole temporalesche. Era un controsenso, perché in quest’ottica il soffio del vento faceva un po’ meno da nemico e un po’ più da ambasciatore.
L’ostilità verso questo genere di avvertimenti forse era un tratto quasi esclusivamente umano. Era suggerito nell’espressione “calma prima della tempesta”, nell’istinto di crogiolarsi nel bene finché c’è.
Forse era un tratto quasi esclusivamente umano anche vedere il male nella tempesta. Al mondo importa poco se viene distrutto. Se ne starà lì a girare anche prima dell’impatto che lo farà a pezzi. Che l’asteroide si schianti, che il sole muoia, che Andromeda si faccia avanti.
Era decisamente un tratto umano, la capacità di tenere a qualcosa.
Guardò questo accavallarsi di eventi. Non ti sembra mai che se guardi troppo a lungo il mondo poi questo ti punga?
L’autobus strombazzò da qualche parte alle sue spalle. Aveva le ruote e il parabrezza ricoperti di un sottile strato di polvere, dove la strada secca si era integrata al viaggio. Assottigliò gli occhi, per ridurre anche la nostalgia che avrebbe provato una volta smesso di guardare, poi diede le spalle all’oceano e recuperò il cellulare dalla tasca.
In fondo neanch’io sono una canocchia, ma mica mi lamento.
Sirius Black sorrise al messaggio, perché era un commento inappropriato e anche l’unico che avrebbe mai accettato. Non rispose, rimise il cellulare in tasca e salì sull’autobus.
Quando prese posto, i vetri semi-oscurati gli concessero un’altra occhiata al mare. Sembrava il filtro di un film retrò. L’asfalto accoglieva le prime gocce di pioggia, colorandosi di nero, la nuvola si era avvicinata, l’acqua e il vento non si stringevano più le dita. Avevano seguito il percorso che portava a volte gli innamorati a scivolare nella violenza.
Ma anche questo era un tratto esclusivamente umano.
 

“Quattro mesi?”
Sirius annuì, la luce nella stanza era un triangolo scaleno. La lampada al di sopra del tavolo offriva un cono ben angolato, ma James ne interrompeva il flusso con la sua presenza e i lati si inclinavano.
I lati si incrinavano.
Si strinse nelle spalle e poi le scrollò come se l’intero peso di quella ghigliottina non gli volesse frantumare le ossa, come se stesse dicendo al suo migliore amico che stava perdendo le chiavi di casa e non la vista. Fosse stato per lui, a dire il vero, non gliel’avrebbe neanche detto, ma James aveva fiutato la dimensione della notizia e si era messo in mezzo.
Non l’aveva forzato a parlare, gli aveva solo sottratto ogni brandello di privacy e si era fatto i fatti suoi.
“E quando ti hanno detto che erano quattro mesi tu eri…”
“Nell’autobus per la scogliera.”
“In Irlanda.”
Sirius prese un sorso di birra e annuì. Sotto la luce della lampada, la bottiglia brillava in certi punti.
Tutt’attorno a quel riflettore c’erano altri oggetti che brillavano, fatti di cose trasparenti o che se fatte scontrare tra di loro tintinnavano. Rientravano nel gruppo tazze, teiere, pezzi ornamentali di vario genere. Avrebbero potuto anche essere quadranti di orologi, però: non si vedevano al buio.
“Com’era?”
“Cosa, la scogliera?”
James allargò le mani e alzò gli occhi al cielo come a dire ‘e cosa?’
“Era bella.”
Si stava avvicinando il temporale, c’era un filo che ti impediva di buttarti di sotto e forse l’hanno messo perché qualcuno l’ha fatto o ci ha provato, ma io lo capisco. Perché davanti a tutto quell’esistere ti viene voglia di scoprire cosa nascondono gli scorci inaccessibili e forse ogni oceano è popolato dalle anime di chi ci è caduto, che tu ci sia morto dentro o che tu ci abbia sospirato sopra.
Ma Sirius non gli spiegò tutte queste cose e non perché non volesse, ma perché lui l’aveva solo guardato e gli era piaciuto e non avrebbe saputo trovare parole più adatte della semplicità di un’istantanea della memoria.
“Ho fatto delle foto, ma non è come quando lo vedi.”
“No, eh?”
“No.”
James grattò l’etichetta tutta spappolata dalla condensa della birra e si mise a giochicchiare coi pezzi che si staccavano meglio, strappandoli e unendoli alla polpetta umidiccia. Mormorò un verso di assenso e comprensione insieme. “Quattro mesi?”
Tutti gli oggetti che sbrilluccicavano e riflettevano divennero orologi. Da polso, da parete, a pendolo, sveglie. Scoccarono una volta all’unisono. Schioccarono, crepitarono, schiantarono.
Poi silenzio.
Ripeti da capo.
Sirius annuì, la luce nella stanza era un triangolo scaleno. La lampada al di sopra del tavolo offriva un cono ben angolato, ma James ne interrompeva il flusso con la sua presenza e i lati si inclinavano.
I lati si incrinavano.
Le ossa si curvavano.
Gliel’avrebbe detto lo stesso, anche se James non si fosse infilato in quella diagnosi. Non sapeva come, si sarebbe dimenticato che credeva di non avere bisogno di aiuto e gliel’avrebbe chiesto. Sarebbe stato meno dignitoso. Sarebbe arrivato durante un temporale, quando la realtà di quella perdita gli sarebbe scrosciata addosso insieme all’acqua. Sarebbe andato a casa sua, si sarebbe dimenticato l’ombrello e non avrebbe detto una parola. James avrebbe raccolto i pezzi e basta.
L’aveva fatto altre due volte.
La prima l’aveva accolto, la seconda gli aveva detto di andare a farsi fottere. La terza l’aveva anticipato e gli aveva forse risparmiato una corsa sotto la pioggia. La quarta volta Sirius non l’avrebbe visto, James si era assicurato che capisse che l’avrebbe almeno sentito.
“Be’, cosa vuoi vedere?”
“Eh?”
Gli sorrise, una cosa storta come il baffo della nike. “Partiamo.”
I lati della stanza si piegarono.
 

Gli occhi della canocchia

La canocchia pavone è nota anche come gambero mantide, ma non è un gambero e nemmeno una mantide. Però è colorata. Come tutte le cose colorate, meglio starne alla larga.
La canocchia possiede una serie di vantaggi che lasciano pensare che la natura le abbia dato un dono, poi si sia dimenticata di averlo fatto e gliene abbia dato un altro. 
Infatti tira pugni così veloci che per un attimo la temperatura raggiunge quella del sole, in un’onda d’urto micidiale. Il sogno di tutti i frequentatori di bar inglesi che cercano una rissa.
Eppure la cosa più sconcertante di questa canocchia sono i suoi occhi. Possiede da dodici a sedici fotorecettori, che le consentono di vedere colori che l’essere umano, con i suoi umilianti tre, non può immaginare. Neanche lontanamente. Non c’è modo di pensare a un nuovo colore.
Non c’è modo di piangere qualcosa che non si sa di non aver mai visto.
 

 
⸻⸻⸻⸻
 

“Alla prossima a destra.”
James annuì a tempo di musica e, con lo stesso ritmo, le foglie secche che l’auto calpestava si sollevarono dalla strada come segnalando una nuvola di gas.
Quando svoltarono scesero appena di quota e Sirius si girò a guardare dal finestrino posteriore la strada che si perdeva tra le curve delle montagne autunnali. Avevano la forma di monoliti intransigenti, così visti dal basso. Un gradiente che passava dal verde al grigio si miscelava in mezzo in un compromesso marrone. Crepe e spaccature si insediavano in quelle strutture a sottolinearne una potenziale fragilità o a dimostrare una resistenza senza eguali.
Forse invece ospitavano semplicemente dei ruscelli.
Le cime in certi punti non si vedevano, perché il cielo, piccato, le mozzava di netto.
Proseguirono dove i pini mettevano radici storte e sfidavano la gravità. Nell’abitacolo, chitarra e batteria pure si aggrappavano a un tempo che James dirigeva con la sua testa.
“Che c’è dietro?”
Sirius tornò a sedersi dritto e alzò le gambe sul cruscotto, incrociandole all’altezza delle caviglie. “Il mare.”
“Sei proprio un coglione,” James trattenne una risata nel naso, poi afferrò la mappa che teneva in grembo solo per schiacciargliela in faccia. La macchina sbandò per un attimo, poi tornò in carreggiata.
“Dovevamo scaricare le mappe sui telefoni, questa cosa cartacea è un inferno.”
“Non pensavo che non prendesse.”
“Nel mezzo del fottuto nulla. Chi l’avrebbe mai detto?” Sirius non era nervoso. Era James a essere molto facile da insultare e molto inaffidabile nell’arte del multitasking. Sbandavano ogni volta che decideva di cambiare canzone.
Il mezzo del fottuto nulla erano le Highlands scozzesi, che potevano risultare un po’ scomode quando si cercava segnale telefonico, ma una buona idea quando si voleva restare a bocca aperta.
“Ehi, non ho avuto molto tempo per programmare.”
“Hai deciso tu di partire all’improvviso.”
James gli rifilò un’occhiata laterale, poi si strinse nelle spalle. “Hai deciso tu di perdere la vista tra quattro mesi.”
Prima che Sirius potesse insultarlo, James inchiodò. “Ma che stai…”
Aprì la portiera e rotolò all’esterno. Sirius scese dall’auto con le braccia allargate nel segnale universale dell’esasperazione e pochi strati di vestiti. L’aria fredda di un autunno più violento gli pizzicò il viso. “Ma che era?”
“Tu non mi dicevi che c’era dietro.” Se ne stava come un pazzo con la schiena appoggiata al portabagagli e fissava l’onestà di una terra che vinceva su ogni fronte.
I clacson di Londra erano un suono alieno che esisteva nelle fotografie di un futuro che non era ancora avvenuto, i grattacieli erano un progetto di creature che erano nate adesso e stavano imparando a non bruciarsi col fuoco. I guardiani del mondo erano qua, enormi quanto l’oceano ai piedi di una scogliera. Si scrivevano la storia addosso e poi la coprivano quando il vento ne portava di nuova. La pioggia ne limava in seguito i dettagli. Gettati nel mondo insieme a queste cose, non aveva senso parlare di importanza, se c’era complessità in una montagna, in un essere umano, in una foglia, in una goccia d’acqua, in una coda di monsone che spira.
Sirius si appoggiò a braccia incrociate accanto a lui. Per ogni venatura di roccia una paura di dimenticare qualcosa, di perderne l’immagine per sempre. “Lo sai che hai uno specchietto retrovisore?”
“Ti immagini se arriva una macchina che deve passare?” Si misero a ridere, i versanti accolsero il suono e se lo fecero rimbalzare addosso, portandolo via.
“Guido io, tu non sei capace.” Sirius tornò in macchina e armeggiò con i dischi, finché una musica di basso non gli fece vibrare i piedi.
James si calò nell’abitacolo e abbassò i finestrini, appropriandosi della mappa e girandola un paio di volte per leggerla dal verso giusto. Era possibile che non l’avesse trovato e fosse solo molto speranzoso. “Vedi di non diventare cieco mentre guidi.”
“Tu trova un posto vicino in cui possiamo dormire prima che ti strozzi.”
“Altrimenti c’è la tenda.”
Sirius alzò il volume della musica e scosse la testa. “Voglio meno familiarità possibile con i tuoi piedi.”
Per tutta risposta, James si tolse le scarpe e iniziò ad attaccarlo in un intruglio di arti senza senso. La musica soffiava via dai finestrini come se fosse stata un odore.
Quando la lotta cessò, Sirius si voltò a guardare James. Gli occhiali a momenti gli scivolavano via dal naso, il viso inclinato in basso e una confusione ritratta in ogni ruga sulla fronte. Un egittologo con troppi comfort. Se si aguzzava la vista, si notava anche spuntare una punta di lingua. Sirius sospirò e gli diede una manata in testa, indirizzandolo verso il finestrino abbassato. Sulla via per la tregua, però, gli arruffò i capelli, cercando di memorizzarne il disordine.

 
Gli occhi della montagna

Le montagne non hanno occhi.
Infatti nessuna montagna vide un’auto grigia sfrecciare zigzagando nelle sue depressioni, voci e musica effuse su paesaggi d’eco. Non vide gli occhi che la guardavano dal basso, fermandosi lungo un percorso che leggevano male, cerchiando mappe con pennarelli rossi troppo spessi per la finezza di certe linee.
Non vide i loro silenzi, le sopracciglia riflessive, le fronti distese. Non sentì i loro corpi piccolissimi, quando si sedettero nei radi campi dorati e fecero una partita a carte o fumarono una sigaretta. Non si seppe offendere per la tossicità di quel fumo.
Non li vide ridere, ballare, litigare per la musica. Non li vide addormentarsi sul sedile del passeggero, mentre gli scorreva davanti. 
Non li vide schizzarsi quando sfioravano i laghi. Non li vide rabbrividire, mentre andavano a nord.
Era madre gravida e figlio mai nato contemporaneamente, mentre questi esploratori invisibili si fermavano in un campo al tramonto, l’erba che arrivava ai polpacci, e correvano gridando giù per un pendio.
E visto che la montagna non parla almeno quanto non vede, è impossibile sapere se sentisse il dolore e la gioia in quelle grida, se fosse saggia e giovane abbastanza da distinguere l’ossimoro di spensieratezza e di condanna.
E, nel caso sapesse parlare, è certo che non lo comunicò.

 
I bicchieri tintinnarono e poi traboccarono. La birra si rovesciò sul legno già spugnato del bancone, che l’assorbì nel suo strato appiccicaticcio.
Una risata si diffuse echeggiando attraverso altre bocche, facendosi unico protagonista folkloristico. Al di sopra di questa creatura si sovrappose la voce di James, “andiamo di là.”
Sirius annuì e afferrò le birre, accennando col capo alla donna dietro il bancone in segno di ringraziamento. Lei gli sorrise e scosse la testa.
“Fai spazio ai ragazzi.”
Sirius lo capì a stento, l’accento impastava la bocca della ragazza che aveva parlato, trasformando la frase in una lingua sconosciuta di cui doveva riarrangiare e ricalibrare i suoni finché non suonava come la sua.
Il ragazzo che dava loro le spalle si voltò di scatto e si fece da parte. James e Sirius si strinsero sull’unica panca libera abbastanza da consentire ai suoi passeggeri di stringersi.
La ragazza con l’accento marcato li guardò a turno negli occhi, un filo nero di trucco faceva sembrare il suo luccichio di interesse quasi pericoloso.
“Hai l’aria di una che guida una moto,” commentò James. Sirius per poco non soffocò sul suo sorso di birra. Però aveva ragione.
La ragazza scoppiò a ridere, la coda alta sulla testa rimbalzò con lei, mentre i suoi amici si accodavano. La risata si unì a tutte le altre finché non si fece così permeante da svanire. Era come un isolamento al rovescio, come stare all’interno di un’insonorizzazione. L’effetto distorceva i volti degli altri clienti finché non diventavano ombre nere. O forse erano solo le luci.
“Ci hai preso, in effetti,” si intromise un’altra ragazza che era con loro. I lunghi capelli castani ricadevano sulle spalle come una cascata.
“Marlene,” si presentò la confermata motociclista, sbilanciandosi in avanti per tendere loro una mano. “Loro sono Alice e Frank, non fidatevi di quello che dicono. Mentono.”
Frank scosse la testa e si inclinò nella loro direzione, sussurrando qualcosa a James. Poi risero insieme.
“E voi, ragazzi inglesi?”
“James.”
“Sirius.”
Marlene annuì, l’avrebbe vista bene anche come cartomante. Aveva un modo fumoso di muoversi, come se avesse saputo distinguere l’odore di linee di prateria in cui non credeva. “E che ci fanno due viaggiatori a Foyers?”
“Che vuoi dire? È sul lago di Loch Ness, non è tipo una delle vostre cose più famose?” disse Sirius.
“Nessuno si ferma a mezz’ora da Inverness.” Marlene si strinse nelle spalle, poi si sciolse i capelli giusto il tempo di legarli meglio.
“Ci sono anche le casca…”
“Abbiamo bucato,” lo interruppe James. Si passò una mano sul naso e nel farlo sollevò gli occhiali.
“Che? Bastava dirlo!”
“È il modo di Sirius di provarci con te.”
“James, ma che ca…”
“Che c’è?” Prese un sorso finale di birra, lo corredò a un risucchio esagerato, poi piantò il bicchiere vuoto sul tavolo. “Così facciamo più in fretta.”
Frank batté una mano contro il tavolo, con un acuto che doveva essere una risata molto caratteristica o un grido di battaglia. “Marlene, li aiutiamo, ho deciso.”
“Se lo sono meritato,” gli diede man forte Alice.
Marlene si alzò in piedi, vagò con gli occhi per un attimo in direzione dell’uscita. Forse si stava assicurando che ci fosse ancora, perché c’era il rischio che in Scozia una grande porta di legno segnalasse il confine oltre cui si rintanavano i mangiatori di loto, ed era possibile che per loro i portoni svanissero. “Chiamo Dorcas,” annunciò, afferrò la birra di Sirius macchiata di condensa e vi rubò un sorso. “Quando avete finito uscite.”
E con questo lasciò il pub. Per un attimo, quando aprì uno spiraglio di porta e l’oscurità si intrufolò come una regina gelosa ancora delle terre sottratte, la colorata compagnia di voci e risate trattenne il fiato. Ogni luccichio di bottiglia un riflesso su un quadrante di orologio.
Uno, due.
La realtà svanì. Il pub ripartì.
“Io non stavo facendo proprio niente!”
“Lo so, lo so.” James sollevò una mano e stroncò sul nascere ogni protesta di Sirius. “Volevo movimentare un po’ le cose.”
“Allora, che ve ne pare della Scozia finora?” Frank diede una pacca sulle spalle di James, ma invece di lasciarlo andare strinse come se fossero stati amici di vecchia data. Parlava più a lui in ogni caso, se avesse tirato fuori un barbecue e avesse iniziato a cuocere salsicce Sirius sarebbe stato solo lievemente sorpreso. Non era comunque tipo da barbecue, anzi a guardarlo davvero assumeva una connotazione malinconica, come se la leggerezza se la fosse guadagnata. Più che esistere nella sua figura, questo suggerimento stava nell’ombra che gettava su Alice.
Forse valeva per ogni ombra e ogni risata nei bar.
“Alta,” disse James. Alice si mise a ridere. Arricciò il naso e chiuse un occhio più di un altro.
Per qualche ragione, Sirius lo trovò un dettaglio fondamentale. Si assicurò che l’attenzione del loro duo di sconosciuti fosse su James e su qualunque descrizione assurda del loro paese stesse mettendo in piedi, poi tirò fuori dalla tasca del cappotto il foglio di taccuino già reciso e già mezzo scritto e continuò a scrivere.
L’inchiostro sulla pagina, circondato da luci scure, rese il contrasto meno agrodolce.
 

“James.”
Erano stesi sul tetto della macchina. Un tappeto di stelle si srotolava in cielo e ripiegava i suoi lembi solo dove i fianchi e le cime delle montagne lì vicino si palesavano in un addensamento di oscurità.
“Sirius,” rispose lui. Un fruscio segnalò che si era messo giusto un po’ più comodo.
“Devo dirti una cosa, è da un po’ che me la tengo dentro.”
Sentì James girarsi per guardarlo anche se era buio.
Sirius accennò un sorriso, poi lo uccise prima che potesse trasformarsi in risata.
“Allora?”
“Io ti amo.”
James si schiaffeggiò, poi espirò forte sulle mani ancora chiuse sulla sua faccia. “Secondo te quante ossa ti rompi se ti butto giù?”
“Vieni qua, dammi un bacio.” Sirius lo attaccò. Arpionò un braccio attorno al suo collo e gli diede una testata. James si divincolò ma al contrario, il che significa che gli si legò addosso come un tentacolo, per stabilire una posizione di dominio che mezzo strozzato comunque non conquistò. Il tetto dell’auto incassò i colpi più di tutti, simile al suono di una lattina che rotolava giù per una collina.
Metà del cielo perse di colpo le sue stelle. James e Sirius, ancora aggrovigliati, si voltarono a dare un’occhiata alla fonte di luce e all’interruttore contraddittorio che era diventata.
Erano fanali di auto.
Ne uscì per prima una ragazza, si vedevano solo i capelli ricci e folti, che in controluce sfumavano ai bordi a formare una corona. Dietro di lei, dal posto del passeggero, uscì Marlene.
“Sono arrivati i meccanici!”
Sirius si calò dal tetto con un salto. “Portare una gomma non ti rende un meccanico,” disse, spazzolandosi i pantaloni.
“Sfrontato, per uno che è rimasto a piedi e pianificava di dormire sotto al tavolo di un pub.”
La ragazza che doveva chiamarsi Dorcas scaricò una ruota dal portabagagli. “Lo sapete fare?”
Sirius e James si guardarono, poi guardarono lei.
Dorcas ridacchiò e ispezionò la loro auto, in cerca della gomma molle.
“Dove dormite?” Marlene si avvicinò a braccia conserte. La luce dei fari gettava ombre caricaturali sul suo volto. Avrebbe potuto trasformarsi in una fata di una fiaba, dileguarsi in una radura che gettava nell’aria porporina e polline. “Il mostro di Loch Ness è molto affamato.”
“Non avevamo intenzione di fermarci qui…” iniziò Sirius.
James disse: “Abbiamo una tenda.”
 

Casa di Marlene aveva un balcone che dava sulle montagne e la facciata che dava su una stradina sterrata che portava solo a casa sua. Era un luogo colorato di lucciole e lucine, aveva l’aspetto elegantemente trasandato che avevano a volte i posti in cui un tempo erano state date delle feste. Era come se si fossero dimenticati di tirare giù i festoni, come se ancora si riuscissero a sentire i brindisi e le risate.
Per questo, sembrava un posto in cui ogni evento trovava il diritto di essere celebrato e quindi Sirius festeggiò andando a fare pipì, perché tra birre, cambi di gomme e viaggi su strade progettate per un’auto 4x4 di cui loro non disponevano, era dura non lasciar andare almeno qualcosa.
Trovò gli altri seduti sulle sedie di paglia in balcone. La brace di una sigaretta lo guidò come una torcia.
“Lily. Solo Lily,” stava dicendo una voce nuova.
Sirius prese posto accanto a James, su un cuscino umido di sera. Guardò oltre la ringhiera, dove una montagna sarebbe dovuta cadere ai piedi di un’altra, per farle posto, ma era così buio che non avrebbe distinto un muro di pietra da un vuoto di vallata.
“Dovrai pur avere un cognome,” James parlava piano, con un tono da falò. Cosa significasse non era chiaro, ma quando c’era un fuoco in mezzo la gente parlava in maniera diversa. Era quella delle confidenze dei bambini, quando dormivano assieme, quella pronta ad ammutolire se un genitore si trovava a un passo dallo scoprirli svegli.
“Certo che ho un cognome.”
Sirius fu combattuto, perché James ci stava palesemente provando con la nuova voce e, magari, con la persona che la faceva funzionare. Quindi vendicarsi o non vendicarsi della battuta nel pub?
“Non te lo dirà,” disse Marlene. Lei e Dorcas formavano un’unica ombra al di là del tavolino. L’ombra ondeggiò e si rimodellò come una figura di plastilina, mentre una delle due ragazze si sporgeva in avanti per scrollare la cenere della sigaretta.
Non si capì come né perché, Sirius si trovò quella sigaretta passata in mano. Scrollò le spalle. Tirò.
Non era una sigaretta.
Dorcas sospirò. “Non è per fare la misteriosa, ma viaggia da sola. Tu andresti a dire al primo sconosciuto come ti chiami e dove sei diretto?”
“Sono uno sconosciuto simpatico,” si difese James.
“Questo è ancora da vedere.”
Sirius continuò il passaggio di spinello, picchiettando sul braccio di James. Espirò in una nuvola lattiginosa contro la notte. Da qualche parte il mostro di Loch Ness sbuffò salendo in superficie. “Sei inglese anche tu,” disse, voltandosi nella direzione da cui proveniva la voce di Lily, “che ci fai qui?”
“Scrocca un posto per dormire,” rispose Marlene per lei.
“Per viaggiare così bisogna sfruttare ogni risorsa.”
“Oh, ora sarei una risorsa!”
“Perché sei partita?” chiese Sirius, abbracciandosi all’altezza delle spalle. Non gli era chiaro perché si fossero messi all’esterno con quel freddo.
Lily ridacchiò, come se la domanda l’avesse colta impreparata e allo stesso tempo come se gliel’avessero fatta mille altre volte in mille altre salse e con mille altri sottotesti.
“Siamo arrivati subito alle cose importanti,” commentò Marlene.
“Non fa niente,” Lily prese un respiro. Senza poterla vedere, quel respiro sembrò un tempo musicale, un pausa in quattro quarti. “Mi è successa una cosa che mi ha fatto pensare a cosa avrei rimpianto se fossi morta presto. Non il giorno dopo, quello è troppo drastico, ti mette fretta di dire addio, di mettere a posto, di lavarti i capelli. Ma se pensi a cosa faresti se morissi ‘di qui a poco’ le tue priorità cambiano. Volevo vedere il mondo, scoprire se esiste un posto…” si interruppe con grazia. “Sapevo che Marlene mi avrebbe fatto dormire qui, quindi sono partita dalla Scozia.”
Passarono altri secondi di silenzio. Questo non era matematico né musicale. Era invalutabile.
“Figo,” commentò James. Forse non era stato brillante, ma Sirius aveva la sfortuna di conoscerlo così bene, di avere impressa a fuoco la sua testa e il modo in cui funzionava nella sua a tal punto, da capire che era impressionato.
Marlene ruppe l’ombra doppia in cui si era dissolta e afferrò una candela da uno scaffale. Dal nulla apparve una fiamma in cima allo stoppino.
“Voi? Qual è il vostro motivo?”
Lily era… diversa. Alla luce della candela i capelli rossi viravano ai lati su una tonalità più scura. Gli occhi chiari brillavano di riflessi in più punti e aveva il volto cosparso di lentiggini, al punto che si sarebbero potuti tutti mettere a tracciare linee e unirle in costellazioni. Non sapeva se anche James la stesse guardando per la prima volta, ma lo vide alzare gli occhi al cielo, dove anche tra le stelle si potevano tracciare linee e immaginare costellazioni. Non sapeva neanche se gli fosse piaciuta, questa cosa che aveva sentito Lily raccontare la storia che l’aveva condotta lì prima di vederla, un viso come un altro che in una folla forse non avrebbe nemmeno notato.
“Oh, non c’è modo di essere criptici come lo sei stata tu,” James ridacchiò a disagio e si grattò la testa.
A Sirius non importava granché. “Ho quattro mesi prima di perdere la vista. James ha deciso di portarmi in Scozia.”
Qui imparò una prima verità sul viaggio: a stento si aveva tempo per gli addii, figurarsi per la compassione.
Marlene sollevò un sopracciglio come se si fosse messa a cercare segni di bugie, poi annuì con aria solenne. “Figo.”
James e Sirius risero, era una di quelle risate lente che partivano come i motori della formula 1.
“Cioè siete venuti in Scozia? E basta?” chiese Lily.
“In che senso e basta?” James allargò le braccia. “Hai visto che bella Foyers? Abbiamo anche una tenda!”
“Dovete andare a nord. A nord della Scozia.”
James e Sirius si guardarono.
 

Gli occhi della lente

La macchina fotografica con cui Marlene McKinnon tentava disperatamente di guadagnarsi da vivere aveva un solo occhio. Eppure le bastava per catturare ogni genere di profondità.
Marlene aveva scelto il suo obiettivo con attenzione e questo si mise ubbidiente a cristallizzare un momento solo, solido in un fiume di respiri che unici non sarebbero mai stati in grado di raggiungere l’accuratezza di un ricordo. Una situazione bastava, un’ambientazione pure, un pensiero addirittura, se si prestava molta attenzione, ma anche nei ricordi più accurati nessuno tratteneva mai forme d’occhi, fremiti di sopracciglia, ritmi e sospiri.
L’occhio della macchina fotografica vide cinque ragazzi che si conoscevano in tonalità diverse sorridere al lume di una candela sciolta per metà, a suggerire la storia di una notte intera. Il resto era buio, tanto che anche la lente si sarebbe dimenticata di guardare bene e, in fase di sviluppo, avrebbe lasciato gli angoli punteggiati di segni viola scuro, troppo concentrata sui dettagli cruciali dei loro volti.
Vide una viaggiatrice sola contro il mondo, che solo qualche mese prima si sarebbe scoperta stranita dal senso di solitudine che avrebbe provato la sua versione futura. Aveva gli occhi pieni di una certa fame rilassata, tipica di chi aveva passato così tanti anni a digiunare da saper aspettare una preda con pazienza eguale alla violenza con cui l’avrebbe sbranata quando si sarebbe mostrata. Vide due amici senza un piano né un progetto, più decisi di quanto fossero mai stati sino ad allora. Vide due ragazze che si amavano al punto da dover nascondere quell’amore nelle loro ombre, che tradendole si iniziavano a fondere, in notti particolarmente magiche, all’altezza dei mignoli.
Da qualche parte, nei boschi, rami d’albero gelosi di tanta poesia le imitavano, si attorcigliavano, e gli occhi degli uomini quadruplicavano in dimensione quando dal basso li guardavano.
Il vento più violento notturno si infilava nei capelli.
Sorridevano come se ognuno di loro avesse avuto qualcosa di diverso da dimostrare, nella sfida con la vita e i suoi muri, armati di una gioventù che, fatta non di speranza ma di arroganza, li convinceva di poter vincere.
Pur avendo un occhio, l’obiettivo non aveva orecchie, ma se le avesse avute avrebbe sentito, un attimo dopo lo scatto, Marlene dire a Sirius: “È inutile che te la mando, tanto non la vedrai” e il coro di risate che si perse sulla superficie disabitata del lago di Loch Ness.
 

“Grazie per averci portato a vedere queste quattro pietre che chiami castello, McKinnon,” Sirius strinse la mano a Marlene mentre il sole si nascondeva dietro le nuvole.
Lei inclinò il viso su un lato e assottigliò gli occhi. “Io ti faccio conoscere le rovine meno turistiche della Scozia, ti do un tetto sopra la testa e una generale giornata da sballo e tu mi ringrazi così, Black?”
“Scusami, non ti capisco se parli così strano.”
“Scusami, ma mi diverto a confondere quelli che parlano con una scopa in culo.”
Si guardarono, uno scontro tra sorrisi furbi che la facevano sempre franca e che fino ad allora non avevano mai incontrato degni avversari. Marlene cedette per prima e lo strinse in un abbraccio.
“Tornate, quando potete. Almeno io voglio rivedervi.”
“Devi smetterla con queste battute,” Sirius provò a staccarsela di dosso, ma fallì e accettò il suo destino. Accomodò meglio il mento nell’incavo della sua spalla e chiuse gli occhi.
“Ti danno fastidio?”
“Un sacco.”
Marlene lo lasciò andare per guardarlo. “Perfetto, allora continuo.”
“Ora dove andrai?” James guardava Lily come se fosse già scomparsa.
Lei rise, un suono brillante che echeggiò in tutto quello spazio. “Te l’abbiamo detto. Mai dire al primo sconosciuto come ti chiami e dove vai.”
“Ma come faccio a smettere di essere uno sconosciuto?” Poco più dietro, Sirius origliava quella conversazione patetica. James suonava un po’ come un cucciolo bastonato. Era un miracolo che a Lily non facesse pena.
“Se è destino ci rincontreremo,” disse lei, muovendo i primi passi per riunirsi a Dorcas e Marlene.
Piano piano, Sirius anche indietreggiò verso la macchina. James guardò lo spazio fra lui e Lily come se si fosse aperta una voragine. “Dove?”
“Dove non arriva mai l’inverno.”
Lily entrò nell’ombra delle sue amiche e si fece sempre più un puntino all’orizzonte.
“Destino un cazzo,” mormorò Sirius entrando in macchina. James rise forte. “Se il destino esiste è più cattivo dell’uomo più cattivo mai esistito sulla Terra.”






 
NotEl: ohhh eeee buongiorno, allora.
Innanzitutto dovete prendere questa diagnosi così, magia, inspiegata condanna, è la regola.
Allora, questa storia è un po' strana. Innanzitutto nasce come one shot ma come al solito è diventata un mostro quindi la divisione dei capitoli è un po' così, come viene. Poi, i personaggi hanno intorno ai 25 anni e la caratterizzazione è stata una curiosa deviazione in più punti dalle regole fanon che amo apprezzo e rispetto nel 99% dei casi, tranne questo. Da questa introduzione non si vede bene ma assicuro un miscuglio inaspettato di dramma e commedia con l'avanzare del tempo. So che è un primo capitolo debole, ma non c'erano molte scelte sulla divisione del testo. Nonostante ciò è la storia che mi ha ridato la voglia di scrivere dopo oltre un anno e mezzo di tentativi di acchiapparla forzatamente, quindi questo è un grande momento per me olèèèè. Comunque, la posizione geografica specifica dei personaggi sarà un po' volante e incerta in certi punti, ma assicuro di aver avuto un reale percorso per tutta la stesura DUNQUE a fine storia prometto di condividerlo per chi volesse seguirlo :))
Niente spero che la premessa sia stata un pochiiiino convincente. Grazie per aver letto <3

El.

 
   
 
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