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Autore: Rumyantsev    29/08/2023    2 recensioni
Allo scadere del secolo XVII Aziraphale riceve dal Paradiso un incarico che lo porta lontano da Londra, in una terra tormentata da forze soprannaturali e oscure. Qui incontrerà ancora una volta Crowley e dovrà fare i conti con i propri sentimenti e dissidi interiori.
[Elementi horror / fantastico / gotico; tematiche delicate ma trattate in maniera molto soft]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Perché disobbedire
 
 
Era il 1699, settembre inoltrato. Ricevetti dal Paradiso l’ordine di recarmi a investigare, nella regione dei Balcani, una serie di accadimenti sospetti la cui natura, al tempo, non mi venne esplicitata. Tutto ciò che mi era richiesto era di osservare e riportare ai miei superiori qualsiasi cosa avessi visto.

Incarichi di quel genere non erano nuovi per me, sebbene attorno a questo specifico era stato lasciato un alone di mistero che negli altri casi non c’era stato. Ma il Paradiso non era tenuto a spiegare a me l’ineffabile piano della Divina, e dunque non me ne preoccupai.

Giunsi nell’area che mi era stata indicata di pomeriggio. Mi trovavo in un villaggio povero, composto da non più di una decina di casupole in legno con tetti in paglia. Sulla terra umida strisciava una bruma fitta che rendeva difficile vedere dove si mettevano i piedi, mentre il cielo era uniformemente coperto e su ogni cosa era proiettata una luce gelida. Non c’erano persone fuori, né animali, e le finestre di tutte le case erano sbarrate. Stetti qualche minuto in attesa, aspettando di udire qualche voce o passo dietro a una porta chiusa, ma quando non accadde mi rassegnai a credere che il luogo fosse disabitato.

Guardandomi attorno notai che, in lontananza, superate le case, c’era la torre merlata di un castello. Considerai che non poteva distare più di una mezz’ora di cammino, e dunque mi avviai.

La natura attorno a me era spoglia, desolante. Alla mia sinistra non c’era che un campo di sterpaglie ingiallite, alla mia destra una palude. Gli alberi erano già stati spogliati dall’autunno e, con i loro rami secchi, sembravano mani scheletriche tese a graffiare il cielo. L’unica fauna che vidi per lungo tempo furono due pettegole dai lunghi becchi, ferme accanto a uno specchio d’acqua melmosa, intente a guardarsi attorno come a chiedersi in che modo fossero finite lì.

Poi ad un certo punto, tanto repentinamente che quasi mi spaventò, un cane strisciò fuori da un roveto. Era nero, ma di una sfumatura opaca e insalubre che riuscivo a distinguere anche se distava da me diversi metri. Zoppicava, così magro che sulla sua schiena arcuata si potevano contare le vertebre. Con la coda tra le gambe si trascinò fin sotto a un albero e lì si accasciò tra l’erba secca. Mentre guardavo la scena carico di pietà, chiedendomi se non dovessi fare un miracolo per aiutarlo, la povera creatura guaì e tremò, e sotto ai miei occhi cominciò a mutare. La sua pelle si aprì e ne emerse una testa incappucciata, un busto ammantato di nero, una creatura oscura che in mano stringeva una falce.

Non si può aver vissuto tanto a lungo sulla Terra quanto ci ho vissuto io e non avere mai visto Morte, perciò la riconobbi subito. Non era né mia alleata né mia nemica, solo un presagio che salutai con un cenno della testa. Senza dubbio mi aveva riconosciuto, ma non rispose. Non che mi aspettassi nulla di diverso da lei.

La superai riprendendo il mio cammino. La strada che stavo percorrendo si inerpicava su per un greppo, chiusa in alto dai rami degli alberi che la costeggiavano, a formare una galleria oscura. Il vento aveva cominciato a soffiare e la luce a ritirarsi. Quando giunsi al castello era ormai il tramonto.

Il castello era a pianta quadrata, con due torri alte non più di una decina di metri. La facciata di pietra era ricoperta di edera. Notai subito che nessuna delle finestre che vedevo sembrava essere illuminata e ciò mi parve sospetto poiché, poco distante da dove io mi trovavo, vi era un cavallo legato a una campanella. Mi avvicinai dunque al portone per bussare al battente. La mia attenzione venne attirata dall’iscrizione incisa nell’archivolto: Ecce sto ad ostium, et pulso: si quis audierit vocem meam, et aperuerit mihi ianuam, intrabo ad illum, et cœnabo cum illo, et ipse mecum. Ecco, sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Un versetto dell’Apocalisse che non mi sorprese trovare in quel luogo. Sapevo bene, infatti, che in queste terre la fede in Lei è molto sentita.

Malgrado quelle parole mi fossero famigliari, non mi sentì rincuorato. Quell’atmosfera di abbandono e di morte, così diversa dai luoghi gremiti di gente, di luci e di suoni che ho imparato ad amare sulla Terra, mi riempiva di angoscia. Bussai.

Subito udii uno scalpiccio, e la porta si aprì su un viso lungo e smunto, con due orecchie a sventola e una grande bocca incurvata in una smorfia diffidente. Si trattava di un ragazzo, sembrava non più che ventenne, decisamente più alto di me e dalla corporatura snella, tipica di chi è ancora in fase di crescita. Una fioca luce proveniva da una candelina che stringeva nella mano. Mi studiò da capo a piedi e poi mi chiese chi fossi nel dialetto tipico di quel luogo. Io lessi nel suo cuore e, capito ciò di cui aveva bisogno, dichiarai di essere medico. Vidi che il suo cipiglio si distendeva in un’espressione di speranza, ed egli si fece da parte per farmi entrare.

Nella stanza l’unica fonte di luce, oltre alla candela, erano le braci di un camino ormai quasi consumate. Tra le ombre intravidi poche sagome di mobili e oggetti indistinguibili.

«Come avete saputo che avevamo bisogno di voi?», mi chiese intanto il ragazzo.

Io, che non sapevo in che modo e perché ci fosse bisogno di un medico, mi mantenni vago nelle mie risposte. Non mi dovetti sforzare troppo a inventare scuse poiché la nostra conversazione fu presto interrotta dall’arrivo di una donna. Anche lei teneva in mano una piccola candela che bastava soltanto a illuminare ad un passo da dove si trovava. Era vecchia, mi parve, ma all’epoca in quei luoghi si sembrava molto vecchi già a trent’anni. La sua faccia era tesa, austera, solcata da rughe profonde ai lati della bocca e dei piccoli occhi neri. I suoi capelli erano coperti da un velo legato sotto al mento, come era usanza.

«Chi è, Bernardin?», domandò.

«Un medico, è venuto per Lubia!», com’era successo al ragazzo, anche la signora cambiò espressione udendo quelle parole.

«Oh, grazie a Dio! Venite, presto». Io la seguì muovendomi nel buio attraverso un lungo corridoio. Si aveva l’impressione, attraversandolo alla sola luce delle candele, che le mura e il soffitto si stringessero progressivamente in quello spazio già di per sé angusto. Nonostante io mi ritenga razionale e assennato, fui colto ugualmente dal desiderio di accelerare il passo per non venire stritolato. Ci fermammo davanti ad una porta chiusa, che la signora aprì dopo avermi rivolto uno sguardo d’avvertimento.

Si trattava di una stanza da letto. Anche questo ambiente, come il resto del castello, era scarsamente illuminato. C’era un candelabro a tre bracci su una scrivania che allungava lunghe ombre tremanti sotto ogni oggetto. Le tende dell’unica finestra erano chiuse, a bloccare ogni raggio di luce della luna che sarebbe potuto entrare. Nell’aria aleggiava un odore di umidità e di chiuso che avevo sentito subito, entrando nel castello, misto ad un olezzo di sudore acido ed esalazioni di una bocca malata. Nel lettino al centro della stanza, sul quale torreggiava un crocefisso appeso al muro, giaceva qualcosa che a primo impatto faticai a riconoscere come umano.

Un viso sul cuscino spuntava dalle lenzuola, bianco quanto loro. Presi dalle mani della signora la candela e mi avvicinai. Restai esterrefatto: la pelle sembrava appoggiata direttamente sulle ossa, sottilissima e tirata. Fu una mera suggestione, ne sono quasi certo, ma ripensando adesso a quell’immagine ricordo che mi parve di vedere per qualche secondo, attraverso le sue palpebre chiuse, il nero della sua pupilla che mi guardava da un altro mondo. Superai la ripugnanza che provavo e toccai la fronte: era gelida. Se non avessi visto il movimento del petto sotto alle lenzuola, avrei creduto si trattasse di un morto.

«Santo Cielo», non riuscì a impedirmi di sussurrare, «Ma che cosa è capitato».

«Ѐ uscita ieri sera», mi spiegò la signora, che nel frattempo si era venuta a mettere accanto a me, «Senza permesso, non sappiamo che cosa le sia preso. È scomparsa tutta la notte e stamattina Bernardin l’ha trovata sul sentiero in questa condizione… Ѐ il morbo, non è vero, dottore?». Le ultime parole le pronunciò con un dolore evidente che le induriva i lineamenti e rendeva più profonde le rughe.

«Il morbo?», domandai.

«Come? Non sapete?», si stupì lei, «La malattia che piaga la regione da un mese ormai. È cominciata in paese: durante la notte le persone si ammalavano e dopo pochi giorni morivano… Il medico è stato tra i primi. Prima che veniste qui voi non avevo alcuna speranza che si potesse salvare Lubia, ma se voi non sapete cosa fare…».

«Morirà comunque», intervenne una voce da un angolo della stanza. Alzai la candela verso quella direzione e vidi che, su una panca accostata al muro, era seduta una ragazza. Era impossibile distinguere i tratti del suo viso da dove mi trovavo io.

«Zana», l’ammonì la signora.

«Ѐ la verità. Non vedrà l’alba di domani mattina», la voce della ragazza era priva di inflessione. In quel momento interpretai la cosa, sbagliando, imputandola al turbamento che quella circostanza aveva senza dubbio generato in lei.

«Potete fare qualcosa per lei, dottore?», mi domandò la signora, posandomi una mano sul braccio e stringendo vigorosamente, aggrappandosi a me come unica speranza.

Io accarezzai con la mano libera il volto della ragazza nel letto, sfiorando con i polpastrelli i suoi capelli neri umidi di sudore. Potevo salvarla. Mi sarebbe bastato uno schiocco di dita per restituirle il colore alle guance e tutta la salute che aveva così misteriosamente perduto nell’arco di una sola notte. Per mia natura avrei dovuto aiutare lei e quelle povere persone che si affannavano al suo capezzale, ma non era stato quello l’ordine impartitomi dal Paradiso. Mentre esitavo, perso in quei pensieri, la porta della stanza si aprì.

Mi voltai e subito, vedendo il nuovo arrivato, il mio stato d’animo cambiò. È una cosa di cui ora mi vergogno, ma che ho deciso di raccontare col proposito di essere più trasparente possibile su ciò che vissi in quella circostanza. La persona sopraggiunta altri non era che il mio nemico Crowley, un demone che conosco da prima che diventasse tale. Ecco, Crowley era un demone anche allora eppure io, di fonte alla sua figura vestita di nero nella cornice della porta, mi sentì sollevato da un peso che gravava su di me sin dal momento del mio arrivo in quel luogo. Io sono una creatura potente: non c’è niente in un castello, per quanto oscuro e assaltato da una strana malattia mortale, che possa farmi paura. Crowley non è più potente di me e non può proteggermi meglio di quanto io possa proteggere me stesso, ma ugualmente io ero lì, fermo a guardarlo come se fosse disceso dal Cielo, venuto per salvare me.

«Il vostro assistente, dottore», annunciò Bernardin, e uscì in fretta dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.

Crowley si portò con la sua andatura dinoccolata sulla sponda del letto opposta a quella dove mi trovavo io. Indossava gli occhiali con le lenti scure che non si toglieva mai da quando erano stati inventati qualche secolo prima. Egli aveva occhi abituati a vedere nell’oscurità, a differenza dei miei, ma agli esseri umani nella stanza doveva sembrare ben strano. Si muoveva con estrema confidenza, come se fosse stato in quel posto centinaia di volte, con un’espressione che non tradiva alcuna sorpresa per le condizioni di colei che giaceva nel letto. Questo, lo ammetto, sortì l’effetto di infondermi ulteriore sicurezza.

Non avrei forse dovuto dare per scontato che se un demone, mio nemico, mostrava di sapere più di me in una situazione, questo mi poneva in una posizione di svantaggio?

«Hai già esaminato la paziente, dottore?», mi chiese Crowley, con un tono che mi parve bonariamente canzonatorio, come se fossimo vecchi amici che si prendono amabilmente in giro. In quel momento non mi venne in mente che non lo eravamo.

«Superficialmente», confessai. Crowley allora si piegò sulla ragazza e portò una mano al suo colletto. Mi guardò da sotto in su prima di abbassarlo con due dita. Avvicinando la candela vidi subito ciò che lui aveva voluto farmi vedere: nella pelle bianca del collo spiccavano due puntini rossi paralleli.

Ero sorpreso ma trattenni qualsiasi espressione di stupore per evitare che la signora o l’altra ragazza si insospettissero. Crowley tirò su il colletto come se nulla fosse accaduto.

Avevo riconosciuto quei segni. Erano le ferite lasciate da una classe di demoni che qualche volta, nel corso della storia, aveva attaccato degli esseri umani succhiandone il sangue. Non mi era capitato di vederli spesso, ma ero certo che quegli attacchi non si fossero accompagnati mai a nessun sintomo particolare che poteva rassomigliare una malattia. Solitamente le persone colpite morivano dissanguate, senza altre conseguenze.

«Crowley», dissi, «Devo scambiare due parole con te in privato». Mi rivolsi alla signora: «C’è una stanza che posso usare per conferire con il mio assistente?».

«Certamente», rispose lei. Mi guidò fuori in corridoio e verso un’altra porta. «Lo studio del padrone», disse, entrando per accedere una torcia a muro. La luce illuminò l’ambiente in un contrasto quasi accecante con il resto del castello. Eravamo in una piccola biblioteca, non più di cinque o sei scaffali disposti su tre file perpendicolari all’ingresso. Sotto alla finestra, a crociera con le tende tirate, stava una scrivania ampia di legno scuro, con fogli sparsi e un calamaio. Crowley si sedette sulla poltrona che stava dietro alla scrivania, scompostamente come suo solito.

Io ringraziai la signora, la quale mi fece un cenno ma restò esitante sull’uscio. «Credete che sopravvivrà?», mi chiese.

Io sentì il cuore stringersi di pietà nel mio petto, ma, sebbene provassi un forte desiderio di rassicurarla, dovetti rassegnarmi a dirle la verità: «Al momento non saprei, signora».

Lei accolse la notizia con un singhiozzo dignitosamente trattenuto e ci lasciò chiudendosi la porta alle spalle.

«Morirà», disse Crowley. Aveva preso un fermacarte dalla scrivania e lo studiava distrattamente tenendolo il mano.

«Cosa ci fai qui, Crowley?», chiesi io.

«La stessa cosa che ci fai tu. Mi ci hanno mandato», rispose lui.

«Tutto questo è opera vostra, non è vero? Devi dirmi tutto ciò che sai», ordinai. Ero presuntuoso, lo sono sempre stato. La convinzione di essere sempre nel giusto è connaturata al mio essere, per quanto ami pensarmi modesto.

«Potrei dirti tutto ciò che so», Crowley si strinse nelle spalle, «Ma dipende».

«Da cosa?»

«Hai intenzione di intervenire?».

«Certo che-!», interruppi quella mia risposta oltraggiata perché, mi ricordai, il mio compito non era di intervenire. Per lo stesso motivo non avevo compiuto il miracolo per salvare la ragazza malata. Crowley aveva spostato lo sguardo su di me e con un sopracciglio alzato mi studiava. «Deciderò quando mi avrai spiegato», ripresi, più moderato.

«Non mi basta, angelo, devi darmi qualche garanzia». Io pensai che non sapevo se Crowley voleva che intervenissi oppure no. Non mi era semplice capire le sue motivazioni allora.

«Crowley», mi spazientì, «Perché un demone ha attaccato quella ragazza? Perché è ancora viva?».

Crowley mi guardò ancora per qualche secondo. Sotto il suo sguardo concentrato mi sentivo, mi sento tutt’ora, agitato. Ho sempre pensato istintivamente che lui veda in me cose di me stesso che io non conosco.
«Sarà viva per poco, ma la sua non sarà una vera morte. Sta mutando», disse infine.

Io non nascosi la mia sorpresa: «Mutando?», esclamai.

«Ѐ così», Crowley scosse la testa come a voler significare che trovava quelle parole assurde tanto quanto me, «Non è stato un demone ad attaccarla, ma un altro essere umano mutato».

Non riuscì a trattenere una risatina, incredulo com’ero. Credetti che Crowley mi stesse prendendo in giro. «Basta con queste insensatezze, caro», lo ammonì.

Crowley trasse un profondo sospiro rassegnato. «Non sto mentendo, è la verità, Aziraphale. Presto tutta la regione sarà piagata da queste creature mutate che ne infetteranno altre, e altre ancora… Finché al mondo non ci saranno più esseri umani. Almeno, l’idea è questa».

«L’idea di chi?!», non riuscivo più a trattenere lo sdegno. Mi fidavo di lui: mi era bastato qualche secondo ed avevo creduto che ciò che mi stava dicendo fosse la verità. Non avevo mai avuto una vera ragione per dubitare di lui fino ad allora, né l’avrei avuta in seguito.

Lui non mi rispose subito, riprese invece a studiarmi. Pensai che cercasse qualcosa in me che lo spingesse a continuare. Forse lui non riponeva in me la stessa fiducia che io invece gli concedevo lautamente.
«Già, di chi credi che sia questa idea?», rispose. Mi spazientì.

«Non perdiamoci in indovinelli, caro», sbottai.

Crowley si alzò, superò la scrivania e si portò accanto a dove io ero rimasto in piedi dall’inizio di quella conversazione. La ragione mi imponeva di allontanarmi, mettere qualche metro di distanza tra me e questo demone per segnare le nostre differenze inconciliabili; l’istinto invece mi fece restare dov’ero. Raddrizzai la schiena per darmi un tono e, sistemandomi il corto giacchetto che avevo indossato per mimetizzarmi con i locali, fronteggiai il suo sguardo, illeggibile dietro alle lenti nere.

«Sono qui da settimane», cominciò Crowley, «Ho visto come questa epidemia si diffonde tra gli abitanti dei villaggi. Ho visto quelle creature uscire dalle tombe nella notte e attaccare gli uomini». Si era avvicinato a me, mi parlava ormai faccia a faccia. Il tono della sua voce non tradiva alcuna emozione ma nella sua posa irrigidita leggevo la sua contrarietà. Quello che mi stava dicendo non gli dava alcun piacere, capì, e la cosa mi colpì. Lo immaginai solo di fronte a Morte, come lo ero stato io sul sentiero per il castello, con le stesse emozioni di incertezza e timore che avevano assalito me. Forse anche lui era stato sollevato nel vedermi. Lo volli credere, scioccamente. Quasi feci per allungare una mano e toccarlo per confortarlo, ma mi bloccai in tempo.

«Ma perché?», chiesi. Senza volerlo avevo parlato piano, quasi sussurrando.

«L’idea è partita da noi», disse noi con disprezzo, mi sembrò, «Ci sono una serie di condizioni. Le creature possono uscire solo la notte. Possono succhiare il sangue degli umani ma solo dopo aver ottenuto il loro consenso. Entrano nelle case, ma solo se invitati». Si allontanò da me per camminare su e giù per la stanza. Mi accorsi che per tutto il tempo in cui lui mi era stato vicino, io avevo trattenuto il respiro.

«Tutto questo non ha senso. È un’idea stupida, inutilmente macchinosa», dichiarai. Crowley mi rivolse un piccolo accenno di sorriso e la stanza mi sembrò più luminosa.

«Lo è, angelo», approvò, «Stupida come il suo ideatore. Che non sono io, se mai l’avessi pensato», precisò.

«Non l’avrei mai pensato, caro», gli sorrisi anch’io, «Chi è invece?».

«Pazuzu». Io alzai gli occhi al cielo. Non voglio divagare, né parlar male del prossimo ché, per quanto sia un demone, farei comunque peccato. Dirò solo, per chiarezza, che questo demone non è mai stato famoso per la sua arguzia.

«Mi pare una sciocchezza anche per lui», commentai.

«Ѐ sembrato così anche a me. Ed è per questo che ho pensato…», Crowley si interruppe, improvvisamente incerto, guardandomi di nuovo come se mi stesse valutando. Io non sopportavo che si trattenesse, non solo perché desideravo sapere di più. Il fatto che lui potesse non fidarsi di me, ritrarsi da me… lo trovavo insopportabile. «Si tratta di una prova, angelo. Come lo furono il Diluvio o il Golgota. Come la sofferenza di Giobbe».

Per qualche secondo le implicazioni di quelle parole mi rimasero oscure, poi, come fulminata, la mia mente le comprese. «Tu… Tu credi che il Paradiso abbia approvato questo?!». Ero offeso, oltraggiato. Non concepivo che un simile pensiero avesse anche solo potuto sfiorarlo. Allora non vedevo chiaro quanto lui e ogni scintilla di comprensione io la soffocavo, troppo spaventato per approfondirla come avrei dovuto.

«Che senso avrebbe altrimenti? Lo sai bene anche tu, Aziraphale», mi accusò. Almeno, mi sembrò che mi stesse accusando. «Vogliono mettere sotto esame la fede delle persone e se gli umani falliscono poco importa, perché vorrà dire che sarà l’Apocalisse. Sai quanto amano l’Apocalisse, sia Sopra che Sotto».

Prima che io potessi rispondere, qualcuno bussò alla porta. Entrò Bernardin senza essere invitato.

«Dottore», mi disse guardandomi in faccia quasi con sfida, «Lubia sta morendo. Dovete venire ad aiutarla, o se non potete salvarla ditemelo subito».

Io guardai Crowley in cerca del suo aiuto, ma lui taceva guardando al ragazzo con un’espressione indecifrabile.

«La ragazza, Lubia, è in uno stadio della malattia troppo avanzato», mi decisi a dire, pur sentendo dentro di me lo stomaco rivoltarsi per la bugia che stavo raccontando. Vidi che Bernardin si faceva piccolo pur nella sua considerevole statura, incassando la testa tra le spalle e incurvando la schiena sotto al peso di quella sentenza di morte.

Io avevo condannato quella ragazza, non c’erano altri responsabili. Né lo sciocco Pazuzu, né Crowley. Nessun altro se non io e il mio rifiuto di compiere un miracolo per non contravvenire agli ordini che mi erano stati impartiti. Guardai di nuovo Crowley. Speravo, credo, di trovare in lui un’assoluzione, o almeno un assenso, qualcosa che mi dicesse che stavo agendo con giustezza. Non trovai niente.

Uscii dalla stanza lasciandolo indietro assieme al ragazzo. A tentoni raggiunsi la sala da cui ero entrato e uscì nella notte. Alla luce della luna lo scenario di quel castello immerso tra gli alberi spogli aveva in sé qualcosa di soprannaturale. Riconoscevo l’impronta demoniaca nelle ombre sull’erba e tra le foglie morte, nell’odore cimiteriale della terra umida. Mi diressi in un luogo appartato tra i cespugli ed estrassi, dalla cintura che avevo legata in vita, il sacchetto con la polvere che avevo portato da Londra. Spostai le foglie e disegnai il cerchio e i simboli sulla nuda terra, poi ci camminai dentro.

Avevo raggiunto lo spazio limite tra la Terra e il Cielo, lo spazio che uso per comunicare con i miei superiori. Ad accogliermi fu proprio uno di loro. Riportai quanto avevo appreso, omettendo la fonte delle informazioni e, timidamente, osai chiedere se non fossero già a conoscenza della cosa in Paradiso. Mi venne risposto candidamente di sì. In sostanza tutti i sospetti di Crowley, mi venne detto, erano fondati. La creatura demoniaca che aveva infettato il primo uomo era stata mandata sulla terra con il benestare del Paradiso. Un esperimento per vedere se gli uomini credevano in Dio abbastanza da non abbandonarsi al morso delle creature.

«Ma… perché dovrebbero desiderare di essere morsi?», domandai, confuso ed esterrefatto.

«Tanti motivi», mi rispose l’angelo, con noncuranza, «Anche solo perché, pare, il morso è piacevole». Si strinse nelle spalle.

Io ritornai sulla Terra sconfitto. Nella mia testa si agitavano pensieri di tutti i tipi, una confusione nella quale era impossibile districarsi. Tornai al castello, entrando senza permesso, e mi sedetti su una poltrona trovata a tentoni nel buio. Lì rimasi fino al mattino, quando la signora mi venne a comunicare che la ragazza era morta.

Non rividi Crowley finché non fummo arrivati al cimitero. Eravamo io, la signora, Bernardin e l’altra ragazza, Zana. Nel corso di quella giornata, mentre aiutavo a predisporre il funerale, appresi diverse cose. Zana, una ragazza paffuta dai lineamenti morbidi e delicati, era la figlia del padrone del castello. Egli era partito per lavoro, mesi prima che l’epidemia avesse inizio. Si trattava di un ricco commerciante di stoffe. Aveva lasciato la figlia alle cure della signora, che era stata la balia di Zana quando questa era una bambina. Lubia, la ragazza deceduta, aveva la stessa età di Zana ed era sua amica. Viveva al villaggio ma si era rifugiata al castello per evitare il contagio, portando con sé Bernardin. Il tragico epilogo della sua vicenda è già noto.

Bernardin non aveva mai smesso di piangere, la signora era addolorata e gemeva e sospirava ma Zana… sembrava che Zana non si fosse ancora resa conto della disgrazia che era capitata alla sua amica. Non aveva mostrato alcuna emozione e la cosa aveva cominciato a preoccuparmi ma pensai, ancora una volta, che avesse solo bisogno di tempo per riprendersi.

Prima di calare la tomba nel terreno volli dire una preghiera per Lubia, dopodiché aiutai l’inconsolabile Bernardin a ricoprirla di terra. Fu allora che notai Crowley. Lontano tra le lapidi, non era che un nero figurino sotto all’immenso cielo bianco di nuvole, confuso nella foschia che si alzava dal terreno come se fosse esalata direttamente dalle sepolture. Era intento a guardare verso di noi. Gli feci un cenno con la mano per invitarlo ad avvicinarsi, ma lui non rispose e, anzi, si voltò e andò via.

La cosa, confesso, mi ferì enormemente. Mi chiesi se l’avessi deluso, se fosse in collera con me perché non mi ero opposto a quello scempio di una giovane vita. Ripetevo a me stesso che Crowley è malvagio, che avevo fatto il suo gioco lasciandola morire, ma non ci credevo. La natura di Crowley è ben più complessa di ciò che allora mi sforzavo di credere, volendo proteggere me stesso dalla consapevolezza che un demone sarebbe stato più compassionevole di me. Del Paradiso stesso.

Quella notte Zana si ammalò. La signora la trovò al mattino nel suo letto, pallida e debole, e subito mi chiamò. Io, che ero rimasto tutta la notte nello studio a scandagliare i miei mille pensieri contrastanti, accorsi.

Zana, fino a poche ora prima così sana e florida, giaceva languidamente sul materasso ormai quasi prosciugata. La sua pelle aveva perso colore, la carne si era ritirata sulle ossa. Ma lei, a differenza di Lubia, aveva gli occhi aperti e mi guardava. La signora era inginocchiata accanto al letto e piangeva a dirotto, bagnando di lacrime il nodo del velo nero stretto sotto al suo collo.

«Signora», le dissi, «Mi lasci visitare la paziente». Mi sforzai di sembrare calmo ma dentro di me c’era una agitazione grandissima, quasi incontenibile.

La signora, seppur riluttante, ci lasciò. Io allora mi rivolsi a Zana con un tono durissimo: «Come hai potuto accettare il morso?», le chiesi. Provavo verso di lei la stessa emozione che mi aveva suscitato Crowley quando aveva insinuato che il Paradiso si fosse messo d’accordo con l’Inferno per cospirare contro l’umanità. Allora non sapevo perché, né mi preoccupai a pensarci, ma ora so che mi sentivo tradito da lei.

Perché quella ragazza aveva voltato le spalle a Dio facendosi infettare dal peccato? Cosa poteva valere di più della fedeltà a Lei?

La ragazza fu sorpresa della domanda. «Come sa…?», rantolava, le sue labbra esangui si muovevano appena. Nonostante tutto, provai un grande dolore nel vederla in quella condizione.

«Non sprecare parole, cara, io so tutto. Dimmi solo perché». Feci un piccolo imbroglio. Le accarezzai una tempia con la mia mano e in quel contatto le infusi un poco della mia forza. Visibilmente lei riacquistò colore sulle gote, pur restando malata. Batté più volte le palpebre, sorpresa di sentirsi meglio. «Avanti», la incoraggiai, «Qualsiasi cosa dirai non la ripeterò ad anima viva».

Lei si fidò di me. «Quando mio padre tornerà», raccontò con voce sottile, «Porterà con sé un uomo che avrà scelto perché io lo sposi. Ma io non voglio sposare nessun uomo».

«E questa è una ragione per morire?», mi meravigliai.

«Ma io non morirò, dottore», mi rivolse un sorriso dolcissimo che però, capì, non era per me. Si era persa a guardare oltre la mia spalla, rapita da una fantasia che solo lei vedeva. «Io starò con Lubia in una vita nuova che durerà per sempre».

Allora capì perché Zana non aveva pianto la morte di Lubia, e perché Lubia aveva accettato il morso. Mi portai una mano alla bocca, sconvolto. Non sapevo cosa rispondere e dunque non dissi nulla. Con un’altra carezza feci addormentare Zana e uscì dalla stanza.

Tornai nello studio e vi trovai Crowley, in piedi davanti al fuoco che bruciava nel camino. Provai l’ardente desiderio di confidarmi con lui e, malgrado la promessa che avevo fatto, non riuscì a trattenermi. Lui mi ascoltò impassibile.

«Quello che non comprendo», conclusi, «Ѐ come si possa abbandonare in questo modo la retta via? Diventare una creatura perversa, condannarsi a vivere una eterna notte e… per cosa?».

«Per cosa?», mi fece il verso Crowley, «Perché la ama, e sulla retta via non c’è modo in cui possa camminare assieme a lei».

Quelle parole pronunciate da lui con tanta naturalezza mi fecero tremare. «Ma Lubia ormai è un mostro…», protestai.

Crowley distolse lo sguardo. Notai che il profilo della sua bocca si induriva in una smorfia tristemente ironica. «Ѐ un demone, qualcosa che non merita amore, vero?», commentò amaramente.

«Crowley, io-», il cuore mi si era stretto nel petto. Non trovai le parole per terminare quella frase. Lui mi lasciò tutto il tempo di rispondere ma io non fui in grado. Guardavo il suo profilo, i suoi lunghi, morbidi capelli rossi su cui il fuoco del camino gettava una luce palpitante, il suo corpo snello che mi era così familiare e sentivo in me un’emozione troppo grande perché potessi darle voce con parole umane, e troppo spaventosa per esprimerla in altri modi. Lo delusi, ma lui fu tanto misericordioso da non commentare oltre.

«Le creature possono essere uccise pugnalando i cadaveri infetti, nel petto, con un paletto di frassino quand’è giorno», mi disse, «E non possono mordere chi porta al collo una croce».

Mi guardò ancora una volta. Ora il suo volto non tradiva più nulla sul suo stato d’animo. «Io non ti ho detto niente, angelo», e, con un cenno del fez nero a mo’ di saluto, uscì. Mi sembrò che si fosse portato via con sé il calore del fuoco.

Riassumerò brevemente quello che accadde dopo che Crowley se ne fu andato. Zana morì dopo aver ricevuto un secondo morso, la notte seguente, e venne seppellita assieme a Lubia come aveva chiesto con l’ultimo fiato rimastole. Dopodiché, parlai a lungo con Bernardin e gli spiegai cosa stava accadendo. Siccome lui mi disse che era stato innamorato di Lubia e che l’avrebbe sposata, una volta che anche Zana avesse trovato un marito poiché Lubia non aveva voluto lasciarla sola, omisi il fatto che il morso richiedeva il consenso di chi lo riceveva. Non volevo dargli il dolore di sapere che la sua amata in realtà non lo ricambiava. Lo portai una notte a vedere come una di quelle creature lasciava la tomba e cacciava gli umani per convincerlo che dicevo il vero, poi gli insegnai ad ucciderle.

Restai con lui per assicurarmi che dissotterrasse tutti gli abitanti del villaggio e li pugnalasse. Quando venne il turno di Zana e Lubia, però, mi mancò il coraggio. Con un miracolo feci in modo che la loro tomba non venisse trovata. Non so che fine abbiano fatto, se ancora infestino la notte assieme. Non le ho mai più cercate.

La signora restò al castello, in attesa che il padrone tornasse e venisse accolto dalla tragedia che aveva piagato la sua casa. Non avrebbe mai saputo che sua figlia era morta anche a causa sua.

Bernardin partì, errando per la regione, e fu il primo a insegnare agli altri uomini a cacciare quei mostri. Vennero chiamati in molti modi in tutte le regioni del mondo: strigoiupirbhutaaswang. Generalmente oramai sono conosciuti col nome di vampiri. Le credenze sulla loro natura e sul modo di cacciarli sono diventate molte, mescolando fantasia e realtà. Non si diffusero mai come Pazuzu aveva sperato, in parte grazie alla celerità con cui Crowley aveva fatto in modo che io avessi le giuste informazioni.

Invece io ho passato molti anni a riflettere su quanto accadde allora. Mi sono domandato come fosse possibile rinunciare alla vita, all’amore di Dio, condurre un’esistenza dannata… E perché io avevo deciso di lasciare che quelle due ragazze persistessero nel loro peccato? Perché mi ero reso complice dei loro delitti, nascondendo la loro tomba?

La risposta l’ho avuta sotto agli occhi tutto il tempo. Già da molti secoli prima di quel 1699, io la conoscevo. Avrei potuto confessarla a Crowley, quel giorno davanti al camino, e invece l’ho nascosta nel mio cuore con vergogna.

Intimamente io capivo il loro tormento, condividevo la loro bramosia.   

Se Crowley scomparisse, se venissimo separati per sempre, tutto cambierebbe. Ogni cosa assorbirebbe in sé il paesaggio deserto che mi accolse in quelle terre anni fa. I miei libri, il buon cibo, il buon vino, tutto perderebbe di sapore, di colore, di importanza. Non godrei più neanche un solo istante su questa Terra che, ora che lui c’è, io tanto amo. Non ci sarebbero più buoni presagi.

Ora so bene che sarei disposto a percorrere anche il sentiero più impervio, più lontano dalla Sua luce, se mi riconducesse a Crowley.

Questa è una verità che io mi concederò di scrivere solo qui, tra queste pagine che nessuno leggerà. La scrivo per liberare me stesso, con la promessa che non ci penserò mai più. Adesso io poserò questa piuma, piegherò queste pagine e le brucerò sulla fiamma della candela che arde qui, sulla mia scrivania. E sarà come se questo pensiero non fosse mai esistito.
 
 
 
   
 
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