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Autore: The Custodian ofthe Doors    14/09/2023    0 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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XXI. Bless.
 
 
La portiera cigolò, un suono basso ma stridente che fece arricciare il naso al ragazzino.
Si issò nella corriera prendendo un respiro profondo, per poi ritirarsi il portellone alle spalle, chiudendolo con un tonfo secco.
La vecchia moto di suo padre era ancora parcheggiata malamente nel retro, i pezzi che era riuscito a racimolare a Venezia e quelli che si era portato da Roma giacevano sparsi davanti ai suoi piedi, proprio come li aveva lasciati quella mattina prima di uscire da Era.
Amore ancora rideva sotto i baffi di questo nome. Quando invece l’aveva raccontato a Maria la ragazza aveva storto il naso, domandandogli se non fosse un può blasfemo per lui.
Gio si era stretto nelle spalle ed ero tornato ad arrotolare il finissimo filo di scozia con cui Maria stava cucendo quello che, a detta sua, era una mantellina ricamata, ma che a Gio pareva tanto un centrotavola storto.

«Tutto bene, piccolo Gio?»
La voce gentile di Amore gli fece alzare lo sguardo verso il sedile del guidatore, da dove la ragazza si stava alzando con grazia.
Aveva preso ad indossare vestiti leggeri, lunghi fin sopra le caviglie, che si gonfiavano al minimo soffio di vento, scoprendole le gambe longilinee dalla pelle immacolata.
Amore aveva scherzato più di una volta dicendo che era un suo vecchio ammiratore che le faceva i dispetti, qualcosa su un vento burlone che Gio non aveva capito davvero ed aveva preferito ignorare.
Il ragazzino espirò con forza, movendo qualche passo cauto, per non schiacciare nessuna vite e rischiare di cadere a gambe all’aria com’era successo qualche giorno prima. Quando rialzò la testa Amore era già davanti a lui, l’abito bianco pieno di minuscoli fiorellini azzurri sembrava uno scorcio su un prato di non-ti-scordar-di-me. Gio lo trovava adorabile, ma teneva quel pensiero per sé, incredibilmente imbarazzato dai suoi stessi pensieri.
«No.» borbottò lasciandosi prendere il volto dalle mani delicate e profumate della ragazza.
Amore gli posò un bacio a fior di labbra, strofinando poi giocosamente il naso contro il suo prima di abbracciarlo, lasciando che poggiasse il capo sul petto morbido, lasciato scoperto dalla scollatura bassa del vestito.
Gio inspirò profondamente, non erano solo le mani di Amore ad essere profumate, ogni parte della giovane lo era e Gio avrebbe giurato che il profumo fosse proprio quello dei famigerati fiorellini blu.
«Oh, è stata un brutta giornata?» chiese lei carezzandogli i capelli.
Stavano iniziando a crescere, Maria aveva ragione, ma Giordano sperava davvero, con tutto il cuore, che la ragazza non lo obbligasse a farseli tagliare dalla sua cameriera come l’aveva già minacciato di fare un paio di volte.
«Me sto a rompe le palle, lo posso di?» borbottò girando la testa per premere il naso contro le clavicole di Amore, prendendo un’altra boccato di quel profumo intossicante. Sentiva un vago retrogusto di cera e sì, lo sentiva proprio nel fondo della gola, come si sente il limone nella crema pasticcera.
«Lo hai detto, piccolo Gio. La mortale di Ade ti sta facendo impazzire?»
Giordano si lasciò sfuggire un verso simile al cigolio del portellone della corriera, girandosi definitivamente per stringere le braccia attorno alla vita fine di Amore e nascondere meglio il volto nel suo collo.
«Me tratta come se fossi un cagnetto da compagnia. Lo so che so’ più piccolo di lei, però manco a fa così. Non sto a fa niente, Amo’, non sto a fa proprio un cazzo-»
«Ah! Cos’è questo linguaggio con una signorina?» lo rimproverò lei bonariamente pizzicandogli un fianco.
Gio grugnì di nuovo. «Lascia sta, famme sto favore.» sospirò per l’ennesima volta e si distanziò da lei, quel tanto che bastò perché la giovane lo baciasse ancora sulla punta del naso, facendoglielo storcere ma riuscendo finalmente a strappargli un sorriso.
«Cosa ti fa fare la mortale? Ti infastidisce? Posso sempre andarle a parlare io se vuoi.» propose ammiccando divertita.
Gio alzò gli occhi al cielo. «Dio ce ne scampi e liberi! Se ce parli te finisce che je meni.» scosse la testa. «No, è che lei pure non fa niente. E c’ha lezione la mattina, quindi io devo starmene da na parte a aspettà. Di solito vado nel cortile ma fa un callo della madonna sti giorni, ce stanno così tante zanzare da ste parti che me domando come fa la gente a avecce ancora n’po’ de sangue in corpo.»
«Venezia è una citta lacustre, cosa ti aspettavi?»
«De certo no l’arberi de Roma, ve? I pini te lasceranno pure tutta la resina n’testa, ma aremno fanno ombra. Certo, te fanno pure sarta a strada, sai quee radici che casino che fanno? Poi la gente se lamenta che Roma è tutta n’dosso, e to credo, è pure fatta su sette colli, è tutto n’sali e scenn-»
«Qual è il vero problema, Giordano?» gli domandò Amore interrompendo il suo sproloquio sui pini romani.
Gio la guardò per un momento con le labbra strette in una linea fine. Poi, per l’ennesima volta, espirò pesantemente, sgonfiandosi come un suffé.
«Non sto facendo niente, ma proprio niente. Sto solo a perde tempo.» iniziò andandosi a sedere sul sellino mezzo rovinato della moto. Non ci si poteva proprio accomodare per bene o non sarebbe arrivato a toccare terra con i piedi. Questa cosa lo irritava moltissimo.
«Me dovrei allenà, mette su un po’ di muscoli.» fece un verso lamentoso e prese a scompigliarsi i capelli, grattandosi la testa innervosito. «Devo allenarmi, per diventare più forte. Non posso rimanere qui per troppo tempo, devo andare ancora più a nord, devo raggiungere la mia famiglia. Pluto mi aveva detto che dovevo solo passare a vedere come stava, a fargli compagnia per un po’ finché non sarebbe arrivato lui. Ma me pare ovvio che se la sta a fa a piedi!»
Amore annuì arricciando le labbra pensierosa. «La concezione del tempo è diversa per i mortali e gli Dei. “Per un po’” per te potrebbero essere un paio di settimane-»
«So pure troppe.»
«- ma per lui potrebbero essere mesi, anni.» concluse lei ignorando la sua interruzione.
Gio grugnì di nuovo, facendo sorridere la ragazza, che inclinò la testa di lato pensierosa mentre il ragazzino riprendeva a parlare.
«Ma non me ne posso manco andà così! J’ho detto che j’avrei guardato la donna, mica mo posso tiramme indietro.»
«Oh, guardargli la donna, cos’è? Un ninnolo da spolverare?» chiese lei divertita. «Però capisco il tuo punto, sei un amico fedele, mantieni la parola data.»
«Avoja! Nessuno li vole i traditori.»
«Quindi, se il tuo problema è il non fare nulla…»
«A parte er cane da guardia.»
«Più la dama da compagnia a giudicare a ciò che racconti, ma sorvoliamo.»
«Aoh!»
«Puoi sempre allentarti con me. Mio padre è il Dio guerriero per eccellenza, potrei insegnarti qualcosa, se vuoi.» propose arricciando le labbra in un sorrisetto provocatorio.
Giordano però la guardò per un lungo memento, serio e pensieroso, prima di scuotere la testa quasi dispiaciuto.
«Non lo so se ce la faccio a piatte a schiaffi. Lo so che sei forte, intendiamoci-» disse scivolando velocemente nel suo perfetto italiano accademico, «Ma se devo essere sincero, non credo di riuscire a colpirti, anche solo per allenamento. Anche con Thali non ci riuscivo mai. Raja sì, ma lei non la chiamano “La tigre araba” per niente. Raja fa paura se ti viene addosso.» borbottò battendo le palpebre come se stesse ricordando qualche esperienza poco piacevole.
Amore sorrise ancora più ampliamente, battendo le mani deliziata dall’idea che le era appena balenata in mente.
«Potrei sempre trasformarmi nella mia versione maschile! Sarei comunque un bel ragazzo, forse con dei lineamenti un po’ delicati, ma se fossi un maschio non dovresti avere troppi problemi, no?»
A quella proposta Gio alzò la testa di scatto, guardandola con rinnovato interesse, ma il suo sguardo scivolò subito su qualcosa alle spalle della giovane, fuori dalla corriera. Amore lo notò subito, voltandosi per capire cosa ci fosse di così interessante da aver attirato tutta l’attenzione del suo piccolo Gio e quando ebbe individuato la preda, una scossa fastidiosa le saettò sottopelle.
Appollaiato sul cofano della corriera se ne stava un corvo, apparentemente incurante le metallo rovente su cui poggiava le zampe rapaci, fissava con attenzione Giordano, senza mai battere le palpebre.
Un moto di rabbia s’accese negli occhi improvvisamente rossi di Amore, ma il ragazzino non si accorse di nulla, tanto era concentrato sul corvo, mente l’animale non la degnò neanche di uno sguardo.
 
«Lo so che può sembrare assurdo» iniziò con voce bassa Gio, «e so anche che gli animali si somigliano tutti, ma ti giuro che quel corvo mi segue. Posso metterci la mano sul fuoco, è sempre lui.» disse sicuro.
Amore annuì, fissando quell’uccellaccio del malaugurio come se potesse farlo sparire con un solo sguardo.
Oh, se non fossero stati i messaggeri di quell’essere li avrebbe fulminati con una delle folgori di Zeus, avrebbe rischiato una delle sue famosissime punizione solo per vederli arrostiti e fumanti come una portata principale di un banchetto reale.
Quando non ricevette alcuna risposta alle sue parole, Gio continuò a parlare, inclinando la testa di lato, imitato immediatamente dal corvo.
«Penso che sia più di una settimana che mi segue, sai? Gli ho dato da mangiare, gliene do quando si avvicina abbastanza, ma non lo fa mai a meno che non sia solo. E se c’è altra gente non posso lanciargli nulla, se no le domestiche di Maria mi gridano contro che sporco il patio. Lo faccio nascondere all’ombra durante le ore più calde. È tutto nero, con questo sole chissà quando soffre. Pensa che l’altro ieri sono riuscito anche a mettergli un po’ d’acqua addosso, per rinfrescarlo, penso abbia gradito.» si fermò un attimo e si voltò verso Amore. «Lo trovi assurdo?»
Lei scosse il capo. «No, assolutamente no. Anzi, sono sicura che sia sempre lo stesso corvo, ti segue da Roma ormai.»
Gio la guardò sgranando gli occhi scioccato. «Cosa? Per tutta questa strada? E come ha fatto? Co-» si bloccò. «-è uno dei vostri?» chiese poi cauto.
Anche a questo Amore dissentì. «È un seguace di tuo nonno, i suoi occhi e le sue orecchie. Credi davvero che solo la famiglia di tua madre ti abbia vegliato?» le chiese a sua volta.
Il ragazzino aggrottò le sopracciglia, preso alla sprovvista da quella domanda.
«Tu sei qui per questo?» ritorse.
La dea gli sorrise, avvicinandosi per carezzargli i capelli ed il volto, conscia della paura del ragazzino di essere null’altro che un lavoro da svolgere. «No, io ti seguo perché sono avara, sono ingorda… e non riesco a tenermi lontana da un fuoco, quando ne vedo uno. Specie se questo promette di bruciare come un rogo.»
Si abbassò su di lui e lo baciò ancora, il profumo intossicante dei fiori e della cera d’api invase l’intera corriera, distraendolo completamente, assuefatto da quell’odore così dolce e appiccicoso, così leggero e pesante da stordirlo sempre, senza possibilità di scampo.
Amore gli si fece più vicina, accomodandosi sulle sue gambe, stringendolo a sé, compiaciuta dalla presa sempre più sicura e spontanea che Giordano sfoggiava in queste situazioni.
Gli occhi chiari erano aperti, spalancati, puntati dritti in quelli neri ed inespressivi del corvo.
 
Sperto tu ti stia godendo lo spettacolo.
 
Il corvo mosse la testa con uno scatto improvviso, poi si alzò in volo, gracchiando il disappunto del suo padrone, girando in cerchio sulla corriera come il rapace che era, in attesa che la sua preda finalmente si arrendesse alla stretta della morte.
Ma Thanatos non era solito presentarsi lì dove già si trovava l’amore, non quando le mani di suo cugino erano ancora immacolate.
Avrebbe atteso pazientemente finché non fossero state sporche di sangue.



 
*
 



Quando era ancora un infante, gli adulti del suo quartiere, gli avevano sempre parlato liberamente di ogni cosa, ogni argomento. Ricordava distintamente che ciò su cui avevano più riserve era il denaro, gli scambi commerciali, piccoli trucchi con i venditori. Erano cose che alcuni erano disposti a condividere con te, almeno le cosa più banali certo, mentre altri tenevano segretamente per sé stessi.
In generale però ogni adulto, ogni giovane, ogni anziano, cercava di insegnare qualcosa ai più piccoli. Non c’erano limiti se non le capacità dell’individuo che doveva apprendere la nozione.
Per quanto riguardava invece le abilità, la staffa da cui partire era la capacità della persona, il fatto che comprendesse, che potesse effettivamente fare quella particolare cosa.
C’era un momento in cui mettere una bambina davanti al focolare, c’era un momento in cui insegnarle ad usare il telaio, quando metterle in mano un coltello per scuoiare una lepre, quando un falcetto per raccogliere il grano. Così come c’era un momento giusto per porre un bambino d’innanzi ad una forgia, dargli una zappa per arare i campi, una mannaia per macellare le bestie più grandi, un arco per cacciare, un arpione per pescare, una spada per combattere.
C’era un momento per ogni cosa e quel momento arrivava quando l’infante era in grado di comprendere il compito da svolgere.
Dal suo punto di vista quindici inverni erano più che abbastanza per ogni cosa che gli potesse venire in mente, figurarsi per una cosa tanto banale e triviale come uno sciocco bacio.
 
Cicno prese un respiro profondo e poi espirò, lanciando un’occhiata di traverso a Jane che, nello stesso momento, alzava gli occhi al cielo, ormai ad un passo dal gettarsi dal primo dirupo che fosse apparso sul loro cammino.
Un vero peccato se si pensava che i Campi Elisi fossero tutti in pianura.
Evidentemente la figlia di Ecate dovette pensare la stessa cosa perché gli chiese a mezza bocca.


«Quando velocemente puoi uccidermi con quei coltelli?»
«Abbastanza per poter uccidere anche me stesso prima che il tuo corpo tocchi terra.» rispose a denti stretti. Poi inclinò la testa dal lato opposto. «Abbastanza anche per portare te con noi, se può interessarti.»
A quelle parole seguì un verso lamentoso ma quasi sollevato.
Jonas strizzò gli occhi ed imprecò, portandosi una mano al collo come a voler allentare il giogo d’argento che riposava tiepido contro il colletto stretto dalla maglia.
«Non mi provocare, potrei accettare.» borbottò prima di girarsi di nuovo verso i compagni alle loro spalle e ripete, per l’ennesima volta.
«Volete smetterla per una buona volta!? State alzando un polverone per nulla!»
Eliza lo trafisse con lo sguardo, fin troppo seria. «Non è nulla. Ai miei tempi-»
«Lo so! Me lo avete ripetuto tutti! Ai vostri tempi se qualcuno avesse visto due uomini baciarsi sarebbe stata la fine! Lo so, lo so! Anche ai miei. Credetemi, lo so fin troppo bene!»
Lea si lasciò sfuggire un versetto lamentoso, quella discussione si stava protendendo decisamente troppo.
«Jonas, non è quello il problema-»
«Beh, sì, è anche quello invece. A nessuno di noi frega un cazzo di niente, anche perché non è che hanno limonato duro o che so io.» s’intromise Nathan, «E poi discendiamo dai fottuti Dei greci, quindi saremmo degli ipocriti di merda se fossimo omofobi. Ma resta il fatto che tipo, ai miei tempi, ti avrebbero arrestato. Ai tuoi invece, a casa tua, ti avrebbero fucilato sul posto o spedito nei campi di concentramento.»
«Non credo sia necessario raccontargli queste cose, Nathan. Chiudi la bocca.» lo reguardì la figlia di Apollo scorgendo il modo in cui Jonas rabbrividì. «Leggi la situazione!» bisbigliò poi sgranando gli occhi e facendogli secchi cenni verso il ragazzo.
Nathan la guardò improvvisamente confuso, cercando di chiederle silenziosamente cosa diavolo gli stesse cercando di dire, per fortuna Cade catalizzò velocemente l’attenzione su di sé.
«Ma sì, non ce ne frega niente a nessuno di noi! Ho avuto amici che, sì, insomma, erano interessati ad altro.»  disse alzando le sopracciglia e dando di gomito a Eliza che alzò invece gli occhi al cielo.
«Anche io, durante i mesi di guerra, ho sentito storie del genere, di soldati che si-»
«Sì, sì, quella roba lì.» tagliò corto Cade. «Però quello che ci turba tutti, oddio, tutti, angioletto certo no, ma son dettagli- dicevo! Quello che ci turba di più è che sei così-»
«Piccolo? Non ti azzardare a dirmi che sono troppo piccolo!» tuonò Jonas voltandosi di scatto verso Cade, sfidandolo con lo sguardo a proseguire.
L’irlandese aprì bocca per continuare ma questa volta fu Jane ad interromperlo:
«Non so come funzionasse durante la vostra epoca, ma da me le donne si sposavano molto giovani, quando potevano iniziare a procreare di solito. Ed era davvero difficile che sposassero uomini della loro stessa età, perché questi non avevano ancora una casa e non potevano sfamare una famiglia, tanto meno proteggerla al meglio.»
Cicno annuì. «Anche ai miei tempi. Se Jonas fosse stato una giovane avrebbe probabilmente già un figlio. A meno che non fosse appartenuta ad una famiglia facoltosa. Allora avrebbe avuto la possibilità d’aspettare e scegliere anche il miglior pretendente. Lo avrebbero scelto i suoi genitori ovviamente, suo padre principalmente, ma sarebbe comunque stata data in sposa da giovane, altrimenti come avrebbe fatto a crescere e accudire la sua prole?»
Jane concordò con lui, «Esatto, giusto un maschio poteva permettersi di aspettare e poi trovare comunque una sposa. Mi ha sempre disgustato questa cosa, perché un uomo può avere al fianco una moglie giovane e bella mentre una donna deve sempre avere un vecchio?»
«Mia madre non aveva un marito, era abbastanza comune anche questo nelle mie terre.»
«Davvero? Da me non sarebbe mai s-»
«Possiamo tornare al punto focale della faccenda?» domandò Eliza infastidita da quell’excursus non richiesto.
«E quale sarebbe, Elsa?» chiese Cade saltellandole vicino.
Lei lo fulminò. «Tu dovresti essere dalla mia parte. È ancora un bambino.» sibilò preoccupata.
«Ma quello mi preoccupa poco, ad essere onesti, io ho fatto di peggio alla sua età! Soldatino, tu?»
Nathan sussultò, ancora intento a scambiarsi sguardi interrogativi con Lea che si ostinava a fargli gesti che non capiva invece di parlare chiaramente.
«Io che?»
«Che hai fatto a quindici anni?»
«Sedici!» gridò Jonas esasperato.
«Sono andato in missione per-»
«Sì, sì, no, non ce ne frega un cazzo di quello.»
«E allora che cazzo vuoi! Roscio malpelo di merda!»
«Le cosacce che facevi con le ragazze! Su, su, che facevi da ragazzino?»
Nathan rimase per un momento interdetto, guardandolo senza capire.
Davanti a loro, Cicno sospirò ancora.
«Io all’età del giovane Jonas-»
«Tu avrai fatto le orge alla sua età, non sei un testimone parziale, cazzo!» lo zittì Nathan. Poi si schiarì la voce. «Non ti posso aiutare su questo, rosso, io ho una sola donna nella mia vita, mia moglie Lucy, l’ho conosciuta che avevo tredici anni e ci siamo fidanzati circa all’età del moccioso.»
A quella confessione seguì un lungo momento di silenzio, poi Cade, scioccato, allungò il passo per avvicinarsi a Cicno e bisbigliare:
«Ho capito bene? Ha scopato con una persona sola per tutta la vita?»
Cicno lanciò uno sguardo stranito a Nathan, «Non so se reputarlo onorevole o sciocco, ma pare proprio di sì.»
«Cazzo.»
«E sempre lo stesso…»
«VI SENTO PORCO DI QUEL ZEUS!» scattò il figlio di Ares improvvisamente paonazzo.
Cade però continuò ad adocchiarlo sospettoso. «Scusa amico, è che mi fa strano, davvero. Capisco tua moglie, ma te…»
«Questa cosa che se si parla di un uomo va bene che abbia relazioni con altre donna, ma se si parla di una donna allora è impensabile la trovo davvero ingiusta.»
Cicno si strinse nelle spalle. «Anche per me lo è, di norma, ma capisco che solo se una donna è illibata si può esser certi che il figlio che porta in grembo sia quello del padre. Vorrei comunque puntualizzare che non sempre è simbolo di certezza anche questo, ma almeno assicurava che la sposa non fosse già incinta prima del matrimonio e che l’uomo non crescerà figli non suoi. Era un’assicurazione per il proseguimento della stirpe.»
Jane sbuffò. «Quanto sei felice che il discorso si sia allontanato da te?» domandò rivolta a Jonas, mentre Lea si lanciava in un’arringa degna di un predicatore su quanto questo fosse ingiusto e degradante nei confronti di una donna.
Jonas si strinse nelle spalle, «Se si accorgono che sono troppo sollevato torneranno sicuramente alla carica, quindi no, non sono felice.»
Scosse leggermente il polso per sistemare il suo nuovo bracciale, sorridendo lieve quando abbassò lo sguardo verso la sua mano. Rialzò la testa e si guardò attorno cercando di scorgere qualcosa che potesse essergli utile, non si aspettava proprio delle indicazioni o dei cartelli stradali che indicassero tutti i templi presenti in quel quartiere, ma forse poteva riconoscere qualcosa di familiare.
O forse no, visto che non aveva la più pallida idea di quale fossero le insigne dei genitori divini dei suoi compagni.
Ricordava la statua di Atena, se non andava errato quella che l’accompagnava sempre era la Nike, quindi la madre di Eliza, ma dubitava fortemente che sarebbero incappati in un tempio con una donna alata sul tetto.
Poi chi altro c’era? Zeus? Un fulmine? Poseidone un tridente, Apollo il sole forse, ma Ares? Una spada? Un elmo?
Stavano girando da un po’ ormai, avevano incrociato una serie indefinita di piccoli tempietti e, se non se l’era immaginata, forse anche una chiesetta, ma apparentemente il panteon greco era così vasto da potercisi perdere dentro.
Aggrottando le sopracciglia Jonas si sporse leggermente in avanti, osservando un tempio sulle cui porte era disegnato un simbolo che avevano già incontrato, che stessero girando in tondo?
 
«Stiamo girando a vuoto.» proruppe fermandosi davanti alle scalinate di un tempio circondato da fiori di campo.
Gli altri smisero di discutere delle esperienze – o della loro mancanza – sessuali di Nathan e si concentrarono sul tedesco.
Úranus annuì cupo. «Dobbiamo muoverci con uno scopo, non possiamo continuare a vagabondare.»
«Anche perché sono abbastanza sicuro che siamo già passati davanti a questo simbolo.» disse Jonas indicando le porte.
Il figlio di Fobetore però aggrottò le sopracciglia crucciato. «Non lo conosco. Cicno? Nathan?»
L’americano si avvicinò, senza però osare salire i gradini, e osservò con più attenzione le incisioni.
«Che cazzo c’è scritto?»
«Non ne ho idea.» disse sincero Úranus.
«Però mi è familiare, sapete?» ammise Eliza guardando pensierosa la scritta.
«C’è scritto maison, è francese? Casa, quindi? Ma casa di chi?» domandò Lea aguzzando la vista.
«Non credo sia proprio maison, è scritto in modo diverso.»
«Il francese non si legge come si scrive, genio.» fece seccato Nathan.
Jonas gli lanciò un’occhiataccia. «Lo so, genio. Ma quello non è il modo per scrivere “maison” in francese, si scrive “m-a-i-s-o-n”. lì invece c’è palesemente scritto “m-a-n-s-i-o”, non stiamo giocando agli acronimi.»
«Allora dimmi che significa, o grande professore poliglotta.» lo sfottè ancora il figlio di Ares.
«Significa che non ci interessa e che dobbiamo tornare a cercare i templi dei nostri divini genitori.» tagliò corto Cicno mettendo una mano sulla spalla di Nathan e una su quella di Jonas e tirandoli gentilmente indietro.
I due biondi si guardarono in cagnesco, assecondando comunque i movimenti del greco, seguendo Eliza e Jane che stavano già tornando sui loro passi, allontanandosi da quel quartiere, dalle strade dritte e ben lastricate di piccoli sassi scuri, piatti e lisci.
Cicno attese che tutti i suoi compagni si muovessero prima di lanciare un ultimo sguardo al templio davanti a lui, per poi alzarlo verso quello decisamente più imponente che svettava dietro la fila di tempietti ordinati. Sulla parte centrale del decoro del timpano erano rappresentate due figure minute ed una fiera ad incombergli sopra.
Osservò per un attimo le lettere delle scritte incise sotto al bassorilievo, poi si voltò e raggiunse gli altri, allontanandosi anche lui da quella zona tanto familiare quando differente dal mondo che aveva conosciuto lui in vita.


I ragazzi lo attendevano ad uno dei numerosi crocevia che dividevano i vari quadranti della valle dei templi.
«A conti fatti dovremmo trovare prima il tempio di Fobetore, giusto?» disse Nathan guardandosi attorno.
Cicno annuì. «Sì, lui è il prossimo, dobbiamo cercare un templio dalle nere vestigia.»
«Beh, allora mettiamoci all’opera, non perdiamo altro tempo, abbiamo già vagabondato a sufficienza.» sospirò infastidita l’americana.
«Abbiamo solo scelto il lato sbagliato in cui addentrarci.» le rispose con tranquillità il greco, voltandosi poi verso la figlia di Ecate. «Pensi di poter tracciare la scia del potere del divino Fobetore?»
Jane lo guardò inespressiva, poi si strinse nelle spalle, facendo una smorfia insicura.
«Ci posso provare.»
«Sono sicura che puoi anche riuscirci.» la incoraggiò Eliza.
L’altra non ne sembrava molto convinta, ma provò ugualmente a concentrarsi sull’aura di Úranus e a ricercarne una simile. L’aveva già fatto in effetti, mente cercavano la sfera dei ricordi dell’uno o dell’altra persona, ma l’idea di ricercare volontariamente il potere degli incubi, d’essere legata ancora una volta ad Úranus, non l’emozionava per niente.
Chiuse gli occhi prendendo un respiro profondo e rabbrividì per la velocità con cui la Foschia sembrò rispondere al suo richiamo. Fu una sensazione strisciante, che le solleticò le caviglie e la fece muovere inquieta sul posto, cercando di sollevare i piedi da quella pozza melmosa invisibile che le si era creata attorno.
Dietro di lei Eliza allungò una mano, come per sorreggerla, ma Cicno la intercettò rapido, facendole cenno d’arretrare e non interferire in qualunque cose stesse succedendo.
Alle volte il greco si rendeva conto di quanto dovesse essere difficile o curioso per loro assistere al palesarsi del potere di una divinità o di un suo discendente, ma questa non era una giustificazione sufficiente affinché mettessero il naso in ogni dannata azione degli altri, specie se una qualunque interferenza poteva portar a potenziali ritorsioni verso chi stava eseguendo la malia o chi lo circondava.
Jane nel mentre si costrinse a rimanere ferma nel momento in cui si accorse che quella spiacevole sensazione la seguiva ad ogni passo.
Deglutì imprecando a denti stretti, stringendo ancor di più gli occhi e concentrandosi sul movimento della Foschia. Per un momento, nel buio delle sue palpebre, le parve quasi di vedere una corrente, nebbia bianca e fumosa che s’allontanava lentamente da lei, quasi a fatica. Si spostò verso una figura massiccia ma imprecisa, attraversandola e tingendosi di una sfumatura più cupa, continuando il suo percorso come se stesse seguendo il letto di un fiume invisibile, serpeggiando tra i templi, verso quello che Jane sapeva essere il nord.
La strega riaprì gli occhi di scatto, puntandoli verso la direzione in cui si era mossa la nebbia sporca della scia semidivina di Úranus.
Con cenno della testa indicò loro la direzione. «Dovrebbe essere di là. Quello, o la Foschia si sta prendendo gioco di noi. Di me più che altro.»
Cade batté le mani soddisfatto, «Beh, tanto cosa abbiamo da perdere? Alle brutte cerchiamo a caso come prima.»
«Ma si, cosa abbiamo da perdere.» ripeté Nathan sarcastico.
«Tipo la spiegazione alla prossima prova.» borbottò di rimando Jonas, improvvisamente d’accordo con il soldato come prima ne era stato in disaccordo.
Lea abbozzò un sorriso, era divertente come i ragazzi passassero dal darsi contro al supportare lo stesso punto in un batter d’occhio, le sembrava quasi di rivedere suo fratello ed i suoi colleghi, una vita prima, dissentire su una diagnosi e poi prendersi un caffè insieme in allegria.
Il pensiero di Giuseppe la rapì per tutto il tragitto. Si domandò più volte se anche lei avrebbe visto un suo parente invece del suo divino genitore, e per quanto le sarebbe piaciuto poter incontrare sua madre era più che consapevole del fatto che l’unica persona in grado di convincerla a fare qualcosa sarebbe stato proprio suo fratello, nessun altro. Era la sua unica famiglia.
Gettò uno sguardo ai suoi compagni, probabilmente Cade avrebbe rivisto uno dei suoi amici, Jane i suoi genitori mortali? Nathan sua madre o sua moglie, ma Lea era consapevole, così come il soldato, che entrambe le donne fossero rinate; quindi, questo già gli rendeva le cose più semplici, in un qualche modo. Úranus era quello ad avere la più alta probabilità di incontrare suo padre mentre per quanto riguardava Eliza e Cicno… loro erano un vero problema. La donna aveva già incontrato suo padre, non aveva fratelli da quel che sapeva e neanche amici stretti, o per lo meno non ne aveva mai parlato. Mentre Cicno- Cicno non aveva nessuno.
Su quella realizzazione si fermarono all’inizio di un viale, del tutto simile a tanti altri che avevano già percorso.
Lea si riscosse dai suoi ragionamenti e osservò con attenzione i vari templi, individuandone un intera fila nera come l’onice.


«Beh, direi che li hanno messi tutti insieme.» proruppe Cade grattandosi la testa. «Com’era? Se sono neri sono legati a cose negative, spaventose o alla morte?»
Jonas storse il naso. «Il potere di mio padre non è così negativo.» disse come a giustificarlo.
Jane alzò un sopracciglio scettica, «Rimpianto d’amore, abbandono, nostalgia, perdita-»
«Va bene! Va bene! Ho capito, negativo, va bene.» saltò subito il ragazzino fermando la compagna.
Úranus non disse nulla per provare a difendere l’onore di suo padre, sapeva perfettamente che per quando il dio si fosse dimostrato magnanimo, gentile e affettuoso nei suoi confronti, il dominio sugli incubi e sulle paure più recondite non era certamente motivo di vanto.
Una brezza leggera gli sfiorò il volto ed Úranus non seppe dire se fosse ancora la Foschia evocata dalla figlia di Ecate o se invece fosse suo padre che lo chiamava. Non gli sarebbe servito comunque, perché il semidio aveva riconosciuto immediatamente la casa di suo padre non appena vi aveva posato lo sguardo sopra.
Con lentezza Úranus si voltò a guardare i suoi compagni, i loro sguardi curiosi e attenti, che cercavano di scorgere un simbolo, un nome. Sorrise mesto finché non incrociò lo sguardo di Cicno.
Il figlio di Apollo lo guardò come se potesse leggergli nella mente, nell’anima. Come se, in fondo, lui già sapesse ogni loro mossa futura.
Annuì una sola volta, in modo solenne, senza indicargli il templio giusto, senza incoraggiarlo o dirgli di sbrigarsi. Solo una parola.
«Vai.»
Quel suono richiamò l’attenzione di tutti ed Úranus sorrise più ampiamente.
«Vado.»
Non si voltò, alzò a mala pena una mano quando sentì gli schiamazzi di Cade, gli incoraggiamenti di Jonas ed Eliza, la voce burbera di Nathan e Jane che gli chiedevano di sbrigarsi e non perdere tempo, gli auguri di fortuna di Lea.
Quando salì le scale del tempio di suo padre e le porte gli si aprirono davanti, mosse da un potere divino, Úranus ricordò dopo secoli ciò che si prova nel ritornare a casa dopo un lungo viaggio.
 
Le porte si richiusero.
L’attesa iniziò.
 


 
*
 



Il silenzio che percepiva attorno a sé non era vero silenzio.
C’era il frinire costante delle cicale, il ronzare senza posa degli insetti, il suono perpetuo delle foglie che sfregavano le une contro le altre.
La luce era calda e sfocata, brillava sulle piante verdi, incendiava la sterpaglia calpestata dalle ruote delle carriole, quella tagliata e ammassata ai lati della terra battuta.
Seduta sul muretto basso poteva sentire il tufo sgretolarsi sotto i palmi delle mani dalla pelle tirata e secca. Erano morbide di solito, le sue mani, ma sempre leggermente ruvide. Sua madre le ripeteva che erano le mani di una piccola donna, perché lavare i piatti, i pavimenti, strofinare con forza le lenzuola nei vasconi della piazzola rendeva la pelle spessa e resistente, adatta per il lavoro.
Anche strappare l’erbaccia aiutava, star chini a tagliar il grano, a far la cicoria che suo padre tanto amava ma che a lei, se poteva esser onesta, non aveva mai entusiasmato troppo.
È una cosa da adulti”, era la frase preferita di suo padre. Lei non poteva capire perché era piccola e perché era femmina, due cose che non potevano proprio portare a nulla di buono.
Ma suo padre anche non portava mai nulla di buono, quindi, a rigor di logica, anche questo andava bene in lei, proprio come i calli sulle sue mani da bambina.
Alzando la testa socchiuse gli occhi per cercare di contrastare la luce accecante del sole. Lungo la fessura lasciata libera dalle palpebre, unico spiraglio da cui scrutare il mondo, l’ombra delle ciglia si sovrapponeva e si sfocava, presente e scura un secondo, invisibile l’altro, mischiandosi a quel costante luccichio che ogni raggio luminoso le specchiava nelle iridi calde e brillanti.
Si portò una mano sopra gli occhi, la mosse per scostarsi la frangia dalla fronte e poi la riportò in posizione.
Secondo il signor dottore i suoi occhi erano uno svantaggio, una vera sfortuna, i colori strani non sono mai una cosa positiva, sono sensibili, solo deboli, fallibili più di ogni occhio comune. Eppure lei ci vedeva benissimo, anzi, ci vedeva fin troppo bene, vedeva con chiarezza cose così distanti che solo un binocolo avrebbe potuto scorgere. Vedeva così sua madre, indaffarata a spolverare l’altare della Madonnina che vegliava i campi coltivati a viti e mele cotogne, sui cui lati crescevano verdure selvatiche, al cui limitare s’aprivano i campi di grano giallo ma ancora poco maturo.
Vedeva gli uomini ammassati sotto all’ombra del melo più grande di tutti, con uno straccio attorno al collo, che indicavano zone diverse di quelle grandi distese di foraggi.
In mezzo alle spighe luccicanti come un mare su cui si specchia il sole, vedeva piccoli esserini verdastri saltellare al fianco di un paio di giovani dalla pelle dello stesso colore del grano, i capelli bianchi come le punte delle spighe, gli occhi verdi come i chicchi acerbi.
Le vedeva da una vita, le vedeva da sempre, vedeva anche ciò che gli altri non potevano vedere.
Vide perfettamente anche la bella donna che le si stava avvicinando e non appena questa lo fu troppo abbassò la testa, nascondendosi sotto la frangia lunga che, a differenza di ogni madre, la sua non le imponeva di tagliarla. No, era meglio avere qualcosa con cui coprirsi.
La donna era forse la persona più bella che avesse mai visto, il corpo morbido era avvolto in un abito che pareva esserle stato cucito addosso, nonostante non fosse di un tessuto lussuoso e ricco, pareva semplice cotone tinto di rosso, sbiadito come se fosse stato lavato troppe volte. La camicia bianca che indossava fuoriusciva voluttuosa dallo scollo squadrato ed abbondante, come lo era il seno più che generoso che vi si affacciava. Non poté far a meno di pensare che, con quel sole, a fine giornata la signora avrebbe avuto il seno tutto bruciato.
Le maniche erano rimboccate fino ai gomiti e sebbene la sua pelle fosse abbronzata, come quella di ogni contadina, non aveva graffi né cicatrici, non aveva macchie, non aveva calli.
Sbirciò il suo volto cercando di non incrociare il suo sguardo, come suo padre le ripeteva sempre di fare, e si sorprese nel notare che anche quello era liscio, pulito, senza alcuna macchia. Pareva giovanissima, eppure doveva avere almeno trent’anni, forse qualcosa di più, ma i capelli scuri, lunghi e mossi, che portava tenuti su da un fermaglio alla bene e meglio, le davano un’aria giocosa quanto sicura. Era uno strano pensiero quello che le venne, ma non poté farne a meno.


«Ciao bambina, sei da sola?» le chiese con voce melodica.
Lei negò, abbassando ancora di più il capo.
«Comi ti chiami?» domandò ancora.
La bambina storse il naso, non poteva rimanere in silenzio, sarebbe stato da maleducati, ma non poteva neanche risponderle senza guardarla negli occhi, anche quello sarebbe stato maleducato.
Sospirando prese un poco di coraggio e alzò la testa, puntando lo sguardo scintillante in quello della donna.
«Clara.» disse solo, senza aggiungere altro.
Non avrebbe potuto neanche volendo, neanche se fosse stata come Flaminia, la figlia del macellaio, che era sempre tanto allegra e spigliata e che parlava addirittura con lei, anche se in molti le dicevano di non farlo.
Non avrebbe potuto perché gli occhi della donna la lasciarono impietrita.
Erano rosa. Rosa come i fiori, come i gerani, come i vestiti nelle vetrine dei negozi del centro, come la marmellata di visciole spalmata sul pane. Rosa come il cielo dipinto dietro al ritratto della Madonna che stava nella loro chiesetta.
«Sei la figlia di Ada?»
Clara annuì, balbettando incerta. «E di Giovanni. Mancini.»
La donna si portò una mano al mento, pensierosa. «Mh, ho sentito delle storie. C’è questa povera donna, la sora Ada, che ha pianto per anni l’arrivo di un figlio che suo marito non riusciva a darle, e tutte le colpe le davano a lei, si? Che non era abbastanza forte per crescere un bambino, ma alla fine quello toccato era lui, l’hanno scoperto perché tradiva la moglie da sempre ma non aveva neanche un figlio illegittimo. E proprio per questo, quando finalmente qualcuno lassù, ha esaudito il suo desiderio e il marito è riuscito a darle un figlio, è nata una bambina.» si fermò, piegandosi di lato per sbirciare sotto la frangia di Clara, per scorgere i suoi occhi sfuggenti, lucidi, fin troppo espressivi, soprattutto per una come lei.
«È nata femmina e con gli occhi dei gatti.» continuò, osservando senza paura e senza ribrezzo, senza compassione, quelle iridi gialle che tanti bisbigli suscitavano, che facevano parlare così tanto la gente superstiziosa ed ignorante.
Già non riuscire ad avere un figlio era un brutto affare, ma che il primo fosse femmina, in una famiglia di contadini, e con gli stessi occhi dei gatti neri… quella sembrava quasi una maledizione, un eterno monito per il padre, per ricordargli quanto le sue azioni fossero state meschine, per rivedere in sua figlia le conseguenze dei suoi peccati.
Adulterio. Lo sapevano tutti, lo mormoravano dietro le persiane scorticate dal calore rovente delle campagne romane, dalle piogge torrenziali di aprile e dal freddo umido dell’inverno.
Era così che finalmente, il signor dottore, aveva smesso di dire alla sora Ada che il problema era il suo grembo, perché il sor Mancini aveva un lungo trascorso di scappatine e mai nessuna, neanche la più giovane delle sue amanti era rimasta incinta.
Clara queste cose le sapeva, ne era perfettamente cosciente, aveva undici anni dopotutto e sua madre, quando andava a confessarsi, se la portava dietro e la faceva rimanere seduta vicino al confessionale, così che non si cacciasse nei guai. L’aveva sentita pregare per la salvezza dell’anima del marito, di suo padre, e aveva sentito il parroco dirle quanto fosse nobile e cristiana la sua speranza di redenzione di quell’anima peccatrice, che il Signore fosse fiero di quella sua figlia che aveva perdurato nelle avversità, che aveva tenuto fede al sacro vincolo del matrimonio e mai aveva indietreggiato anche quando l’umiliazione era stata più cocente.
Dio l’aveva vista, aveva avuto pena di lei e per ricompensarla delle sofferenze che aveva vissuto e che continuava a vivere le aveva concesso finalmente un figlio.
Lei era la ricompensa di Ada per tutte le sue pene e il monito perpetuo di Giovanni per i suoi peccati. Lo sapeva, ma quanta rabbia le faceva sentirselo ripetere.
Non commentò però, non rispose perché era una bambina educata e le suore la prendevano a schiaffi se diceva male di qualcuno o a qualcuno, perciò non fiatò, aspettando che la bella signora continuasse a parlare.
«Sì, non è per niente bello sentirsi ripetere tutte le nostre disgrazie, vero?» chiese lei sorridendo sorniona.
Clara la guardò impietrita, il volto non trasmise la minima emozione ma gli occhi scintillarono come il grano colpito dal sole.
Che la signora le leggesse i pensieri? O forse l’aveva detto ad alta voce senza accorgersene?
La donna scoppiò a ridere, deliziata da quella situazione, divertita dai pensieri spaventati della bambina.
Aveva una risata alta e allegra, chiara, piacevole da ascoltare e senza smetter di ridere si infilò una mano sotto la piega della gonna, nella tasca spaziosa, e ne estrasse qualcosa.
Quando lo porse a Clara la bambina lo identificò subito come un coltellino, un coltellino a serramanico come quelli che portavano con loro i contadini per tagliare i grappoli dalle viti. Il legno era caldo, rossastro, e la vite che teneva la lama al manico sembrava d’oro puro tanto era lucida.
«Prendi questo bambina. Ti stai facendo grande, presto diventerai una signorina, attirerai molta più attenzione di quanto non puoi immaginare. Allora non ci sarà più nulla che potrà proteggerti, dovrai imparare a far da te.» le mise il colettino nelle mani e le strinse con sicurezza.
«Un giorno verrà qualcuno per te, per portarti via da qui, ma fino ad allora dovrai cavartela da sola, devi sopravvivere.»
Quell’ultima frase le fece venire i brividi, ma la bella signora non aggiunse altro. Si voltò sorridendole un’ultima volta, sembrava quasi che per lei tutta quella situazione surreale fosse motivo di gran divertimento, come se non le avesse appena ricordato la sua storia, come se non le avesse appena detto che presto non sarebbe più stata protetta dal suo essere una bambina ma sarebbe stata vista come una donna, con tutto ciò che ne derivava.
La signora si incamminò verso il fondo della vigna, verso i campi di grano, ancheggiando morbidamente, con i capelli che oscillavano sulle spalle fini.
Clara si rese conto solo in quel momento che fosse scalza.
Abbassò lo sguardo sul coltellino, indugiando un momento prima di aprirlo facendo attenzione a non ferirsi.
Sotto il sole impietoso, luminoso come i suoi occhi, la lama d’oro brillava di uno strano pulviscolo bluastro.
Il cuore le batté prepotente nelle orecchie, come un tamburo da parata.
La terra le parve tremare per un istante, il vento smettere di soffiare, ogni animale tacere, il cielo pulsare a ritmo del suo stesso sangue.
Chiuse il coltellino con uno scatto secco.
Tutto tornò come prima.
 

 
*



 
Il pavimento era pulito ma opaco, la pietra non era stata lucidata a specchio come sicuramente lo era nei tempi dei Grandi Dodici. Úranus non ci fece molto caso, non era lì per osservare la casa di suo padre, in un qualche modo già la conosceva, sapeva cosa avrebbe trovato al suo interno esattamente come, a distanza di secoli, ricordava alla perfezione com’era la vecchia capanna in cui viveva con sua madre.
Camminò ad agio, tranquillo, lentamente. I suoi amici lo avrebbero perdonato se si prendeva quell’attimo tutto per sé, se non correva verso la sala principale, quella in cui doveva trovarsi lo stendardo di suo padre ed il suo simbolo. Dubitava di trovarvi un idolo o anche solo un bassorilievo. Fobetore non era mai stato rappresentato come un uomo troppo bello, in alcune storie veniva rappresentato come un mostro, mezzo umano e mezzo bestia, l’incubo di molti uomini. Non era strano quindi che nessuno tentasse di rappresentarlo, venerare una creatura aberrante era materia da pochi culti.
Scacciando dalla mente quei pensieri Úranus continuò a camminare fino a quando non individuò un arco di legno, formato da tronchi massicci, privi di corteccia, da cui pendevano liane limacciose, come quelle che tante volte aveva visto nei fiumi e nei laghi, quelle che gli uomini associavano ai mostri marini, alle alghe che si avviluppavano alle gambe dei nuotatori inesperti e disattenti e che li trascinavano sui fondali sabbiosi. Quando vi passò attraverso le trovò asciutte ma morbide, gli carezzarono la pelle come aveva fatto prima il vento, la Foschia e come aveva fatto secoli addietro suo padre.
Non chiuse gli occhi, non sentì il bisogno di prepararsi in alcun modo a qualunque cosa l’aspettasse. Forse perché era convinto che sarebbe stato Fobetore stesso ad attenderlo, come gli aveva promesso solo poche ore prima, dubitava fortemente di poter rivedere sua madre ed in fondo al suo cuore, anche se non credeva suo padre capace di tanta crudeltà, sperava di non rivedere la donna per il solo timore di trovarla ancora incinta. Non avrebbe sopportato l’idea di saperla morta ancora gravida, finché qualcuno non glielo avesse detto, Úranus avrebbe potuto continuare a sperare, ad illudersi, in eterno che suo fratello fosse nato, che la sua morte non fosse stata vana, che la persona che aveva più amato al mondo fosse riuscita a sopravvivere e crescere un’altra creatura pura e gentile come lo era lei.
Le luci della sala centrale erano poche ma luminose e fu con grande sorpresa che Úranus si rese conto da dove provenisse tutto quel chiarore: finestre.
La sala sembrava una piccola chiesetta, le colonne che la costeggiavano era di marmo grigio e grezzo, sopra di esse una fascia di muro ospitava un totale di otto finestrelle quadrate da cui entrava una luce così- naturale, mattutina, terrena.
 
Viva, umana. È la stessa luce che filtrava dalla finestra vicino al camino, quando il sole freddo dell’alba inondava la stanza e ci svegliava. Come la luce di casa.
 
Il soffitto spiovente era semplice, travi e mattoni, nulla di più. Così come l’altare posto al capo opposto della sala rettangolare.
Su di esso un braciere circolare, di metallo annerito esattamente come la vecchia pentola in cui sua madre preparava le zuppe, ospitava tizzoni ardenti ma nessun fuoco, come le braci che lente si sopivano nel loro cammino durante la notte.
Quell’atmosfera così tranquilla e silenziosa lo fece sorridere più apertamente, portandolo a prendere un respiro profondo ed inalare l’odore della sua vecchia vita, qualcosa che non avrebbe mai creduto di poter ricordare.
Fu forse quello a distrarlo, l’ambiente familiare, i ricordi del passato, di una vita a cui non sarebbe più potuto tornare.
 
Che senso ha, allora?


Gli sembrava di poter respirare dopo anni, secoli in cui era stato privato di quella semplice quanto necessaria azione. E non era più l’aria solforosa, umidiccia e polverosa dell’Ade. Non c’era il pulviscolo denso delle Sfere di Ermes, o la cenere dell’Area Cani. Non sentiva l’odore soffocante dell’edera e quello ferroso del sangue. Era aria pulita, di bosco, di fiume, di paglia e verdure stufate.
 
«È rassicurante, vero?»
 
Úranus si voltò verso la direzione da cui proveniva quella voce, sorpreso di trovare qualcun altro lì dentro, certo che ogni figlio avrebbe dovuto affrontare la prova del proprio genitore da solo.
Davanti a lui però, che si alzava con lentezza ed un poco di fatica da una sedia mezza nascosta dall’altare, c’era un uomo, un anziano.
Doveva esser stato molto alto da giovane, forse quasi come Úranus, ma la vecchiaia si era poggiata sulle sue spalle, ingobbendolo sotto il peso degli anni. Sembrava robusto però, un uomo a cui non era mancato il cibo ma che probabilmente se l’era procacciato da solo. La casacca scura ed i pantaloni di pelle lo classificarono subito come un cacciatore ai suoi occhi e la cicatrice che s’apriva sulla sua guancia confermava i suoi pensieri.
Aveva un volto gentile, specchio di un animo tranquillo e pacifico.
Ma ciò che forse più sorprese Úranus furono gli occhi, chiari, freddi come il ghiaccio, ingrigiti dalla vecchiaia, dalla fatica, dal tempo. Occhi svegli, acuti, gli occhi di un cacciatore, senza dubbio, ma anche quelli di un cercatore, capaci di riconoscere piante e radici, di scorgere segni dove gli altri non vedevano nulla, scoprire le tane degli animali, leggere l’agguato di un predatore nel leggero muoversi di un ramo.
Úranus ne era sicuro, sapeva per certo che quella era stata la vita dell’uomo, perché il suo sguardo era identico a quello che aveva sua madre nei suoi ricordi.
 
«Tornare a casa è sempre ciò che bramiamo di più.» continuò lui avanzando con calma, spostando con un po’ di difficoltà la gamba destra.
Scorse subito lo sguardo di Úranus e sorrise annuendo. «Una delle mie ultime battute di caccia. Mio nipote mi aveva pregato di rimanere in casa e lasciar andare solo lui e suo padre, ma fui testardo, volevo un’ultima avventura.» disse battendosi la mano sulla gamba malandata. «Sono caduto. Davvero deplorevole per un cacciatore, avrei preferito fosse una bestia, avrei potuto raccontare storie fantastiche. Un racconto eroico.»
Úranus annuì a sua volta, a corto di parole. «Certo.»
«Ti ho forse sconvolto?» chiese l’uomo ridendo. «Non sono morto per questo, se è ciò che ti stavi domandando. No, Thanatos è venuto a farmi visita quando riposavo nel mio giaciglio, dopo esser sopravvissuto a molti più inverni di quanti me ne sarei aspettato. Con una compagna amorevole, quattro splendidi figli, molti nipoti in forze ed in salute.»
«Ne sono lieto per voi.»
«Grazie. Anche se non ho avuto una morte eroica come la tua.»
A quello Úranus drizzò la schiena attento. «Conoscete le ragioni della mia morte?» domandò guardingo.
L’uomo fece un cenno con il capo. «Nostro padre me ne ha parlato.»
Oh, quindi anche lui era un figlio di Fobetore.
A quella rivelazione Úranus lo guardò con più attenzione, curioso di scorgere qualche somiglianza, qualcosa che lo legasse a suo- loro padre. Era la prima volta che si trovava davanti ad un altro figlio degli incubi.
Ma qualcosa in quella frase lo fece crucciare.
«Siete un figlio di Fobetore anche voi?»
«Esattamente.»
«Perché- per quale motivo nostro padre vi avrebbe parlato di me? Ha cresciuto anche voi?»
L’uomo alzò la mano con lentezza. «Te ne prego, non darmi del voi, puoi chiamarmi Elskadur.»
Úranus rimase interdetto da quel nome, palesemente islandese, incerto se doversi presentare o meno visto che l’uomo conosceva la sua storia.
«Siete- non sei un concorrente, vero?»
L’altro scosse il capo. «No, non lo sono. Ho vissuto la mia vita in modo pieno e gioioso. Ho sofferto, affrontato periodi di grande difficoltà, ma non ho alcun rimorso, solo… solo un rimpianto e una promessa da mantenere.»
Úranus non sapeva cosa fare, così attese paziente che l’uomo continuasse.
«Anni ed anni addietro, promisi a mia madre che un giorno, quando sarei giunto nella terra dei morti, avrei cercato una persona a lei cara, qualcuno che non ho mai avuto la possibilità di incontrare ma a cui devo tutto. Devo la vita. Il mio rimpianto è di non averlo mai conosciuto.» sorrise, avvicinandosi sino a fermarsi di fronte a lui. «Non averti mai conosciuto in vita.»
«Me?» chiese Úranus stupito.
Elskadur sorrise ancora più ampliamente. «Che bisogno aveva nostro padre di raccontarmi come hai lasciato il nostro mondo, fratello?»
«Per metterti in guardia da-» iniziò fermandosi subito dopo.
Che sciocco, che stupido. Era così palese ed ovvio.
L’anziano rise bonario, un suono basso e vibrante che scaldò il cuore di Úranus come poche cose erano riuscite a fare in tutta la sua esistenza.
«Ti devo la vita, fratello. Sia io che nostra madre.» continuò senza smettere per un momento di sorridere. «Sei riuscito nella tua missione, nostra madre è scappata, è giunta sino ad un villaggio sulla costa, nostro padre l’ha scortata fino a lì, in un luogo sicuro. Era questo il tuo desiderio per noi, rammenti?»
Úranus lo fissò a corto di parole, uno spiacevole pizzicorio agli occhi lo costrinse a strofinarli con la mano e quel gesto non fece che scaturire altre risa da parte di Elskadur, che gli poggiò una mano sul braccio con cui si copriva il volto, prima di tirarlo a sé, abbracciandolo con fermezza.
«Grazie, fratello. La tua morte è stata dolorosa ma onorevole. Nostra madre mi chiese di vivere anche per te ed è ciò che ho fatto. Ho vissuto anni meravigliosi, le mie più grandi vittorie e gioie sono state dedicate al tuo ricordo. Il mio primo figlio porta il tuo nome, ben tre dei miei nipoti portano il tuo nome!» rise di nuovo battendogli la mano sulla schiena.
Sciolse l’abbraccio e gli prese il volto tra le mani. Mani rugose, callose, vecchie, forti e calde.
 
Vive.
 
«Era tutto ciò che desideravo.» si risolse a dire Úranus, con un filo di voce tremante.
Elskadur lo sapeva, glielo poteva leggere negli occhi freddi e limpidi come il ghiaccio, come sarebbero diventati i suoi se anche lui fosse riuscito ad invecchiare, se il destino non fosse stato così crudele.
«Nostra madre è rinata, so che ti ha cercato, quando è giunta in queste lande, ma non è mai riuscita a trovarti. Lasciò un messaggio per me e la guardia rossa me lo consegnò al mio arrivo. È rinata secoli addietro, forse hai incontrato il suo nuovo spirito camminando nei Campi Elisi, forse hai parlato con lei e siete divenuti amici.»
Úranus tirò su con il naso, ridendo al suono che produsse e allo sguardo dolce di suo fratello, di suo fratello minore, che era riuscito a nascere, che era sopravvissuto, aveva vissuto una bella vita, era stato felice ed era morto in pace. 
«Perché tu sei ancora qui? Non sei rinato?» domandò curioso.
Elskadur mosse la testa come se volesse negare ma non potesse farlo completamente.
«L’ho fatto in realtà, questa è la seconda volta che mi trovo dentro queste mura.»
Il fratello sgranò gli occhi, ora confuso. «Come puoi essere qui per la seconda volta ed avere memorie di me? Della tua vita passata, di nostro padre e nostra madre-»
«Proprio per merito suo.» spiegò con semplicità. «Sono nato e morto due volte, sono giunto nei Campi Elisi entrambe. La seconda sono nato in una cittadina della Turchia che ora non esiste più, e ricordo quella vita, la ricordo con affetto. Ricordo altri genitori, fratelli, amici, amori, figli e nipoti. Ma quando varcai per la seconda volta quelle porte, nostro padre mi fece visita e mi permise di ricordare ancora. Sai cosa succede quando rinasciamo, fratello?»
Úranus scosse la testa, il volto ancora stretto tra le mani di Elskadur, e l’uomo gli spiegò ad agio: «Quando nasciamo per la prima volta un capo di un filo viene tirato dal filo dei nostri genitori. Ma al termine di quella vita, se decidiamo di tornare sulla terra dei mortali, vengono presi due nuovi capi, provenienti da due diversi esseri, e vengono intrecciati fittamente attorno al nostro precedente filo.
Non cessiamo mai di essere chi eravamo prima, le nostre azioni, i nostri peccati e le glorie, tutto segnerà cosa saremo in futuro, traccia una linea che ci sarà da guida in quella nuova vita.
Nulla viene cancellato o distrutto, muta solo il suo aspetto.
Nostro padre ha fatto sì che i fili della mia seconda possibilità si allentassero e che l’anima centrale del filo, per quanto vecchia e malandata e lavata nel Lete, tornasse ad esser vista.
Avevo un solo rimpianto, un solo desiderio da realizzare e lui ha fatto sì che potessi adempiere al mio dovere fino alla fine.»
Úranus batté velocemente le palpebre, il volto di suo fratello si sfocò, le lacrime che si erano aggrappate così ferocemente alla rima dell’occhio cedettero, scivolando sulle guance, bagnando le mani di Elskadur.
«Ti ha fatto ricordare- ti ha fatto ricordare per me?» domandò con voce fine, quasi un pigolio, così in contrasto con la sua figura grande e forte.
L’ansiano gli sorrise, annuendo soddisfatto. «Mi ha fatto ricordare per te. Per permettermi di conoscere l’uomo che permise la mia esistenza, la mia nascita. Per esaudire l’ultimo desiderio di nostra madre. Mi ha fatto ricordare affinché questa volta sia io a salvare te.»
Quelle parole, per quanto fraintendibili, suonarono chiarissime alle orecchie di Úranus che non poté far altro che ridere, singhiozzando felice prima di stringere le braccia attorno a suo fratello, aggrappandosi a lui come non aveva mai potuto fare, facendogli scudo dal mondo come gli era stato negato in vita.
«Estia è misericordiosa, fratello. Non tutti gli Dei approvano questa gara, ma tra coloro che la supportano, alcune anime gentili, faranno in modo di saldare i debiti, di dar finalmente giustizia a chi non ne ha avuta in vita.» spiegò carezzandogli i capelli, sostenendolo in quel pianto liberatorio che si era costretto a tener per sé per tutti quei secoli. «La divina Estia concede la rinascita a coloro che non vorranno continuare la sfida. Concede la rinascita-» disse allontanandosi un poco da lui, riprendendogli il viso tra le mani, «- al fianco di coloro che hanno amato. Potremmo essere finalmente fratelli, nostro padre me lo ha giurato.»
Úranus annuì, le labbra serrate nel tentativo di non far rumore, di non lasciare che i suoi singulti rimbombassero per quella cattedrale vuota e luminosa.
«Potremmo tornare a casa, certamente una casa nuova, con nuovi volti e nuovi nomi, ma saremmo assieme, fratelli, come c’era stato promesso una vita fa. Vuoi tornare a vivere con me, Úranus?»
Le lacrime continuarono a scendere prepotenti sul suo volto ma, infine, sorrise.
 


 
*
 



«Ci sta mettendo tanto quanto me?» chiese Jonas sospirando, seduto sul primo gradino del tempio di Fobetore, con le gambe lunghe distese davanti a sé, facendo scontrare pigramente le punte rinforzate degli scarponi.
Erano pesanti quei dannati cosi, come faceva Nathan a correre, lottare, anche solo camminare?
Di fianco a lui Cade si era invece disteso, usando la sacca come cuscino. Aveva tirato fuori il suo coltellino da intaglio e ora se lo rigirava pigramente tra le mani, aprendolo e chiudendolo senza prestagli troppa attenzione.
«Naaa, tu c’hai messo molto di più. Poi sei anche stato interrotto da Jane.»
«Dovresti essere felice che l’abbia interrotto, o sarebbe ancora lì a litigare con il fantasma di sua madre.» rispose piccata la strega.
Jonas storse il naso, sentendosi chiamato in causa ingiustamente. «Non è vero, non sarei ancora lì. E poi quella non era mia madre.»
«Come ti pare, ma c’avresti comunque messo di più.»
Cade ridacchiò, facendo roteare il coltellino e quasi perdendo la presa quando Jonas gli rifilò un calcio sulla gamba, dandogli del traditore per aver riso delle sue sventure.
«Stai attento con quel coltello, non vorrei doverti medicare di nuovo.» lo richiamò Lea, ondeggiando impaziente sul posto, grattandosi l’unghia del pollice con i denti.
«Non c’è problema, mia cara! Abbiamo l’angioletto questa volta, non dovrai curarmi tu!» rispose allegro Cade, indicando con la punta del coltello il greco.
L’uomo sospirò ma si costrinse a sorridere. «Se mi faceste tutti la grazia di non ferirvi e di non obbligarmi ad utilizzare i miei poteri e le mie energie per qualcosa che poteva esser evitato, ve ne sarei incredibilmente riconoscente.»
A quelle parole Jonas si ricompose, tirandosi a sedere dritto ed osservando il figlio di Apollo che attendeva in perfetta immobilità davanti a lui.
«Ti sei ripreso completamente? Lea ti ha curato un po’, ma non abbiamo avuto tempo di farti riposare davvero, come ti senti?» chiese preoccupato, cercando di scorgere un qualunque cenno di disconforto nel volto del compagno.
Cicno gli regalò un sorriso appena accennato. «Ho visto di peggio.» disse solo.
Jonas avrebbe voluto chiedergli altro, insistere affinché, almeno nell’attesa, sedesse e riposasse un minimo, ma proprio in quel momento le porte del tempio si aprirono con lentezza e tutti quanti saltarono quasi sul posto nell’ansia di voltarsi verso l’entrata.
Come era stato per Jonas tutti trattennero il respiro quando dall’uscio scuro emerse Úranus.
Sembrava incolume, senza alcuna ferita o anche solo le vesti sgualcite, più di quanto non lo fossero state alla sua entrata. Ma a Cicno non fu difficile scorgere gli occhi lucidi ed arrossati, delle vaghe tracce bagnate sulle guance. L’impronta ancora calda di due mani ad interrompere quelle scie salate: qualcuno aveva stretto il volto di Úranus tra le proprie mani, che non sembravano appartenere ad un’anima, o non avrebbero lasciato nessuna macchia luminescente. Che fosse stato Fobetore? Aveva forse carezzato il volto di suo figlio, prima di benedirlo e lasciarlo andare per la sua strada?
La mente di Cicno lavorò con velocità e attenzione, ma sapeva perfettamente che c’era un’altra risposta a tutti quei segni, che era la più probabile e che lui non voleva accettarla solo per puro orgoglio.
 
«Allora? Finito? Possiamo levarci dai coglioni anche questa?» domandò seccato Nathan, pur non riuscendo a nascondere un pizzico di sollievo nel rivedere il compagno sano e salvo.
Úranus però non proferì parola, limitandosi a sorridere e scendere ad agio i gradini.
Cade si era spostato, spingendosi dal lato opposto delle scale dove si era spostato Jonas, Lea, invece, fece qualche passo avanti, ansiosa di scoprire cosa avesse dovuto affrontare l’amico.
«Stai bene? Hai rivisto tua madre?» gli domandò allungando istintivamente una mano verso di lui, cercando di raggiungerlo, di toccarlo ed assicurarsi che nulla di male gli fosse accaduto
Ma l’islandese non rispose neanche a lei, prendendo con delicatezza la sua mano per una stretta gentile, rassicurante.
Lea sospirò sollevata, prima che quello stesso respiro le si bloccasse in gola quando Úranus le cinse il volto con le mani e le posò un bacio in fronte, delicato, caldo, una pressione tanto ferma quando affettuosa che non fece altro che riportarle alla mente i baci che suo fratello era solito darle per la buona notte quando era piccola, quando Lea si lamentava che così le avrebbe scompigliato i capelli pettinati ed intrecciati con cura. Quando Giuseppe le ripeteva di godersi quei momenti, che avrebbe rimpianto il giorno in cui non avrebbe più potuto baciarle il capo e rimboccarle le coperte.
 
«Quando sarai troppo grande per queste cose, quando non potrò più trattarti come una bambina, allora sentirai la mancanze del mio bacio della buona notte, Lea, vedrai!»

Ne rideva, lui. Si indispettiva, lei.
Elena non ricordava più l’ultima volta che suo fratello le avesse dato un bacio della buona notte, ma quello di Úranus aveva lo stesso, identico sapore.
 
«Úranus?» sussurrò piano, gli occhi lucidi pur non sapendone il motivo, decisa ad ignorarlo così come Cicno.
«Per questi giorni, per queste settimane, dopo secoli di solitudine, sei stata la migliore amica che la vita e la morte mi hanno concesso. Sei divenuta mia sorella e a te va tutto l’amore che sono ancora in grado di provare. Vorrei poter vedere la tua vittoria, vorrei poter vedere quella di tutti voi, e forse mi sarà concesso, forse un giorno ci ritroveremo ancora su questa terra, ma- ma per me non c’è più nulla ad aspettarmi nel mondo dei vivi, nessuno che aspetti Úranus, ed io so, Elena, che gli Dei mi siano testimoni, che mai sarei in grado di far del male a nessuno dei miei compagni, soprattutto per ciò che c’è per me lassù.»
Poggiò la fronte contro la sua, mormorando piando quelle parole così veritiere da esser quasi liberatorie.
Úranus non sarebbe mai potuto arrivare fino alla fine, non avrebbe mai potuto combattere contro nessuno di loro, non contro quelli che nel corso di quel tempo indeterminabile erano diventati una compagnia, un gruppo, un qualcosa a cui era finalmente appartenuto.
Perché viaggiare e combattere al fianco di quei sette individui era stato come sentirsi finalmente accettati, capiti, apprezzati. Per la prima volta aveva conosciuto persone come lui, semidei che non avevano paura di lui, che pur temendo i suoi poteri credevano, sapevano, che Úranus poteva controllarli, che non avrebbe fatto loro del male.
Ed Úranus non avrebbe mai tradito quella loro certezza.
Lasciando andare il volto di Lea le sorrise pieno d’affetto, gli occhi scintillanti come il ghiaccio che si scioglie, colpito dal Sole accecante e caldo che si riflette sulla superficie trasparente.
Spostò lo sguardo su Nathan, fermo immobile senza parole, la mascella contratta, le labbra serrate. Lo vide battere velocemente le palpebre e fare un unico cenno d’assenso.
Vicino a lui Eliza invece si mosse, prima a tratti, poi con più fluidità. Gli si avvicinò e gli porse la mano, stringendola con fermezza prima di coprirla anche con l’altra.
«Che Nike ti assista nella tua nuova vita. È stato un onore combattere al tuo fianco, seppure per un tempo così breve.» disse con una nota d’ufficialità che fece sorridere l’islandese.
«Grazie a te, Elizabeth.»
Quando lasciò la mano di Eliza fu quella di Cade a serrarsi alla sua, prima che il giovane lo tirasse giù verso di sé, per abbracciarlo con forza.
«Non possiamo proprio farti cambiare idea, vero Golia?» domandò con voce soffocata contro la spalla del compagno.
Úranus sorrise. «No, folletto irlandese, non c’è nulla che possa farmi cambiare idea. Mi è stata concessa una seconda possibilità, con coloro che amo, non posso rinunciare e non posso neanche sopportare il pensiero di dovervi combattere. So che puoi capirmi, sono disposto a morire per i miei amici, ma non ad ucciderli.»
«Non si tradisce lo stormo.» borbottò Cade annuendo. «Troverò un modo per far sì che non succeda, ci proverò fino alla fine, te lo giuro. Torna da chi ami.» disse infine tirandosi indietro, asciugandosi qualche lacrima solitaria con il bordo della sua giacca rovinata.
«Torno da mio fratello.» sorrise Úranus.
Cade gli restituì un sorriso ancora più raggiante. «Si torna sempre a casa, alla fine.»
Voltandosi ancora Úranus incontrò lo sguardo attento di Jane.
La figlia di Ecate si avvicinò lentamente, offrendogli la mano proprio come aveva fatto Eliza e allo stesso modo il giovane gliela strinse, ma con una delicatezza ed un’attenzione che forse, in altre circostanza, avrebbero stupito entrambi.
«Fai buon viaggio, Úranus.» gli disse solo, la voce monocorde ma ben udibile.
Úranus annuì. «Pregherò gli Dei affinché tu possa trovare la pace, qualunque essa sia per te.»
Fu poi il turno di Jonas, ma il ragazzino non sapeva cosa dire, cosa fare. Lanciò un’occhiata inquieta a Cade, che ora stringeva Lea che piangeva silenziosamente, e quando il rosso gli accennò solo un sorriso triste Jonas si ritrovò a cercare lo sguardo di Cicno, a cercare appoggio da lui.
A differenza dell’amico, il greco gli fece un cenno con il capo, esortandolo a salutare Úranus, a non privarsi di dire addio a qualcuno che, per ben quattro, lunghe prove, era stato un sostegno, un compagno.
 
Non perdere l’occasione di accomiatarti da qualcuno.
 
E Jonas sentì chiaramente quella frase, la lesse nero su bianco negli occhi freddi di Cicno.
Strinse i pungi solo per prendere forza, per darsi coraggio, poi allargò le braccia e di slancio, quasi come aveva fatto solo poche ore prima con Cade, abbracciò Úranus, stringendolo con forza per la prima ed ultima volta.
«Ora se combinerò un casino con i miei poteri non potrò più dividere la colpa con nessuno, vero?» forzò una battuta ostentando tranquillità, ma il modo in cui tirò su con il naso lo tradì miseramente.
Úranus però non vi badò, ricambiò l’abbraccio domandandosi se quella sarebbe stata la stessa sensazione che avrebbe provato, in vita, se fosse riuscito a scappare con sua madre, se avesse visto crescere suo fratello.
Lo strinse un po’ più forte solo per imprimersi in mente la sensazione, prima che ogni suo ricordo fosse cancellato, prima che il suo filo fosse di nuovo filato.
«Potrai dare la colpa a Jane, adesso anche lei sta diventando sempre più capace nel domare i suoi poteri.»
«Ehi! Vedi di non dargli strane idee!» lo rimproverò la strega guardando male entrambi.
Qualcuno ridacchiò, ma il suono era lacrimoso, bagnato.
Jonas prese un respiro profondo e diede un paio di pacche sulla schiena del compagno, allontanandosi poi da lui.
«Lo terrò a mente, grazie. Spero che la tua nuova vita sia magnifica e lunga. Spero tu sia felice.»
Il sorriso di Úranus valse più di mille parole, ma ugualmente rispose. «Lo sarò. E prego lo stesso destino anche per te.»
A quel punto non rimaneva che Cicno ed il figlio di Fobetore si voltò verso di lui, guardandolo negli occhi senza più alcun timore in corpo.
«Che Tiche ti assista nel tuo nuovo viaggio, figlio degli incubi. Possa la tua anima tornare a splendere e vivere. Hai portato onore al tuo nome, a tua madre e a tuo padre.»
Pronunciò quelle parole con lentezza, in modo molto più solenne rispetto ad Eliza, come se stesse recitando un antica formula di benedizione.
Úranus prese un respiro profondo, gonfiando il petto e annuendo.
«Che Tiche assista anche te, figlio del Sole, e che possa la tua anima trovare finalmente pace. Ti prego solo di proteggerli e guidarli, finché ti sarà possibile.» chiese con voce morbida, quasi gli stesse facendo una confidenza.
Cicno annuì. «Queste erano le mie intenzioni.»
«Grazie.»
«Grazie a te. Buona rinascita.» sorrise infine, inclinando leggermente il capo in un inchino lieve.


«Ehi.»
Úranus si girò a quel richiamo, osservando Nathan avanzare a passi decisi, marziali, verso di lui, per porgergli la mano con espressione dura.
L’islandese l’afferrò senza esitare, stringendola saldamente così come fece l’altro.
«Capisco perché lo fai. Non sarei mai in grado di farlo, di ritirarmi. Ma lo capisco.»
«Perché sei figlio di Ares, voi combattenti non vi arrendete mai, fino alla fine. Non vi ritirate.» gli sorrise comprensivo.
Nathan annuì. «No, non lo facciamo. Non lo fanno neanche i soldati e non lo fanno neanche i marines. È stato bello però conoscerti, Golia, è stato un onore conoscere qualcuno che si è sacrificato per salvare altri. È l’onore più grande di tutti. Se rinascerai davvero assieme a tuo fratello, beh, goditela, non ci sono più le persecuzioni di sopra. Non nei paesi civilizzati per lo meno, e se ti fanno tornare dove sei nato, stia sicuro che non avrai più di questi problemi.» disse convinto.
Úranus si fece scappare un sorrisetto, nascosto dalla barba folta. «Un modo bizzarro per incoraggiarmi, ma grazie. Spero che anche voi possiate trovare ciò che più conta. Farò il tifo per ognuno di voi.»
Fu il turno di Nathan di ghignare. «Questo è molto moderno, Golia, cazzo, ti ho passato un po’ di slang?»
Il giovane rise, dando una pacca sulla spalla al soldato. «Forse, Nathan, forse. Spero mi sia utile nella mia nuova vita.»
«Imparerai. I mocciosi delle elementari sono dei veri stronzetti, la quantità di cose inopportune che riescono a dire è preoccupante, figurati se non impari frasi più semplici.» rise anche lui, poi tornò più serio. «Per una volta, è bello perdere un compagno sapendo che andrà veramente in un luogo migliore, che sarà finalmente felice. Buona fortuna, amico.»
Il giovane gli strinse ancora la mano, «Anche a te, fratello.»
Con quelle parole i saluti erano finiti.
Úranus guardò un’ultima volta tutti i suoi compagni, che lo osservavano tristi, scossi, alcuni cercando di farsi forza, altri fingendo indifferenza, o senza neanche provare a trattenersi.
Sorrise loro e non si sorprese quando Lea si staccò dal fianco di Cade per abbracciarlo un’ultima volta.
«Fai buon viaggio, Úranus.» gli disse piano.
«Anche tu Lea e non dimenticare mai della piccola luce che hai in te.»
«Spero potremmo incontrarci ancora, in un'altra vita. Mi piacerebbe essere tua amica ancora una volta.» confidò solo a lui.
Úranus sorrise e le baciò un’ultima volta il capo, «Bless.»
 
Quell’ultima parola Lea non riuscì a comprenderla veramente. La magia che aveva permesso loro di capirsi per tutta la durata del viaggio sembrava essersi esaurita, ma in cuor suo la giovane sapeva che quelle poche lettere erano un addio.
 
Così Úranus si accomiatò dai suoi compagni, dai suoi amici, da quelle anime perdute, benedette, dannate, che erano state in grado di farlo sentire accettato, apprezzato, giusto.
Si fermò davanti alla porta del tempio e guardò quelle sette anime per l’ultima volta, augurandosi di poterlo fare ancora, sotto altre vestigia, in una vita semplice e felice, priva dei dolori e delle difficoltà che avevano colto tutti loro, augurandogli silenziosamente d’essere finalmente liberi un giorno.
Quando in fine rientrò nel tempio, ora più luminoso che mai, suo fratello lo attendeva davanti al braciere, il volto che ringiovaniva lentamente, finché non fu un bambino quello che gli porse la mano, sorridendo.
«Andiamo, fratellone?» chiese con voce delicata e gentile.
La sua mando scompariva in quella di Úranus, sarebbe stato bello poterla stringere per sempre, poterla sentire crescere contro la sua fino a diventare la presa salda di un uomo, dell’uomo che Elskadur era poi diventato. Se l’era persa, quella trasformazione, ma a quanto pare suo padre gli aveva appena concesso la grazia di poterla ugualmente sperimentare.
 
Come sarebbe dovuto essere. Vederti crescere, aiutarti a crescere, sino a vederti allontanare per la tua strada. Ora potremmo farlo assieme.
 
Sorrise.


«Sì, andiamo.»
 
 
Una luce calda e avvolgente si sprigionò dalle loro mani giunte, fino ad inondare tutto il tempio e poi scomparire in un leggero bagliore roseo e freddo, come l’alba di un nuovo giorno.

Nel focolare spartano le braci incandescenti presero fuoco.
Fobetore poggiò le mani ai lati dell’altare, abbassando la testa verso le fiamme, lasciando che qualche lacrima scivolasse verso i tizzoni ardenti, scomparendo in uno sfrigolio.
Lasciar andare i proprio figli era sempre la cosa più dura che potesse fare, ma era così che doveva essere e questa volta giurò a sé stesso che avrebbe dato ad entrambi la vita che meritavano. Assieme.
Con un ultimo sguardo triste ai tendaggi che adornavano il suo tempio e alle finestre illuminate a giorno, Fobetore salutò i suoi più antichi e amati figli.
 
 
Bless.
 


 
*
 



Un foglio vibrò impercettibilmente, ma tanto bastò all’uomo per attirare la sua attenzione, gettandovi un’occhiata di traverso prima di sollevarlo.
Sulla pagina una serie di colonne erano divise da linee tracciate a mano, che segnalavano l’inizio di una nuova lista, ognuna sotto il nome del loro coordinatore. Alcune di queste mancavano di diversi spazi, righi vuoti che avevano ospitato nomi di anime scomparse per sempre o forse rinate. Uno di quei nomi scomparve lentamente da una lista ancora integra, luccicando lievemente per poi disperdersi nell’aria come pulviscolo.
Con la mano libera l’uomo si tolse il sigaro dalla bocca e ne batté la punta sul bordo di un posacenere di vetro, l’espressione impassibile, quasi disinteressata: per quante ne scomparissero, nessun’anima era davvero essenziale.
Poggiò il foglio di nuovo sul piano, riportando il sigaro alle labbra, prendendo una profonda boccata e rilassandosi contro lo schienale della sedia, gli occhi scintillanti puntati verso la porta con due maniglie dal lato opposto della stanza.
Attendere non era un problema per lui.
 
 
 
Nel dedalo di corridoi coperti da scaffali il rumore di sabbia frusciante era ininterrotto, come una pioggia perpetua, un vento implacabile, una corrente immortale.
Allineate con precisone le une vicino alle altre le clessidre lasciavano scivolare i loro granelli da una pancia all’altra, muovendosi secondo un tempo che solo loro conoscevano.
Una clessidra finita si mosse d’improvviso, oscillando fin a capovolgersi completamente, la sabbia accumulata sul fondo, ormai grigiastra e polverosa, riprese a scorrere fluida, veloce, bianca ed immacolata, dando il via ad un nuovo tempo.
 

 
Mani veloci dalle dita magre e appuntite si mossero senza posa sull’arcolaio, con le punte fini e nodose come le zampe di un ragno afferrarono un vecchio filo, tirandolo per inserirlo di nuovo nella rota e filarlo ancora.
Altre mani presero due fili indipendenti, sciogliendone un capo ciascuno per passarlo nelle mani da ragno, che fissarono anche quelli alla rota.
Qualcuno premette un pedale ed ogni pezzo iniziò a muoversi, girando su sé stesso, permettendo alle mani da ragno di filare il vecchio filo assieme ai capi nuovi, coprendolo così di una nuova vestigia, senza però intaccarne l’anima.
Il filo venne rinnovato velocemente, prima che qualcuno lo tagliasse alla lunghezza che reputava più opportuna e lo passasse ad altre mani.
 
Il nuovo filo scivolò facilmente nel telaio, la spola corse da un capo all’altro del filato, aggiungendolo alla trama più vecchia del mondo.
 


 
*
 
 


Le porte si richiusero per la seconda ed ultima volta. Nessuno proferì parola però, tutti in attesa che succedesse qualcosa, che vi fosse un segnale che lasciasse loro capire che Úranus era definitivamente rinato.
Non sapevano bene cosa aspettarsi ma quando una lampo di luce filtrò da sotto il tetto spiovente, forse passando da delle finestre, ebbero tutti la conferma definitiva: il loro compagno era scomparso.
Lea continuò a fissare la porta, incapace di accettare il fatto che proprio il suo primo amico avesse scelto d’abbandonare la gara, che fosse stata lei a perdere qualcuno.
Era un pensiero egoistico e forse anche un po’ crudele, tutti quanti loro si erano affezionati ad Úranus, ma la verità era che lei aveva intrapreso quel viaggio assieme all’islandese sin dalle prime battute, da quando avevano firmato un contratto con il loro stesso sangue, quello che credevano di non aver più da secoli.
Qualcuno le posò una mano su una spalla, richiamandola al presente. Cade le sorrise rammaricato, annuendo come a volerle dire che lui capiva, sapeva perfettamente cosa si provasse a perdere un compagno.


«Vuoi un attimo? Ti vuoi sedere?»
L’italiana lo guardò con espressione persa, annuendo piano per poi scuotere la testa.
«No, io- non lo so. Se n’è davvero andato?» chiese debolmente.
Eliza le si avvicinò, strofinandole il braccio per darle un minimo di conforto.
«Sì Lea, se n’è andato davvero. Credo non si fosse deciso prima a rinascere perché aveva paura di perdere sé stesso. Ma dopo le prime cinque prove, dopo aver avuto la possibilità di ritornare assieme al fratello, penso abbia fatto la scelta più giusta.»
Lei annuì ancora. «Non riesco a pensare che non lo rivedrò più. Abbiamo iniziato assieme, abbiamo affrontato tutte le prove assieme…»
«Perdere un amico non è mai facile.» convenne Cade, «Ma Elza ha ragione, Golia ha fatto la scelta più giusta per sé.»
La figlia di Nike guardò il rosso assottigliando lo sguardo, incredula che anche in un momento del genere potesse trovare il coraggio di scherzare in quel modo.
«Ti pare il momento?»
«Cosa? Che ho detto sta volta?» chiese lui innocentemente.
«L’hai chiamata Elza.» rispose Jonas senza neanche riflettere.
«Oh, bene, e poi sarei io il traditore?»
«Ho solo detto la verità!»
«Potreste rimandare il vostro battibecco a più tardi?» domandò Eliza alzando gli occhi al cielo.
«Ma se hai cominciato tu!»
«Hai iniziato tu!»
La risposta simultanea dei due fece sorridere Lea, che tirò su con il naso ancora, strofinandosi gli occhi con il polsino della camicia, rimanendo quasi incantata dal modo in cui le sue lacrime, quelle di un’anima, s’allargassero velocemente per il tessuto impolverato.
Non voleva piangere, le sembrava così sciocco. Úranus era rinato insieme a suo fratello, quello che non aveva mia avuto la possibilità di veder nascere, la persona per cui era morto.
Lei ed il figlio di Fobetore non erano poi così diversi, l’aveva pensato più di una volta durante la gara: erano entrambi morti per salvare qualcuno più debole di loro, qualcuno indifeso. Solo che Úranus era morto per suo fratello, Lea era morta andando contro i suoi ordini.
Chiuse gli occhi, reclinando indietro la testa ed espirando con forza, cercando di ritrovare un minimo di energie, di non pensare ad una ferita così fresca, che non si aspettava minimamente di doversi curare così presto.
Il chiacchiericcio di sottofondo dei suoi amici era come un balsamo, una nenia rincuorante che le ricordava di non esser sola, che sì, forse aveva perso il primo compagno che aveva trovato nella morte – quanti anni erano passati? Per quanti decenni aveva camminato per quelle vie lastricate? – ma non aveva perso tutti gli altri.
 
Per ora. Non ancora.
 
Un’altra mano gli si strinse per un attimo sul polso. Fu un tocco veloce che bastò a farle aprire gli occhi e cercare chiunque l’avesse sfiorata.
Si ritrovò ad osservare il profilo di Nathan, dritto ed impettito di fianco a lei, a fissare le porte chiuse del tempio di Fobetore come Lea stessa aveva fatto per quelli che le erano parsi interminabili minuti.
 
«Ha fatto la scelta giusta, lo sai, sì?» chiese lui a bassa voce.
Lea strinse le labbra ma annuì. «Lo so, è solo la tristezza dell’aver perso un amico. Mi passerà.»
«Non credo, non passa mai. Ma finisci per abituartici, per viverci insieme. Se possiamo chiamarla vita, questa merda.»
Lei sorrise, sbuffando. «No, non lo è. È solo un’ennesima prova.»
«Per uno solo di noi.» disse infine Nathan voltandosi verso di lei, fissandola dritta negli occhi, serio.
Lea annuì ancora, le sembrò che quello fosse l’unico gesto, l’unica risposta che potesse dargli.
«È stata una sua decisione ed è valida. Forse è la cosa più intelligente che uno qualunque di noi potrà mai fare.»
«Hai paura?» non riuscì a trattenersi dal chiedergli.
Nathan ci pensò un attimo, poi scosse il capo. «Non proprio. So per certo che se dovessimo arrivare ad uno scontro diretto sono quello con le più alte probabilità di arrivare in finale.» fece una pausa. «Se Cicno non mi ammazza.»
Lea sembrò sorpresa da quell’affermazione. «Stai seriamente dicendo-»
«Parliamo seriamente: forse fisicamente sono più forte di lui, se fossi armato probabilmente potrei sopraffarlo, ma ricordi la facilità con cui ci ha resi sordi? Sei anche tu una figlia di Apollo, cos’altro potrebbe essere in grado di fare?»
La giovane concordò silenziosamente. «Pensi sia stupido sperare di non riuscire ad arrivare a quel punto?»
Nathan si lasciò sfuggire un verso di scherno. «Più che stupido. Per cosa stai combattendo ancora, allora? Ma ho capito cosa intendi e no, non è stupido sperare di non doverci ritrovare costretti ad ucciderci a vicenda.»
«Ma è quello che succederà.» concluse lei.
Rimasero a fissarsi, senza dir nulla, ascoltando senza davvero prestarvi attenzione le parole degli altri.
Non si resero conto del modo quasi predatorio con cui un paio d’occhi li scrutavano, di come le loro voci erano volate chiare sopra tutte quelle chiacchiere senza senso degli altri.
Cicno distolse lo sguardo e lo puntò insistentemente verso il fondo della via, serrando la mascella e rilassandola ad intervalli regolari.
Aveva appena perso uno dei suoi semidei e si domandava, cercando di mascherare la rabbia, se il suo padrone avrebbe cercato di contattarlo oppure no, se quel piccolo imprevisto avrebbe davvero danneggiato il suo piano o se, come Cicno sospettava, non avrebbe cambiato nulla.
Espirando silenziosamente fece scrocchiare il collo, le ossa che non avrebbe dovuto avere e che invece si erano mostrate in tutto il loro scheletrico splendore solo una prova prima.
Non poteva rimanere a rimuginare sull’anima perduta, non aveva senso e non gli importava neanche davvero, alla fine. Doveva concentrarsi nel portare gli altri al prossimo templio, pregando gli Dei che nessun altro si facesse irretire dalle promesse di Estia.
 
«Mi sono rotta le scatole di stare qui. Se Lea non ha bisogno di riprendersi possiamo andare?»   
Jane incrociò le bracci al petto, innervosita dall’attesa quasi quanto lo era stata di quell’abbandono.
Certo, Úranus era come una scheggia conficcata sotto pelle, capace di rimanere inerme e immobile per giorni senza dar alcun fastidio, ma anche capace di penetrare più in profondità o ferirti ad ogni tocco, eppure in un qualche modo si era quasi abituata alla sua presenza, al fatto che ci fosse un altro essere con un potere oscuro e pericoloso. Che non fosse l’unica strega lì in mezzo.
Aveva gettato la spugna per tornare sulla superficie con un fratello mai visto e Jane si domandò se anche lei non avrebbe rincontrato i suoi genitori, se non le avrebbero proposto la stessa cosa, lo stesso patto.
No, lei non avrebbe accettato. Non avrebbe mai dimenticato cosa quei due luridi individui avevano fatto a lei e alla sua famiglia, non aveva speso secoli a vagare per le Praterie degli Asfodeli, ad allenarsi con la sua piccola, fragile ed inutile magia solo per poi gettare tutto al vento. Neanche per sua madre e suo padre. Era per loro che stava facendo tutto questo, era per loro che stava ricercando la sua giusta e tanto agognata vendetta.
Neanche le loro suppliche l’avrebbero convinta, Jane non voleva neanche pensare a che trucchi avrebbe potuto usare quella Dea, ma non le importava, non le importava nulla.
 
«Jane ha ragione. Per quanto sia doloroso lasciar andare un compagno, ora Úranus è tornato a vivere e a noi spetta invece continuare a combattere.» disse Cicno incitando gentilmente gli altri a muoversi.
Allungò una mano per posarla sul braccio di Jonas e spingerlo con delicatezza verso la loro prossima destinazione. Con l’altra raggiunse la spalla di Cade e gli fece un cenno con il capo.
Eliza annuì drizzando la schiena. «Sì, purtroppo non possiamo fermarci per troppo tempo. Non voglio rischiare di arrivare anche alla prossima prova a spiegazione ormai terminata.»
«Qualcuno ha idea di chi sarà il prossimo?» domandò Jonas voltando la testa per guardare Cicno.
Il greco annuì. «Devono prima terminare le loro prove i figlio degli Dei minori, poi toccherà a noi dei maggiori.»
«Quindi sono io la prossima, vero? Ho questa fortuna sfacciata?» chiese Jane ironica.
Ma Cicno scosse il capo. «No, prima di Ecate viene la divina Nike. Anche essendo la Dea della vittoria lei si accompagna sempre alla Dea Atena, ne è conseguenza, quasi ancella alle volte. Ecate è più indipendente, il suo potere è tale da poter esser sedere subito dopo il trono di Ade e Proserpina.»
«E questo che vuol dire?» domandò Cade camminando all’indietro per poter guardare il greco in volto.
«Nella Sala del Trono dell’Olimpo non siedono tutti gli Dei. Vi siedono gli Dei Maggiori: Zeus, Era, Poseidone, Demetra, Ares, Atena, Apollo, Artemide, Efesto, Afrodite, Ermes e Dioniso. Ade ha il suo scarno nelle sue lande, assieme alla sua sposa, e gli è permesso sedere nell’Olimpo solo durante i concili. Gli altri Dei non hanno un trono se non nella loro dimora. Tolta la divina Proserpina, figlia della divina Demetra e del sommo Zeus, gli altri sono gli Dei principali che governano il nostro mondo, coloro che lo influenzano di più. Ad ognuno di loro un dominio, ad ogni dominio i suoi sudditi, gli Dei che ne derivano e ne fanno parte.»
«Quindi, Proserpina da che parte sta?» domandò Eliza aggrottando le sopracciglia. «E mia madre?»
«Proserpina durante l’inverno è serva del suo sposo, durante l’estata di sua madre. Nike invece si accompagna per la maggior parte ad Atena, come vi ho già detto, ma non di rado è con Ares o con Apollo.»
«La mia?» chiese Jane.
«La Foschia si genera nell’Ade, Ecate è una Dea potente e importante, ma rientra sempre nel dominio del signore di queste lande.» spiegò semplicemente, «Mentre il divin genitore di Cade-»
«Quelle del cielo.» tagliò corto lui. «Quindi la prossima è Nike?» continuò, improvvisamente disinteressato a ciò che aveva portato la sua stessa domanda.
Cicno annuì. «Dobbiamo abbandonare le vie dei templi oscuri e cercarne uno immacolato, fulgido d’oro. Che risplende vittorioso sopra tutti i suoi vicini, ma mai più splendente del tempio del divino Zeus.»


 
Trovare il tempio di Nike si rivelò molto più semplice del previsto.
La struttura era più alta ed imponente rispetto alle case di Pothos e Fobetore, le colonne più larghe, i capitelli fregiati, il timpano adornato dal bassorilievo di una donna su di una biga trainata da cavalli alati, la spada sguainata protesa in avanti, una corona d’alloro a cingerle il capo di profilo.
L’alloro era un tema ricorrente su ogni arabesco, sulle lastre incise delle pareti, sulle porte lucide d’ottone cesellato.
Ma ciò che più attirava lo sguardo, che li aveva condotti con facilità verso la meta, era la statua della donna, protesa in avanti come stesse per spiccare il volo, posta sulla sommità del tempio, che svettava sopra tutti come una bandiera pietrificata nel tempo.
Non aveva braccia, ma ali lunghe e quasi trasparenti, come quarzo traslucido attraverso cui era possibile vedere grazie ad una potente luce che la illuminava da dietro. Ma non c’erano fari o luci puntate contro di lei, la statua sembrava emanare lei stesa quel bagliore, accentuato dalla corona d’oro puro che sfavillava sulle ciocche scure bloccate nel tempo da un vento fantasma.
La sua pelle era dipinta del colore caldo dello zucchero brunito, la veste immacolata e trasparente lasciava intravedere il seno e l’ombelico, la corda che le si stringeva sul torace era anch’essa d’oro, così come lo erano gli occhi spalancati.
 
 
Jonas batté incredulo.
Aveva avuto il vago sospetto d’aver già visto quella statua, quella posa così familiare, ma c’era anche qualcosa di estremamente sbagliato, che cozzava con i suoi ricordi confusi.
 
«Devo ancora abituarmi a sta cosa che le statue sono colorate.» borbottò Cade sovrappensiero.
«È davvero magnifica però.» disse Lea facendoglisi vicina.
«Io L’ho già vista.»
«Anche tu hai questa sensazione?» domandò l’italiana voltandosi verso il ragazzino.
«Già, ma c’è qualcosa che stona.»
«Forse la testa?» chiese ironico Nathan. «È la cazzo di Nike di Samotracia quella, vero?» chiese rivolto a Cicno.
Il figlio di Apollo si strinse nelle spalle. «È una bellissima scultura in onore della Dea Nike, non so dirti se quella è la sua provenienza.»
«Ma l’hanno fatto in Grecia.»
«Ma la mia terra è grande, Jonas, e non sappiamo se sia stata fatta prima o dopo la mia morte.»
Il ragazzo arricciò il naso, un po’ imbarazzato dal non averci pensato. I risolini di Cade non aiutarono il suo imbarazzo e finì così per rifilare un pugno sulla spalla al rosso, che barcollò teatralmente all’indietro lasciandosi cadere di peso contro Nathan.
 
«E che cazzo! Perché devi sempre fare il coglione?»
«Ah! Sono stato ferito! Soldatino, sorreggimi!»
«Col cazzo.» rispose quello acido spostandosi e lasciandolo cadere a terra.


«Sei pronta ad entrare e affrontare la tua prova, figlia di Nike?»
Cicno si rivolse con tranquillità ad Eliza, ignorando completamente il teatrino al suo fianco.
L’americana voltò leggermente il capo verso il compagno, osservandolo di traverso. Annuì.
«Vorrei poter dire di essere più pronta di quanto non lo sia davvero, ma un po’ di sana ansia è sempre utile.»
«La paura tiene la mente attiva.» convenne lui. «Cosa temi?»
«Chi mi apparirà. Ho già visto mio padre, dubito me lo faranno rincontrare ancora, mi ha già dato la sua benedizione. Non ho nessun altro.»
«I tuoi compagni d’arme?»
Eliza scosse il capo. «No, non avrebbe senso, non mi riconoscerebbero, non come sono ora.»
Cicno la guardò curioso, inclinando la testa come un gufo. «Non sei forse morta in battaglia?»
«Sì, certo.»
«Allora il tuo aspetto è esattamente lo stesso di quando ti hanno vista per l’ultima volta.»
«Non verrebbero qui per me. Non avrebbe senso porli davanti ad Eliza. Nessuno di loro mi incoraggerebbe a rinascere, probabilmente sarebbero troppo scioccati per farlo.»
Il greco la guardò pensieroso, in silenzio, ed Eliza rimase in attesa di quella domanda, del perché implicito lasciato nell’aria. Ma Cicno, come fin troppo spesso accadeva, la stupì.
«Allora incontrerai tua madre, o qualcuno che lei o la divina Estia avrà reputato giusto di contrapportisi in questa prova.»
Lei lo guardò senza parole, battendo le palpebre confusa. «Non-»
«Non è affar mio. Se vorrai raccontarmi la tua storia sarai liberissima di farlo, ma non ti chiederò mai nulla. Chiedere significa condividere.»
«E tu non vuoi condividere la tua, di storia.» concluse lei.
Cicno tirò le labbra in un sorrisetto divertito. «Non voglio spaventare i bambini.» disse accennando con il capo a Cade, ancora a terra, e Nathan e Jonas che sembravano fin troppo esasperati dalla situazione.
Lea se ne stava poco distante da loro, fissandoli senza vederli davvero, persa nei suoi pensieri. Jane invece si era già seduta, le gambe ossute nascoste sotto la gonna sporca e ora più corta del dovuto.
Lei fissava loro due invece, come un corvo in attesa di veder la sua preda muoversi. Non disse comunque nulla, rispettosa di quel momento necessario ad Eliza per raccogliere il coraggio ed affrontare la sua prova.
Annuì però, come a dargli il suo benestare, ed Eliza si ritrovò a sorriderle.
Jane continuò a fissarla senza battere le palpebre. «Tu di certo sei quella che potrebbe finire prima di tutti. Se continuano a discutere come tre infanti andrai e tornerai prima che se ne accorgano.»
«Molto probabile.» concordò Cicno.
Eliza invece scosse il capo, aveva perso un po’ le speranze con i più giovani della loro compagnia.
Gettò uno sguardo a Lei e poi al fratello. «La terrai d’occhio tu?»
«Non posso aiutarla in alcun modo, vegliarla è l’unica cosa che mi è concessa.»
«Bene.» disse lei soddisfatta. «Se a qualcuno di voi interessa sto per entrare ad affrontare la mia prova!» gridò poi verso i suoi compagni.
I tre si voltarono tutti in sincrono verso di lei, sorpresi.   
Cade si sbrigò ad alzarsi da terra, pulendosi le mani sui pantaloni ancor più sporchi.
«Pronta a partire, Elsa?» gli chiese sorridendo.
Jonas si torse le mani, afferrando senza accorgersene il nuovo bracciale di stoffa, sfregandolo tra le dita.
«Buona fortuna.» le disse solo, abbozzando una smorfia che forse voleva essere anch’esso un sorriso.
«Non ha bisogno di fortuna, è la figlia della fottuta vittoria, uscirà sicuramente vincitrice.» affermò Nathan incrociando le braccia al petto.
Lasciò poi uno sguardo veloce a Lea, storcendo il naso nello scorgerla persa nei suoi pensieri.
«Vai e torna in fretta, così arriviamo anche alle altre case e usciamo da questa cazzo di valle dei templi.»
Eliza annuì, guardando un’ultima volta tutti i suoi compagni prima di girare sui tacchi e salire quei sei gradini che conducevano all’ingresso del tempio di sua madre senza mai voltarsi.
Con la schiena dritta e la testa alta Eliza aspettò che le porte d’ottone si aprissero da sole, mostrandole la stessa scena che era riuscita a scorgere dalle prove dei suoi compagni: buio.
Prese un respiro profondo, gonfiando il petto, stringendo i pungi lungo i fianchi per poi rilassare le mani. Entrò con passo deciso e militare, quasi marciando, certa che qualunque cosa l’aspettasse oltre quell’oscurità non l’avrebbe fermata.
 
Le sembrò di camminare per interminabili minuti, avvolta nelle ombre dense del tempio di sua madre, guidata da un percorso obbligato che l’avrebbe portata sino alla sala del focolare, da ciò che aveva raccontato loro Jonas.
Il tempio non poteva essere così grande, per quanto imponente dall’esterno Eliza aveva stimato che parte della sua stazza fosse dovuta al giro di colonne che lo cingeva e che il resto doveva essere ben più piccolo di come appariva. Ma ormai era abbastanza avvezza alle malie degli Dei per sapere che, con tutta probabilità, anche quel percorso lungo ed intricato fosse parte della sua prova: non tentennare, non guardarti indietro, cammina dritta e sicura verso la vittoria.
Fece in tempo a pensarlo, a formare quelle parole nella sua mente, che le ombre si diradarono con lenta costanza.
Eliza rallentò il passo solo per un istante, sapeva in sé che sua madre non avrebbe visto bene un gesto del genere, seppur inconscio. La luce si stava impadronendo di quella che, ora poteva vederla bene, era una semplice sala rettangolare. Sul pavimento chiaro si proiettarono le ombre dei podi su cui erano posti trofei di ogni genere: medaglie, coppe, piatti scintillanti, cinture di cuoio, spille militari, fiocchi e nastri, vasi, corone, armi. Provenivano da ogni epoca, da ogni luogo, Eliza poteva riconoscerne alcune per la loro provenienza, poteva identificare le insigne inglesi, quelle americane, c’erano oggetti palesemente asiatici e altri dalle decorazioni africane.
Sembrava un museo pieno di tutti i possibili premi, i simboli di vittoria, di potere.
 
«Perché è esattamente quello che sono: tutti i trofei che sono stati creati sulla faccia della terra dai mortali.»
 
Eliza non si voltò subito, tenne lo sguardo puntato su di un copricapo di fibre intrecciate e lunghe foglie affusolate tinte da una pasta rossiccia a grana larga.
Nel corso della sua vita aveva sentito la voce di sua madre due volte, ma l’avrebbe comunque riconosciuta tra mille.
Drizzò ancora di più la schiena, sentendo i muscoli dolere per lo sforzo di tenere una posa che già avevano. Girò con tutto il corpo, facendo battere i tacchetti degli stivali, portando in automatico le braccia lungo i fianchi con fare rigiro.
Alla fine della sala, sull’entrata sorretta da colonne che la divideva dall’ambiente dove doveva trovarsi il focolare, c’era una donna alta e slanciata.
I suoi abiti erano di foggia antica, la toga corta ed immacolata cadeva dritta sulle gambe muscolose. Eliza poteva vedere anche da quella distanza i muscoli ben definiti delle cosce, come quelle di un corridore, di una persona dedita all’allentamento, al lavoro. I calzari alti sino al ginocchio parevano rigidi, scintillanti d’oro, su cui erano state incise delle ali. Il mantello che le cingeva le spalle era purpureo, le grandi spille che lo legavano all’armatura, all’altezza delle clavicole erano anch’esse d’oro, così come l’armatura stessa, il busto cesellato su cui erano stati disegnati i seni ed i muscoli del torso.
Sotto il braccio destro l’elmo brillava di luce propria, lucido come uno specchio.
Nike la fissava con espressione neutra, la sua figura pareva più mascolina di quanto non la ricordasse, i muscoli delle braccia flessi erano abbastanza minacciosi di per sé, Eliza sperò vivamente che sua madre non la sfidasse ad uno scontro diretto o non avrebbe mai passato quella prova.


«Non dire sciocchezze, Elizabeth, sarebbe controproducente per me sfidare tutti i miei figli. Anche il migliore di voi non potrebbe nulla contro di me, sono una Dea.»  rispose asciutta a quei pensieri mai espressi.
Con un cenno del capo la invitò a seguirla e poi le diede le spalle, dando per scontato che avrebbe eseguito il suo ordine. E così Eliza fece.
Quando entrò nella sala centrale, la semidea poté subito notare come il focolare fosse già acceso.
Nike pose il suo elmo sull’altare alle spalle del grande braciere fiammeggiate.
 
«Non sei la prima a giungere qui. Avete girato a vuoto, già tredici dei tuoi fratelli sono passati e a te dirò la stessa cosa che ho detto loro.» continuò diretta, senza curarsi di ricevere una risposta, come se non si aspettasse che Eliza parlasse se non interpellata.
 
A meno che non mi venga chiesto di parlare, che non mi si dia il permesso o l’ordine di farlo. Come nell’esercito.
 
«Apprezzo molto il fatto che tu sia ancora legata a quei vecchi insegnamenti, rende il tutto più veloce. Non abbiamo tempo da perdere. Sei mia figlia, noi non perdiamo mai.»
Quella frase suonò terribilmente ridicola alle orecchi di Eliza, ma la giovane non fece alcuna espressione stranita, fermandosi invece nel mezzo della sala, sull’attenti, con le braccia incrociate dietro la schiena.
Nike parve apprezzare anche quello, il volto dai lineamenti scolpiti, quasi statuari, sembrava non tradire nessuna emozione.
Eliza osservò gli zigomi alti, le labbra fini e rosee, il naso dritto, aquilino. Gli occhi dal taglio allungato parevano quasi asiatici, molto più simili a quelli dei popoli dell’est che ai suoi, ma dopotutto, gli Dei erano Greci ed Eliza non aveva la più pallida idea di quali fossero le caratteristiche tipiche dei volti di quel popolo. Aveva solo Cicno come paragone e, in effetti, la forma definita della mascella e degli zigomi poteva esser quasi simile, se li guardava sotto un’ottica più generale.
Ma ciò che, di certo, era assolutamente insolito e quasi inquietante in sua madre era i colore delle iridi: Erano d’oro, oro puro e scintillante, metallico. I capelli scuri, raccolti dietro la nuca, lasciavano completamente scoperto il suo viso, neanche l’ombra di una ciocca oscurava quello sguardo irreale, quasi meccanico.
«Sai perché sei qui.» disse trafiggendola con quegli occhi alieni.
Eliza fece un cenno secco con il capo. «Sì, madre.»
Le parole le suonarono strane, le pareva che la lingua avesse faticato a comporle, come se stesse parlando per le prima volta in un linguaggio straniero.
«Estia vuole che ognuno di noi vi proponga di rinascere a delle più che generose condizioni. Davvero irrispettoso verso tutti voi che siete giunti fino a qui con fatica e sacrificio.» esclamò sprezzante, come se la gentile e caritatevole grazia che Estia offriva ad ogni partecipante la offendesse personalmente.
Forse era così, rifletté Eliza: sua madre era la Dea della Vittoria, superare ogni prova era manifestazione del suo potere, di ciò che rappresentava, ed ora un’altra Dea offriva a tutti i vincitori – per ora – la possibilità di abbandonare la gara, di arrendersi, di perdere.
Probabilmente, se le fosse stato possibile, Nike avrebbe aiutato ogni singolo concorrente a vincere quella gara solo per ripicca alla sua creatrice.
«Hai già ricevuto la benedizione di tuo padre.» riprese a parlare, «Ora hai anche la mia.»
Nessuna luce accecante, nessun gesto solenne: sua madre le aveva appena dato la sua approvazione come se stesse parlando del tempo ed Eliza non se ne trovò affatto stupita.
«Grazie, madre.» disse invece, portando automaticamente la mano al capo per un saluto militare. Aveva fatto quello stesso gesto a suo padre ma ora, con Nike, le sembrava molto più un obbligo, non un riconoscimento grato, com’era stato per Philp.
Era così surreale, aveva davanti la donna, la Dea che l’aveva messa al mondo, la vedeva per la prima volta da quando era morta eppure- non provava affetto, non sentiva nulla se non l’antica sensazione di allerta che aveva provato tante volte in guerra, quando il comandante cavalcava davanti alle file ordinate gridando i suoi ordini, incoraggiando e regauardendo le truppe.
Quella davanti a lei non era tanto sua madre quanto il suo alto generale, Eliza non era lì per una rimpatriata familiare, era lì per ricevere degli ordini ed eseguirli al meglio delle sue capacità.
 
«Sapevo avresti capito.» rispose Nike, accennando un sorriso. «Sono compiaciuta dal fatto che tu sia stata in grado di arrivare a questa conclusione, alcuni dei tuoi fratelli ci sono rimasti male.» continuò sovrappensiero, aggrottando le sopracciglia. «Ma erano ben più giovani di te, venivano da un’epoca diversa e non erano mai stati in battaglia. Posso concedere a dei bambini la delusione e l’incomprensione, anche se sono i miei. Ma non la tollero dai miei figli più maturi.»
D’improvviso nella sua mano comparve una torcia spenta, un bastone lungo quanto l’avambraccio della donna, sulla cui sommità erano intrecciate delle stoffe scure, dall’aspetto bagnato.
Nike avvicinò la torcia al focolare e le diede fuoco, sollevandola poi con disinvoltura, del tutto indifferente al forte calore a cui si era avvicinata.
«Questa è una gara a cui anche il vincitore, arriverà secondo.» disse senza preamboli, già dimentica del discorso precedente. «Non sarai tu o uno dei tuoi fratelli a vincere davvero, tutti voi siete solo un mezzo per il vero giocatore per vincere questa partita. Non mi aspetto che tu prenda l’oro, perché non è mai stato pensato per nessuna anima.»
Eliza la guardò confusa ed anche abbastanza indispettita: cosa voleva dire? Quella non era una gara per le anime? Se nessuno aveva possibilità di vincere, cosa avevano combattuto a fare?
Nike ghignò, un sorriso affilato e impietoso. «Che senso ha gareggiare se non c’è nulla da vincere?» mormorò a bassa voce.
La semidea si riscosse, cercando di appiattire l’espressione crucciata che le si era dipinta in volto.
«Cosa vuol dire tutto questo? C’è un altro giocatore? Un’altra anima?»
La dea arricciò il naso, infastidita. «Non penso potremmo definirla un’anima, è molto peggio, purtroppo per voi. E non ambisce al vostro stesso premio. Ti sarai resa conto ormai che con il passare delle prove il numero di comuni mortali è diminuito drasticamente. Posso dirti con certezza che alla fine di questa gara solo coloro che sono stati benedetti e prediletti da uno di noi rimarranno i gara assieme a voi, ai nostri figli. Solo i nostri servitori più fedeli.
C’è un essere che vuole qualcosa, ma a te non dovrà interessare né ciò che farà né cosa otterrà, non interessa neanche a me.» disse con un verso di scherno, «Molti si schiereranno al suo fianco, alcuni l’hanno già fatto. Chi si veste d’ombra e tutti segue si assicurerà che arriviate dov’è più necessario, su questo non ho dubbi. Sono qui solo per dirti che questa sarà l’unica volta in cui accetterò un secondo posto da uno dei miei figli, che sia tu o uno dei tuoi fratelli.» concluse seria, fissando Eliza dritta negli occhi, costringendola a ricambiare il suo sguardo, affinché capisse l’eccezionalità di quella situazione, di qualcosa che non si sarebbe mai più ripetuto.
L’americana cercò invano di batter le palpebre, sembrava che una forza sterna la obbligasse a non chiudere gli occhi neanche per un istante, finché tra lei e sua madre non apparve la torcia che la Dea teneva in mano.
Cosa stava succedendo? Chi era quell’essere? Cosa voleva dire che voleva qualcosa, che avrebbe vinto lui? Sarebbe tornato in vita al posto di uno di loro? Sua madre non aveva davvero risposto alla sua domanda, era stata evasiva- no, non evasiva.
 
Non le interessa, non le interessa davvero. Vuole solo che la sua progenie vinca. Non le importa neanche chi sarà di noi.
 
«La tua squadra deve arrivare fino alla fine. Anche se ti scontrerai con altri tuoi fratelli.» disse avvicinandole la torcia sempre di più, finché Eliza non fu costretta ad afferrarla per non farsi bruciare il volto.
Allontanò subito l’oggetto da sé, tendendo il braccio di lato, domandandosi se sua madre le avrebbe davvero premuto la torcia fiammeggiante sul viso, senza alcuno scrupolo.
«Faremo del nostr-»
«Devi solo vincere, Elizabeth. Questo è tutto ciò che conta. La vittoria.»
Le ultime parole furono pronunciate con un ardore, con una durezza, una convinzione, che le fecero girare la testa. Sembrava un monito a non deluderla, a non farsi sopraffare, a non perdere.
Non disse altro, la guardò un’ultima volta prima di darle le spalle e riprendere l’elmo, infilandolo con un gesto fluido.
Eliza la vide allargare di colpo le braccia, spingendole all’indietro, come farebbe un uccello pronto a spiccare il volo, ed in un turbinio di scintille d’oro e piume immacolate, sua madre, la Dea Nike, scomparve.
Rimase ferma, a fissare il focolare come una sciocca, imbambolata. Una miriade di puntini luminosi a macchiargli la vista. Le girava la testa.
Sua madre non le aveva riservato neanche una parola di conforto, non le aveva detto che sapeva che aveva tutte le capacità necessarie a vincere. No, le aveva solo detto che questa volta, solo questa volta, la vittoria sarebbe stata d’argento, che sarebbe stato il massimo a cui avrebbe potuto aspirare.
Solo. Questa. Volta.
Eliza abbassò il capo, gli occhi spalancati, cercando di capire cosa fosse successo realmente, quante informazioni sua madre- la Dea Nike, le avesse dato in un brevissimo lasso di tempo e quanto, al contempo, le avesse taciuto.
Non riusciva a provare dispiacere per quell’incontro, non si aspettava nulla da lei se non forse un semplice incoraggiamento. La infastidiva quasi il fatto che non le dispiacesse, che non si sentisse ferita ma solo stralunata, confusa da quell’incontro così surreale, così impossibile.
Era stato tutto vero? O era forse un sogno?
Arrovellandosi su quei pensieri Eliza diede le spalle all’altare e camminò lentamente, scioccata, verso l’entrata del tempio.
Cosa diamine era appena successo?
Di chi stava parlando sua madre?
Sì, si erano tutti resi conto che i semidei erano sempre di più e la gente comune sempre di meno, ma a quanto pare non era un disegno degli Dei, volto a tenere solo i loro figli e rendere la gara più interessante. C’era qualcuno dietro tutto ciò. Non un’anima.
 
Ben peggio, purtroppo per noi.
 
Eliza si fermò davanti alla porta chiusa, la fiamma della torcia accendeva riflessi cangianti contro le lastre di metallo lucido. Non le servì neanche sfiorarle perché si aprissero.
Fece un ultimo passo fuori dall’uscio, la luce dei Campi Elisi le sembrò quasi troppo debole a confronto con l’oro scintillante di Nike.
Fece vagare lo sguardo verso l’orizzonte visibile, i tetti colorati di infiniti tempi di ogni dimensione, di ogni divinità, tutti ammantati da quel dannato pulviscolo scintillante. Poi il vociare allegro e confusionario dei suoi amici, che la chiamavano a gran voce, esultato il suo ritorno.
Eliza li guardò senza vederli davvero. Nessuno di loro avrebbe mai vinto quella gara, nessuno sarebbe mai tornato in vita.
 
In che diamine di trappola si erano cacciati?


 
 
*




Se spingeva lo sguardo verso l’orizzonte riusciva a vedere solo erba. Alta, fine, rigogliosa, del verde più brillante che potesse esistere. Sembrava verde come i gioielli di sua madre, come la veste prediletta di suo fratello. E proprio come il tessuto pregiato l’infinita distesa d’erba ondeggiava al ritmo costante del vento.
Come le acque dei mari, come le correnti che le animavano e mai si fermavano. Gli steli flessuosi si muovevano come la risacca sulla spiaggia, come una bandiera issata sulla cima di una torre. Come i mantelli dei suoi fratelli e dei guerrieri quando galoppavano verso una nuova impresa.
Il bambino rimase fermo in quel movimento, in balia delle onde verdeggianti, con le mani piccole ma già callose tenute aperte a sfiorare le punte fini di quel mare.
Non riusciva a staccare gli occhi dall’orizzonte, dove ogni cosa si sfocava ed un leggero velo azzurrognolo copriva il mondo. Lì andavano ad infrangersi le correnti erbose, proseguendo forse il loro moto all’infinito, sotto il cielo limpido e terso della volta celeste.
Sapeva che se si fosse messo in marcia, camminando assieme al vento, sarebbe arrivato sino ad un grande albero e che se vi fosse salito in cima, se fosse mai riuscito in questa impresa, avrebbe potuto scorgere ogni cosa, tutti gli infiniti prati verdi fino alla fine del mondo, fino alla porta dorata che permetteva l’accesso al luogo da cui era giunto lui.
Si domandava spesso come dovesse essere casa sua, quella in cui era nato, quella dove la donna che l’aveva messo al mondo l’aveva partorito, prima che i suoi fratelli potessero trovarla. Di quella giovane donna rimaneva solo un nome, inciso sul basamento della statua dedicata ai caduti.

Yardena.

Non aveva un cognome, non aveva una famiglia. Ma sua madre gli aveva sempre ripetuto come quella donna si fosse presa cura di lui a suo nome, come l’avesse portato in grembo con attenzione, con amore. Aveva affrontato la gravidanza per lui ed era stata così coraggiosa da affrontare poi il parto da sola, in quella terra lontana e piena di pericoli, conscia che se solo avesse provato a chiamar aiuto avrebbe attirato su di sé anche lo sguardo di coloro che volevano fargli del male.
Yardena l’aveva allevato in sé conscia del suo destino e piena di forza e d’orgoglio aveva portato a termine quell’onore pesante d’oneri.
Ma Yardena era pur sempre solo un’umana e lo sforzo di mettere al mondo un figlio degli Dei l’aveva consumata sino a toglierle ogni energia.
I suoi fratelli erano giunti appena prima che spirasse l’ultimo respiro, ma nulla sarebbe potuto esser fatto e tutto ciò che rimase alla donna fu sussurrare il suo nome.
Sua madre aveva accolto con serietà l’ultimo desiderio di quella giovane anima e quando suo fratello lo aveva deposto tra le sue braccia lei non aveva esitato neanche un attimo a chiamarlo così.
 
«Alphonse!»
 
La voce chiara e potente di suo fratello lo fece riscuotere.
Il bambino mosse appena la testa ma non riuscì a staccare gli occhi dallo scorcio di prato più lontano che riuscisse ad individuare.
Suo padre gli aveva assicurato che una volta cresciuto sarebbe stato in grado di vedere ancora più lontano, di spiare il mondo anche a terre di distanza da dove si sarebbe trovato.
Venne chiamato ancora e a quel punto non poté non girarsi, lanciando un’ultima occhiata malinconica all’orizzonte. Gli sembrava quasi che mancasse qualcosa, che gli mancasse qualcosa.
Espirò pesantemente tornando sui suoi stessi passi, sfiorando le cime degli steli d’erba, sorridendo al solletico che gli provocavano sui palmi.
Davanti a lui due figure si stagliavano in lontananza, in piedi l’una di fianco all’altra sul terrazzo che si affacciava sui campi, circondati dal fitto bosco.
Alphonse non poteva vederli bene in volto da quella distanza, era anche quello qualcosa che sarebbe riuscito a fare solo da grande, ma mentre risaliva la collina, diretto verso il sentiero collegato alla scala di pietra che l’avrebbe portato dai suoi fratelli, quelli lo scrutarono con attenzione.
Il più alto dei due sospirò serrando la mascella, i capelli biondi gli solleticavano il volto come l’erba le mani del bambino. Di fianco a lui l’altro uomo si tolse l’elmo d’oro, posandolo sull’ampio bordo del parapetto.
 
«Ha lo sguardo vuoto.» disse il primo poggiando le mani sulla pietra levigata.
«Hai già dimenticato com’è essere bambini in queste terre, fratello?»
«Una delle gioie più grandi della mia esistenza.» replicò sfidando quasi l’altro a contraddirlo.
Quello non se lo fece certo ripetere. «Forse per te, figlio prediletto del re, ma per lui… per lui non dev’essere facile.»
«Ha tutto ciò che potrebbe desiderare: corridoi infiniti tra cui correre, sale traboccanti di giochi e di libri, maestri colti, spazi sterminati e l’amore di nostra madre. Cosa gli manca?»
«La sua terra, sciocco. Puoi amare il luogo in cui abiti e le sue bellezze, viverci in pace, in armonia, ma arriverà sempre il momento in cui ti renderai conto che quello non è davvero il tuo posto, che quella non è davvero la tua terra natia. Per ogni orfano giungerà inevitabilmente l’attimo in cui sentirà di non avere qualcosa, qualcosa di fondamentale.» parlò a bassa voce, certo che il fratello l’avrebbe sentito ugualmente, anche contro il vento perpetuo.
Il biondo si passò una mano fra i capelli, ricacciando indietro le ciocche più indisciplinate.
«È così che ti senti?»
L’altro si lasciò scappare un verso di scherno. «Anche se te lo spiegassi, non capiresti mai. Questa è casa tua, il trono di nostro padre è tuo, queste lande...» disse con disprezzo. «Ma non sono mie, né di Alphonse.»
Rimasero in silenzio, osservando ancora il bambino finché questo non si fermò, voltando la testa di scatto e sorridendo ampiamente a qualcosa che persino ai loro occhi era passato inosservato.
Dal folto del bosco che costeggiava l’alta roccia su cui s’affacciava il terrazzo apparve d’improvviso un’enorme massa scura che, veloce come il vento, si scagliò verso il ragazzino, lanciandolo a terra senza pietà.
Il bambino però rise, con voce acuta e cristallina, alzando le braccia per coprirsi il volto dall’attacco impietoso del gigantesco lupo che cercava di leccarlo.
Lo sentirono protestare tra un singulto di risa e l’altro, pregare il lupo di smetterla, perché gli stava inzuppando le vesti di bava, ma la belva pareva sorda alle sue richieste, scodinzolando allegra, la coda che fendeva l’aria come un frusta.
L’uomo biondo sospirò sollevato.
«Prima o poi lo ucciderà.» commentò sorridendo.
«Ma come? Nostro fratello non era forse figlio di questo luogo, di questa vita?» lo provocò l’altro ghignando.
Il primo lo guardò male, ma poi si strinse nelle spalle. «Rimane un bambino.»
«Ha undici anni, fratello, rammenti cosa facevamo noi alla sua età?»
«Onestamente? No. Penso d’aver sbattuto la testa tante di quelle volte… molte per colpa tua.»
«Non credo fosse colpa mia il tuo scarso equilibrio.»
«Lo erano i tuoi sgambetti.»
«Questa è la tua opinione.»
«La realtà dei fatti, vorrai dire.»
«La realtà è labile ed opinabile.»
Quel botta e risposta continuò serrato come ogni volta finché il biondo non riportò la sua attenzione sul bambino.
«Cresce a vista d’occhio, lo ricordo così piccolo.»
«Gli umani lo fanno, la loro vita è molto breve se comparata alla nostra. Devono crescere in fretta.»
«Una volta Enny l’avrebbe ferito balzandogli addosso in quel modo.»
Il secondo fece di nuovo quel verso di scherno e scosse la testa. «Avresti mai detto che quella bestia sarebbe mai stata così delicata con un bambino? Che si sarebbe preoccupata di non spaventarlo o di non fargli del male?»
«Non avrebbe potuto spaventarlo neanche volendo. Alphonse non ha paura di nulla, è il suo destino.»
«È destinato a grandi cose, vero, ma anche i più grandi eroi covano un nero bozzolo nel loro animo, Alphonse non è poi molto diverso da noi.»
«Da noi? Da te forse, fratello, ma non da me. C’è qualcosa che temi?»
L’uomo senza elmo lo guardò di sottecchi, il luccichio della brughiera brillò verde nei suoi occhi, «La stessa cosa che temi tu, fratello. La fine.»
Il biondo strinse le labbra ma non negò.
«Gli oracoli hanno parlato di destino, di imprese eroiche, di stelle, di gloria e di distruzione, nel modo confuso e fumoso che solo gli oracoli hanno di predire il futuro. Ma ricorda che una cosa l’hanno data per certa ed è che prima di esplodere, prima che giunga la fine, il nostro piccolo fratello brillerà più di mille astri. E lo farà nell’oro.»
 


 
*



 
Quando Eliza era uscita dal tempio Nathan non aveva impiegato molto a capire che la donna fosse sconvolta da qualcosa e che la prossima ad affrontare la sua prova sarebbe stata Jane.
La torcia che bruciava tra le mani della figlia di Nike era palesemente una torcia olimpica. Eliza non poteva saperlo ma i decori lungo il fusto, cinque anelli uniti tra di loro, che Nathan riusciva a scorgere dalla sua posizione, erano il simbolo moderno delle olimpiadi. Nike aveva affidato a sua figlia il testimone che li avrebbe condotti alla loro tappa successiva. Che quello fosse anche il simbolo di Ecate stessa era solo una curiosa quanto azzeccata coincidenza.
Ciò che lo preoccupava di più però era lo sguardo crucciato di Eliza. La soldatessa sembrava persa nei suoi pensieri, quasi come non fosse lì presente.
Stringendo i pungi Nathan si avvicinò alle scale del tempio con ampie falcate. Avevano perso un compagno, Lea era nello stato che era, l’ultima cosa di cui avevano bisogno era che anche Eliza crollasse, qualunque fosse il motivo.
 
«Che succede? Perché hai quella faccia?» domandò salendo i gradini.
Eliza batté le palpebre un paio di volte, poi voltò finalmente il viso verso di lui per guardarlo in faccia.
«Penso sia stato l’incontro più surreale che io abbia mai avuto in tutta la mia vita. Persino la visita di Thanatos mi ha sconvolto meno.» ammise senza vergogna.
«Sì, ma te stai bene? Ti senti male? Cicno!» chiamò ad alta voce girandosi verso la strada.
Eliza scosse il capo, sistemando la presa attorno alla torcia. «Sto bene.» disse debolmente, «Sono solo-»
«Sotto shock dalla tua faccia.» s’intromise Jonas. Non aveva osato salire le scale come aveva fatto il figlio di Ares, ma si era comunque proteso su di esse, osservando con preoccupazione il volto dell’amica.
«Non era quello che mi aspettavo.» rispose lei, «Non so cosa mi aspettassi, in tutta onestà. Forse nulla. Certo non questo.» continuò battendo ancora le palpebre.
Non si rese neanche conto di quando Nathan la prese per un braccio, sostenendola e facendole scendere le scale lentamente, assistito subito da Cade.
«Piano Elsa, un gradino alla volta.»
«Mi ha chiamato in continuazione Elizabeth, suona davvero male. Preferisco Eliza.» disse a tutti e nessuno.
«Cos’ha?» domandò Jane avvicinandosi, le braccia strette al petto come se quella situazione la mettesse a disagio. 
«È in evidente stato confusionale. Eliza?» Nel vedere la compagna in quelle condizione Lea si era improvvisamente ripresa, la memoria muscolare del suo vecchio lavoro attiva, attenta e preoccupato.
«Ti sente, non è sorda.» grugnì infastidito Nathan facendo sedere l’altra.
Lea lo fulminò. «Eppure non mi ha risposto. Eliza?»
«Pensi che le abbia fatto qualcosa?» domandò Jonas ansioso.
Cade si scostò dalla figlia di Nike, lasciando posto all’infermiera, per passare un braccio attorno alle spalle del ragazzino, rassicurandolo.
«Sono sicuro che ha passato la sua prova, o sua madre non l’avrebbe neanche fatta uscire.»
«Sì, lo penso anch’io.» confermò Nathan, «Ma è sicuramente successo qualcosa.»
Mentre i ragazzi si affaccendavano tutti attorno ad Eliza Cicno la studiò per lungo tempo, prima di schiarirsi la voce per attirare l’attenzione altrui.
«Figlia di Nike, hai per caso osservato tua madre prendere una forma diversa da quella umana?»  domandò con voce ferma, scandendo chiaramente ogni parola.
Eliza alzò la testa verso di lui, i puntini luminescenti facevano sì che Cicno sembrasse avvolto da una nube di lucciole, migliaia di scintille che lo rendevano luminoso. O forse lo era sempre stato?
Annuì solo, mentre la sua mente cercava di recuperare ogni dettaglio, ogni parola detta, sentita, supposta. Come si collegava, ciò che già sapeva, a quello che gli aveva detto Nike?
Non sentì Nathan imprecare e non sentì neanche gli altri chiedergli cosa stesse succedendo.
«Gli occhi dei mortali non sono fatti per vedere la vera forma degli Dei. Se qualcuno osasse anche solo tentare, morirebbe. La luce divina è intollerabile per la vista umana, consuma l’anima come fa il fuoco con l’aria. Ma a noi ormai è rimasta solo quella e sono certo che la Divina Nike non aveva alcuna intenzione di uccidere sua figlia.»
«Quindi? Che diamine significa, che è cieca ora?» chiese Jane, un filo d’ansia ben percepibile nella voce rauca.
Cicno scosse il capo. «No, non penso abbia davvero visto la vera forma di sua madre, come ho detto, la Dea Nike non avrebbe mai fatto qualcosa di tanto sconsiderato, non se le aveva già affidato la torcia. Ma Eliza deve comunque aver scorto un frammento di quella trasformazione. È solo molto confusa, la sua mente sta cercando di comprendere ciò che ha appena visto.»
«Lo deve processare, poi si riprede.» tagliò corto Nathan.
«A chi devi farlo il processo?» domandò confuso Cade.
«A quei due neuroni che ti sono rimasti.»
«Vuol dire che deve capire e assorbire tutto quello che ha visto.» spiegò secco Jonas.
Nathan annuì. «Quello che ha detto il moccioso.»
«Il moccioso è nato una ventina d’anni prima di te, ricordatelo.» gli ringhiò contro quello, trattenuto subito da Cade, che strinse leggermente la presa attorno alle sue spalle per chiedergli silenziosamente di lasciar cadere il discorso.
«La torcia,» disse Lea, ancora inginocchiata davanti ad Eliza, con le mani strette attorno a quella libera della compagna, «perché Nike le avrebbe affidato una torcia?»
«Per indicarci ci è la prossima divinità a cui dovremmo far visita. È il simbolo delle divina Ecate.» spiegò Cicno voltandosi poi verso Jane.
Lei alzò gli occhi al cielo. «Certo. Eliza è fuori combattimento per un po’ e a me tocca incontrare mia madre. Davvero emozionante.»
«Eliza?» chiamò gentilmente il greco. «Devi dare la torcia a Jane, tua madre te l’ha affidata per questo.»
La figlia di Nike lo guardò spaesata, battendo le palpebre nel vano tentativo di far scomparire tutti quei puntini luminosi. Diamine, Cicno brillava davvero tanto, molto più di quanto non facessero gli altri.
Poi aggrottò le sopracciglia.
«Siamo rimasti solo noi.» disse estemporanea. «Solo noi e i favoriti dei nostri genitori.»
Nathan fece scattare immediatamente lo sguardo verso Cicno, trovandolo impassibile, immobile.
Se aveva capito qualcosa di quell’anima, o almeno si voleva illudere d’averlo fatto, era che vederlo inespressivo non era mai un bene.
«Sai di cosa sta parlando.» non era una domanda e Cicno non fece nulla per deviarla.
Annuì. «Lo sai anche tu.» rispose invece.
«Io non lo so, quindi se mi spiegaste cosa significa invece di tenervelo per voi mi fareste un favore.» proruppe Jane infastidita.
«Vuol dire che sono rimasti in gara solo i figli degli Dei e i loro protetti, quindi anime anche mortali che, in vita, hanno ricevuto la benedizione degli Dei stessi.»
«E come fa Eliza ad esserne così sicura.»
«Me lo ha detto mia madre.» rispose lei spostando lo sguardo perso su Jonas. «Mi ha detto che non è un caso.»
«L’avevamo iniziato a notare anche noi, questa è solo una conferma.» disse Nathan serrando la mascella.
«Perché glielo avrebbe detto?»
«Per metterla in guardia, per farle sapere che da ora in poi chiunque incontreremo sarà un semidio o qualcuno con una maledetta benedizione divina. Se becchiamo uno benedetto da mio padre siamo fottuti.» grugnì Nathan.
Allo sguardo interrogativo di Cade rispose però Cicno. «La benedizione del divino Ares consiste nel rendere invulnerabile il ricevente. Vuol dire che non potremmo ferirlo in alcun modo, durante uno scontro.» spiegò, «Ma è anche vero che le benedizioni non durano in eterno.» continuò rivolto al soldato.
«Sei pronto a scommettere che quel sadico di mio padre non abbia rinnovato la sua benedizione o che non lo farà al momento opportuno per rendere tutto più divertente?» lo sfidò alzando un sopracciglio
Cicno alzò invece le mani in segno di resa. «Mai detto nulla del genere. In ogni caso, se la divina Nike ha voluto informare sua figlia di questa informazione vuol dire che presto ci sarà utile. Gli Dei non fanno mai nulla per nulla.»
«Quindi ora cosa facciamo? Cerchiamo la casa di Ecate e preghiamo di non incontrare nessuno?» chiese Cade scettico.
Lea si girò per guardarlo con incertezza, pronta però a dirgli che fino a quanto Eliza non si sarebbe ripresa non si sarebbero mossi di un centimetro da lì, ma fu proprio la figlia di Nike a batterla sul tempo.
«Ha detto che questa sarà l’unica volta che accetterà un secondo posto da me. Da uno dei miei fratelli.» mormorò, i ricordi che iniziavano a schiarirsi, a collegarsi gli uni agli altri. C’era un passaggio importante, qualcosa che lei già sapeva e che si collegava alla perfezione con quello che sua madre le aveva detto. Ma cosa?
Jonas si torse il bracciale stringendolo e tirandolo pensieroso. «Forse- forse perché- insomma, se ci sono più tuoi fratelli, magari te l’ha detto perché se vince uno di loro e tu arrivi seconda è comunque un podio di figli di Nike?» domandò più rispondere.
Eliza però scosse il capo. «No, no, non mi ha detto questo.» iniziò con più convinzione. Sottrasse la mano dalla presa di Lea e la impuntò sul gradino per darsi una spinta e mettersi in piedi.
Immediatamente Lea, Cade e Nathan allungarono le mani verso di lei, pronti a sostenerla al primo cenno d’instabilità.
«Mi ha detto qualcosa. Cosa diamine mi ha detto?» domandò a nessuno, marciando avanti e indietro, costringendo i suoi compagni a scostarsi velocemente, se non volevano esser colpiti dalla torcia che la donna ancora teneva saldamente in mano. Tenne lo sguardo fisso a terra però, quei dannati scintillii continuavano ad avvinghiarsi alle altre anime e benché nessuno di loro fosse luminoso come il greco anche l’aura fioca che si andava a delineare attorno ai restanti cinque la infastidiva.
«Qualcosa sulla gara?» domandò Elena debolmente.
«Ma è davvero importante? Non puoi pensarci mentre camminiamo verso la mia di prova?»
«Perché, sai dove andare?» chiese Jonas sorpreso.
«Non possiamo andarcene in giro con Eliza in queste condizioni.» protestò ancora l’italiana.
«Siamo andati in giro con Cade svenuto.» replicò Jane indicando il rosso scocciata.
«Mi ha detto qualcosa sulla gara. Ha detto che accetterà il secondo posto solo questa volta-» continuò lei voltandosi di scatto, continuando a marciare a testa bassa.
«Quella era una situazione diversa, non vedi come sta? Sembra quasi delirare.»
«A me sembra solo molto concentrata.»
«Jonas! Non aiuti così! Nathan?»
«Sta in paranoia per qualcosa, non sta delirando, non cominciare a fare l’allarmista del cazzo.»
«Non sto facendo l’allarmista! Era palesemente sotto shock prima, avete detto che vedere un dio trasformarsi consuma l’anima!»
«Non l’ha vista davvero o sarebbe scomparsa in una fottuta nuvola di polvere!»
«Stiamo solo perdendo tempo così!»


«Silenzio!»
 
I tre smisero immediatamente di discutere, voltandosi sorpresi verso Cade. Persino Eliza si fermò, osservando la figura ora fiocamente illuminata del compagno come se fosse la prima volta che lo sentisse alzare così la voce.
Cade invece guardò tutti e quattro con espressione palesemente innervosita.
Stavano perdendo davvero tempo, Eliza non era in condizioni così pessime da non potersi neanche muovere e lui non voleva arrivare tardi alla prossima prova tanto quanto voleva arrivare il più tardi possibile alla casa di suo padre. E poi quella dannata torcia stava bruciando un po’ troppo vicina a tutti loro per i suoi gusti.
 
E ne abbiamo visto fin troppo di fuoco ultimamente, cazzo.

Prese un respiro profondo ed espirò con forza: era come rimettere dritto un osso rotto, una spalla slogata, andava fatto in un colpo solo, con decisione, senza rimuginarci troppo.
Doveva togliersi questo dardo dal fianco ed andare avanti.
 
«La gara non è fatta per noi. Non siamo noi i veri vincitori, per questo mia madre ha detto che avrebbe accettato un secondo posto. Non possiamo vincere.»
Cinque teste scattarono verso Eliza, i volti di colpo pallidi, scioccati.
Jonas si sentì improvvisamente pesante, come se tutta la forza di gravità del mondo si fosse concentrata sulle sue spalle e ad occhi sgranati cercò Cade a tentoni, per incontrare immediatamente la sua mano, protesa in avanti.
L’irlandese non stava poi molto meglio, si sentì la terra mancare sotto i piedi, in caduta libera dal cielo senza possibilità di riprendere quota, di salvarsi.
Che diamine stava dicendo Eliza? Che significava? Non erano loro i veri vincitori? La gara non era fatta per loro?
Le sue parole lo colpirono in pieno, arrivando dritte a destinazione, senza aver bisogno neanche di un momento per essere assimilate.
Avevano fatto tutto quel casino, si erano fatti così tanti problemi, affrontato così tanto dolore per nulla?


Sono quasi scomparso per sempre. Jonas e Cicno sono arsi vivi. Abbiamo rivissuto i nostri ricordi più dolori per- per niente?
 
«Che cazzo vuol dire?» si sentì domandare, come se non fosse davvero la sua voce, come se non fosse stato davvero lui.
Eliza riprese a marciare avanti indietro, la torcia tenuta bassa continuò a bruciare solo sulla sua estremità, senza risalire l’asta, magicamente.
«Nike- Nike ha detto che la Death Race non è stata fatta per noi, che c’è un altro giocatore che ambisce ad un premio diverso dal nostro, che non stiamo gareggiando contro di lui ma che il vero premio è il suo, non il nostro. Ma-» si fermò, si girò verso i suoi compagni e deglutì, «a noi non deve interessare né come farà né cosa vuole. Devo solo vincere, è tutto ciò che conta.» Rimase immobile per un attimo e poi si avvicinò a passo deciso verso Nathan. «Ha parlato di schieramenti, qualcuno lo farà, qualcuno l’ha già fatto, credo parlasse degli Dei, degli altri. A lei non importa cosa succederà, le interessa solo che io, o uno dei miei fratelli, vinca.»
Il figlio di Ares la fissò serio, l’espressione mortalmente cupa. «Se gli Dei si stanno schierando vuol dire che presto ci sarà una guerra.» ragionò ad alta voce.
Eliza annuì. «Se la gara è solo una copertura, se noi non possiamo vincere il vero premio-»
«Non ti ha detto cos’è?»
«Ha detto che non mi deve interessare.» ripeté.
«Ma chi è che deve vincere, allora? Cosa vuole?» domandò Cade avvicinandosi, trascinandosi dietro Jonas, ancora sconvolto.
«Un’altra anima?» mormorò Lea.
«No, mia madre ha parlato di “un essere”, un altro giocatore, non un’anima, ha detto che è qualcosa di “molto peggio purtroppo per noi”.»
«Un essere immortale? Forse uno degli antichi eroi, un guerriero, un tiranno, qualche stronzo che ha fatto qualcosa nell’epoca antica.»
«Tipo cosa? Il cattivo di un mito?» chiese Lea scettica.
«Tipo.»
«Però Nike ha detto che non ambisce al nostro stesso premio, giusto?» domandò Jane sfregandosi le mani sulle braccia. «Se non vuole tornare in vita-»
«Probabilmente perché già lo è.» borbottò Jonas.
«O lo è ancora.» lo corresse Nathan.
«Se non vuole tornare in vita, se il premio che ci è stato promesso è ancora sul piatto, a noi cosa cambia?» terminò in fine la sua frase la strega, osservando i compagni.
Ci fu un lungo momento in silenzio in cui tutti rifletterono, persi nei loro ragionamenti, nei sé e nei ma.
«Jane ha ragione.»
Cicno parlò per la prima volta e lo fece con voce bassa, gentile e accondiscendente.
Stavano succedendo troppe cose tutte assieme: il fascio di luce che li aveva colpiti, il litigio tra Cade e Jonas, lo scontro di questo con l’illusione di sua madre, la dipartita di Úranus e ora anche Nike che raccontava a sua figlia qualcosa di estremamente pericoloso e al contempo nulla che potesse effettivamente danneggiare il suo padrone.
 
Siate dannati. Passano i secoli e voi non cambiate mai, continuate a far scoppiare fuochi nei campi di grano per poi voltargli le spalle ed ignorare le grida della gente.
 
«A chiunque si riferisse tua madre, sembrerebbe non volere ciò che c’è in palio per noi. Sapevamo tutti che gli unici in grado di arrivare fino in fondo saremmo stati noi, la progenie divina. Le prove divengono ogni volta più specifiche, richiedono sempre di più l’ausilio di poteri sovrannaturali. La divina Nike non ti ha detto nulla di nuovo ed il fatto che non ne sia interessata dovrebbe rasserenarti: è la Dea della Vittoria, per lei vincere è l’unico proposito degno d’essere combattuto, se avesse saputo che questa possibilità sarebbe stata negata a tutti i suoi figli, la possibilità di vincere, si sarebbe scontrata con chiunque sia l’altro essere.» continuò ragionevole.
Lea si aggrappò a quelle parole come fossero verità assoluta.
«Sì, Cicno ha ragione. Non sarebbe stata indifferente. Hai detto tu stessa che per lei l’unica cosa che conta è che tu vinca quindi se non avessi potuto vincere non sarebbe stata così tranquilla.»
Anche Nathan annuì, pensieroso. «Non ti avrebbe detto che non le interessa altrimenti. Ma il fatto che ci sia qualcun altro pronto a farsi i propri porci comodi-» lasciò la frase sospesa, serrò le labbra e aggrottò le sopracciglia. «Che cazzo vuole se non la vita?»
«Con tutto il rispetto, che cazzo vuole non mi interessa. Mi preoccupa di più chi cazzo sia.» replicò Cade, il pensiero fisso sull’identità di quella figura misteriosa che sembrava aver architettato ogni cosa, che li stava muovendo come pedine.
Eliza girò il viso verso di lui, inclinando il capo di lato, ma tenendo lo sguardo fisso sul terreno, senza guardare davvero nulla se non le ombre che i copri dei compagni proiettavano grazie alla luce della torcia.
«Chi veste d’ombra…» mormorò tra sé e sé. Era lì, quello era il punto, il collegamento che non riusciva a fare. Lo vedeva, sapeva per certo che ci fosse, ma non riusciva a legarlo.
«Cosa?» domandò Jonas sporgendosi in avanti. «Cosa hai detto?»
Eliza si schiarì la voce ma non distolse lo sguardo dalle ombre tremolanti.
«Chi veste d’ombra e tutti segue si assicurerà che ognuno di noi arrivi dove necessario.» ripeté con più sicurezza.
«Chi veste d’ombra, intendi- intendi di nero?» chiese Jane aggrottando la fronte. «L’uomo che mi ha dato il biglietto era completamente vestito di nero.»
Quelle parole furono come un fulmine a ciel sereno. Eliza si volse di scatto verso la strega, così come fecero tutti quanti sorpresi da quella semplice affermazione.
E proprio come la scintilla di un fulmine un raggiò di luce collegò le parole di sua madre ai suoi ricordi, a ciò che aveva visto, a ciò di cui avevano parlato tutti loro più e più volte.
 
Un uomo vestito di nero, che fuma un sigaro.
Appare e scompare a suo piacimento.
Ci ha aiutati senza un apparente motivo.

 
«L’ho visto oltre il fuoco!» esclamò di punto in bianco Jonas.
Si girò a cercare Cicno, trovandolo impassibile e rigido, scosso come tutti loro da quella rivelazione.
«Mentre eravamo sotto il raggio del Guardiano, quando mi hai detto che dovevo lasciarti, che se l’avessi fatto mi sarei potuto salvare. Ho aperto gli occhi e oltre il fuoco c’era un uomo, quell’uomo, che mi ha-» si fermò.
Nathan lo guardò attento, un leggero tic nervoso alla guancia gli fece scattare lo zigomo sinistro.
«Ti ha? Cosa ha fatto? Che cazzo è successo? E soprattutto quando pensavi di dircelo?!»
«Mi è passato di mente! Sai, forse non te ne sei accorto, ma ero in un cazzo di tornado di fuoco!» rispose a torno Jonas.
Dentro di sé si agitavano vergogna e irritazione in eguale misura: come poteva essersi dimenticato di quell’uomo? Ciò che gli aveva detto era così compromettente- ma si era ritrovato in mezzo alle Praterie degli Asfodeli, ferito, nudo, in mezzo al buio pesto, forse poteva essere un po’ più indulgente verso sé stesso.
 
«Cosa ti ha detto?» chiese con più gentilezza Cade.
Jonas lo guardò stringendo le labbra. Deglutì. «Che sapevo quale fosse la cosa giusta da fare, che ero vicino alla soluzione e che potevo farcela.»
«Credeva che tu sapessi come salvarti?» domandò Jane scettica.
Il ragazzino scosse il capo, una smorfia a tirargli il volto. «No, non come salvarmi, io- Cicno mi diceva di lasciarlo andare, che se l’avessi lasciato sarei stato salvo e io non volevo ma-» si bloccò per prendere un respiro profondo, quella era la parte più umiliante della storia, «-lui continuava a parlare, a dirmi che dovevo fidarmi e che avrebbe pensato a tutto lui e io- mi stava- non voglio dire che mi stava convincendo ma sembrava sensato, va bene? Quello che diceva sembrava sensato e l’idea di uscire da quel rogo era tutto ciò che volevo, però mi sentivo in colpa, non era giusto e allora quell’uomo mi ha detto che c’ero quasi, che stavo quasi per fare la scelta giusta.»
«Allora è rimasto.» disse Cicno per lui. «Mi ha chiesto quale fosse la risposta alla domanda della divina Demetra ed è rimasto al mio fianco, per affrontare la prova assieme a me.»
Jonas annuì, abbassando lo sguardo imbarazzato, quel senso di vergogna che gli scivolava ancora sotto pelle. Aveva quasi mollato, aveva quasi fatto di nuovo la stessa cosa che aveva fatto in vita.
 
«Cos’era?» domandò Cade cercando di spostare il discorso ed alleggerire un po’ il peso che vedeva dipinto sul volto del ragazzo, anche se, senza rendersene conto, fece l’esatto opposto.
Jonas drizzò la schiena e diede un paio di colpi di tosse, in attesa che Cicno rispondesse. Quando il greco però non proferì parola si ritrovò costretto a farlo da sé.
«Anche quell’uomo lo sapeva.» iniziò, sperando che questo avrebbe attirato l’attenzione dei suoi compagni.
«Quindi è davvero dietro a tutto questo casino, ma per chi lavora?» domandò Nathan ad alta voce.
«Non era una risposta tanto oscura, bastava conoscere la divinità che ha creato quella prova. In questo caso Demetra, madre amorevole e vendicativa, che ha fatto tutto ciò che era in suo potere per riavere sua figlia.» disse Cicno con calma.
«Se avevamo una famiglia?» provò allora Cade.
Il greco scosse il capo. «Non necessariamente. Ciò che importava alla divina Demetra è che in vita avessimo amato qualcuno tanto intensamente come lei ama sua figlia. Amare ed essere amati.»
Lea voltò allora il viso verso Jonas, curiosa. «Cosa ti ha detto? Nello specifico.»
Jonas avrebbe voluto lasciarsi sfuggire un lamento, acuto e petulante come il latrato di un cane: perché dovevano capitare sempre a lui queste situazioni imbarazzanti.
Sospirò, non aveva poi molta scelta, si era firmato da solo la propria condanna.
 
Di nuovo, che ironia. Dovrei perderla quest’abitudine.
 
«Che io c’ero morto.» borbottò a mezza bocca.
Nathan lo guardò sorpreso. «Credevo che tu fossi morto scappando.»
Una pugnalata alle spalle doveva avere lo stesso effetto che quelle parole, dette con tanta leggerezza, ebbero su di lui in quel momento.
«Non sono affari nostri, soldatino, se non ce lo vuole dire non ce lo dice.» s’intromise subito Cade.
«Era solo una cazzo di domanda, certo che se non vuol non dice niente. Questo non toglie che il tipo sa del suo passato.» fece notare stizzito.
Anche quelle parole non aiutarono per niente Jonas a rilassarsi. Cos’era? Adesso ce l’avevano tutti con lui?
 
«Deve sapere anche del mio allora.» disse Eliza. «Anche a me è apparsa una figura simile, mi ha parlato con provocazione ma con sicurezza, mi ha ricordato il mio passato.»
Nathan annuì lentamente a quelle parole. «È evidente che sia un essere divino allora, che sia un Dio maggiore, minore o dimenticato. Questa potrebbe essere l’opzione più sensata.»
«Perché dici questo?» domandò Lea mordicchiandosi l’unghia del pollice.
«Perché non riesco a riconoscerlo in nessuna descrizione. Un uomo che veste di nero è troppo generico ma allo stesso tempo non lo è. Se fosse stato uno dei Dodici ve ne sareste accorti, la loro aura è potente.»
«L’ho visto attraverso una colonna di fuoco, non è abbastanza?» chiese Jonas scettico.
«Io l’ho visto dopo la prova del labirinto, sapeva che avevo un coltello in tasca, sapeva che mi sarei ferito.»
«La preveggenza è capacità di quasi tutti gli Dei, se si parla di eventi minori e che si svolgeranno a breve distanza. Alle volte possono anche prevedere azioni future più distanti nel tempo.» spiegò Cicno accantonando subito la possibilità di stringere il cerchio dei sospetti.
«Non c’è modo di riconoscerlo quindi?» domandò Jane lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.
Nathan scosse la testa, infastidito. «Neanche l’ombra.»
«Bene.» disse lei incredibilmente soddisfatta. «Allora non perdiamo altro tempo e andiamo a cercare l’altare di mia madre.» concluse secca.
Si volse verso Cicno, ignorando le deboli proteste di Lea su come Eliza fosse ancora troppo pallida, le rassicurazioni della figlia di Nike stessa su come fosse in grado di proseguire e la risposta sarcastica di Nathan su come – Grazie al cazzo che è pallida, è morta.-
Jane guardò il figlio di Apollo dritto in viso, senza battere le palpebre, senza curarsi del fatto che il giovane non sembrasse minimamente infastidito da quel suo voler smettere di ragionare, di domandarsi, di indagare le possibili identità dell’uomo in nero.
 
Che veste d’ombra.
 
«Cosa pensi debba fare? Come potrebbe portarmi a destinazione la torcia che Nike ha dato ad Eliza?»
Cicno espirò lentamente, il volto impassibile, fermo e liscio come quello di una statua.
«La torica è il simbolo divino di tua madre, ma anche quello che per antonomasia illumina il cammino dei viandanti a notte fonda. Nel tuo caso, nel caso della divina Ecate, illumina le vie tra le malie della Foschia. Non so dirti con certezza come potrà mostrarti la via, quel che è certo è che dovrai essere tu ad impugnare la torcia.» disse tranquillo. Si volse leggermente verso Eliza. «Passale il dono di tua madre, figlia di Nike.»
Eliza lo guardò per un momento tentennante, la presa sull’asta si fece più stretta, come se lasciandola avrebbe ceduto anche il ricordo delle parole di sua madre. Ma dopo quell’attimo di esitazione drizzò la schiena, allargò le spalle e protese il braccio verso la figlia di Ecate, porgendole l’impugnatura della torcia con espressione seria.
Non disse nulla, fece solo un cenno con il capo, come a volerla incoraggiare e Jane ricambiò, le labbra sigillate e tese.
Quando la torcia fu finalmente nelle sue mani non successe nulla. Non vi furono rumori, la fiamma non mutò la sua intensità, nessuna scia luminosa si creò, andando ad indicare la via da seguire com’era stato per la casa di Fobetore. Nulla, assolutamente nulla.
I semidei si guardarono alle spalle, voltarono il capo in ogni direzione per poter scorgere anche il minimo cambiamento, ma la strada lastricata era rimasta la stessa polverosa strada di prima.
 
«Ma che cazzo.» sbottò Nathan accovacciandosi a terra per esaminare meglio il suolo.
«No- non succede nulla?» domandò a sua volta Jonas, alzandosi invece sulla punta dei piedi per poter scorgere magari in lontananza anche il minimo cambiamento.
Ma non vene erano, non c’era nulla di nuovo, nulla di diverso.
Per lo meno, non ai loro occhi.
Jane rimase ferma senza osare muovere un muscolo, senza provare anche solo a respirare come le era tornato naturale fare durante la gara. I suoi occhi erano fissi, vitrei sulla strada, sulle leggere, leggerissime chiazze luminose se segnavano il suolo.
Sembrava quasi che qualcuno avesse lasciato cadere della sabbia fine e chiara- no, come se una lucciola stesse sostando su quel punto, ma lontana, non abbastanza vicina alla terra da poterla illuminare per bene. Era solo un’ombra.
 
L’ombra di una luce.
 
Non vedeva altro, non vedeva altro che quella minuscola e flebile variazione luminosa.
Non vedeva altro.
Jane si fece sorda alle voci dei suoi compagni, cieca alle loro ricerche, estranea alla loro frustrazione e dubbio.
Non vedeva altro se non quelle minuscole macchie di luce, come i raggi flebili che passavano tra le nuvole di un cielo grigio, piatto, spento, ingombro.
Non vedeva nulla di più.
 
Perché la mia magia non è altro che questo, nulla di più di una vaga e sbiadita traccia di luce.
 
Un leggero tremore la scosse dall’interno, facendole digrignare i denti dalla rabbia: non era abbastanza forte neanche con l’ausilio di un dono divino.
Eppure era riuscita a far sparire quelle spade, era riuscita a trovare un modo per rintracciare i suoi compagni, per richiamare il buio, per scovare la casa di Fobetore. Perché, perché se malgrado fosse riuscita a fare tutto questo, sua madre non la reputava ancora degna di poter vedere la strada per la vittoria?
 
O forse è Nike, è lei a non reputarmi abbastanza degna, a non vedere una vincente in me.
 
Perché sembrava che il mondo fosse sempre contro di lei, che la ostacolasse sempre.
Strinse ancora di più i denti e con essi anche la presa sulla torcia, abbassandola con un gesto secco verso il terreno. Forse avvicinando la torcia a quelle macchie di luce le avrebbe viste più chiaramente. Ma non appena il fuoco fu vicino a quello strano alone questo scomparve, mangiato dalla luminosità eccessiva della fiamma.
 
«Così li spaventi, figlia di Ecate.»


Jane si girò di scatto, il volto contorto da una smorfia irosa, gli occhi socchiusi, ardenti nella loro opacità.
 
«Chi?» chiese solo a denti stretti, più un sibilo che una domanda.
Cicno le si avvicinò con lentezza, posando una mano su quella con cui Jane reggeva la torcia, senza osare sfiorare direttamente il legno, e sollevandola da terra.
«Coloro che sono tra i più fedeli servitori di tua madre, i Fuochi Fatui.» rispose con semplicità.
Jane avrebbe voluto infilargli la dannata torcia in bocca, anzi, no, avrebbe voluto infilargliela negli occhi e poi in bocca. Avrebbe voluto bruciare quel bel viso da statua antica, i capelli castani perfetti, l’espressione neutra, intonsa da qualunque emozione. Dalla rabbia che invece bruciava in lei.
Bruciarlo come doveva aver fatto lo sguardo del Guardiano.
«Le macchie di luce?» si ritrovò a chiedere brusca.
Cicno annuì. «Loro. Le vedi anche tu.» disse solo, un’affermazione, una costatazione dei fatti.
Jane si lasciò sfuggire un verso di scherno. «Non bene come li vedi tu, evidentemente.» ritorse dura.
L’espressione sul volto del greco non mutò, inscalfibile anche a quell’accusa velata, quell’invidia pungente che colava dalla voce della giovane.
«Mi pare ovvio, sono figlio del dannato dio del Sole. La luce è suo regno, non quello di tua madre.»
La risposa di Cicno fu così semplice, così scontata, da riuscire a spegnare quel fuoco iroso che le bruciava la gola.
Jane guardò sconcertata: che diamine stava dicendo?
«Hai detto che sono i servitori-»
«Ho detto “coloro tra”, non che sono i soli. I Fuochi Fatui sono manifestazioni di magia, sono esseri singoli e uniti, un insieme omnisciente, collettivo, un uno che si divine in molti, diviene molti, ma rimane sempre collegato in una sola mente. Cosa siano i Fuochi Fatui in realtà non è dato saperlo neanche agli Dei.
Loro è la scelta di chi servire, di cosa comunicare, da chi farsi scorgere. Per alcuni Dei e per la loro progenie è più facile vederli, è più semplice scorgere le loro impronte sulla terra mortale anche se si celano ai nostri occhi.»
La figlia di Ecate continuò a guardarlo senza riuscire a protestare, senza trovare una singola cosa contro cui scagliarsi.
Cicno le sorrise piatto. «Non sto negando che coloro che posseggono più doni divini degli altri abbiano le stesse possibilità di scorgerli dei loro fratelli, sarebbe sciocco ed inutile. Lea non li vede, infatti.»
Al sentir nominare il suo nome l’italiana sussultò sul posto, sbrigandosi ad annuire, anche se in cuor suo non sapeva se sentirsi insultata dal fatto che suo fratello la reputasse più debole di lui, o se accettare quella spiegazione senza alcuna invidia.
«Non- mi è capitato di vedere cose… diverse, rispetto a quelle che potevano altri semidei, ma ora no, non vedo nulla.» ammise infine.
«Li aveva visti anche prima.» s’intromise Cade, «Quando ha trovato me, quando sono stato male e lui mi ha curato. Sono stati i Fuochi Fatui a riportarci da voi, ma io non vedevo assolutamente nulla.»
Jane batté le palpebre senza ben sapere cosa farsene di quelle informazioni. Annuì.
«Che devo fare?» domandò con voce flebile.
Cicno le ripropose lo stesso sorriso neutro di prima. «Non spaventare i Fuochi Fatui con la torcia, per iniziare. Segui solo il cammino da solo indicato.»
La giovane però scosse il capo. «Non li vedo bene.»
«Vedi le loro auree, vedi quella che potremmo chiamare la loro “ombra luminescente”. E nel caso non dovesse bastare-»
Il figlio di Apollo si chinò verso il basso, i pantaloni scuri e la maglietta a maniche corte continuavano a fare uno strano effetto sulla sua persona, sembrava un’antica reliquia riposta su di un moderno altare. Era fuori posto, era sbagliato ed era un pensiero che nessuno dei presenti riusciva a togliersi dalla testa, un pensiero che andò solo a rafforzarsi nel momento in cui le lunghe dita affusolate sfiorarono la strada lastricata, quando girò il palmo morbido verso l’alto, piegando la mano a coppa, come se stesse sostenendo un oggetto delicato.
Leggere luci si proiettarono lievi sulla pelle sbiadita dalla morte, piccole scintille fievoli zampillarono con lentezza oltre le dita flesse, spegnendosi nell’aria prima ancora di toccare terra.
Fu come assistere ad una magia, ad un antico miracolo, qualcosa che sottolineò con ulteriore forza quando quell’anima fosse distante secoli da tutti loro, dal mondo che avevano conosciuto in epoche diverse, dalla concezione di essere umano, semidivino o ultraterreno che ognuno di loro aveva.
Presto si ritrovarono tutti ad osservare Cicno cingere con delicatezza un globo fiammeggiante blu. Ora leggermente violaceo, lilla quasi, rossastro pesto come un livido, azzurro come il cielo che divide il tramonto dalla notte.
Il Fuoco Fatuo si accomodò meglio sulla mano del giovane, accovacciandosi quasi prima di esibirsi in un piccolo salto e scomparire nel nulla.
I semidei sussultarono, qualcuno tirandosi indietro, qualcuno protendendosi in avanti, ma prima che chiunque potesse anche solo formulare una domanda, un altro Fuoco Fatuo si accese davanti a loro, a non più di qualche metro di distanza.
La fiamma sulla torcia che Nike aveva donato ad Eliza si animò per un istante, ardendo più alta per poi tornare come prima.
Quando Cicno si rialzò, voltandosi per guardare Jane negli occhi, il sorriso sul suo viso era più autentico, decisamente soddisfatto di sé stesso, divertito dagli sguardi sorpresi e ammirati di tutti loro, da quello incredulo di Jane.
 
Quanto è davvero potente quest’anima?
 
«Nel caso non dovesse bastare, ricorda sempre che al tuo fianco hai un figlio del Sole e che la luce, come il fuoco, è parte della mia eredità. Se la via non dovesse essere abbastanza chiara, potrò sempre brillare più intensamente.»
 
Il Fuoco Fatuo apparso più avanti vibrò su sé stesso e si fece più luminoso, come a voler richiamare la loro attenzione.
 
Cicno ghignò. «Mettiamoci in cammino, compagni, la luce non attende nessuno.»
 
E come a voler dar conferma delle sue parole la fiamma scomparve per riapparire subito dopo ancora più avanti, puntando verso quello che le anime non potevano sapere essere l’ovest.
 

 
 
*
 
 
 
 
In un tempio nero, illuminato da fiamme verdi e fredde, della sabbia fine ed impalpabile si depositò sul pavimento lucido, attirando l’attenzione di una figura vestita con un lungo e pesante abito viola.
La donna alzò un sopracciglio fine, guardando la sabbia con fare interrogativo finché questa non prese forma.
Un verso divertito si propagò per la sala.
 
«Sì, ho sentito. Non devi temere, penserò io a sistemare questo piccolo inconveniente, il tuo bambino può riposare sereno.»
Le sue stesse parole le fecero piegare le labbra scure in una smorfia amareggiata.
«Se fosse ancora in grado di farlo.»
 
La sabbia perse forma, sgretolandosi sul pavimento, scivolando via come un serpente, infilandosi nelle fessure tra le lastre lisce e scomparendo nel basamento.
La donna la guardò andarsene in silenzio per poi decidere che fosse giunto il momento anche per lei di congedarsi dal suo stesso tempio.
 
La Foschia la inghiottì come una corrente inghiotte le sue prede.
Il tempio tornò silenzioso e vuoto, solo i fuochi verdi a crepitare gelati nei loro bracieri. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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