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Autore: orikunie    17/09/2023    3 recensioni
Come sia iniziato tutto questo casino non so davvero spiegarlo.
Quello che ricordo è che un momento prima me ne stavo per i cazzi miei e quello dopo ero spalle al muro, gli occhi di quell’idiota di Hinata che mi inchiodavano senza possibilità di fuga mentre stampava la bocca sulla mia.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Come sia iniziato tutto questo casino non so davvero spiegarlo.
Quello che ricordo è che un momento prima me ne stavo per i cazzi miei e quello dopo ero spalle al muro, gli occhi di quell’idiota di Hinata che mi inchiodavano senza possibilità di fuga mentre stampava la bocca sulla mia.
Lo stronzo ha fatto bene i suoi calcoli.
Lo sapeva che i suoi occhi hanno su di me lo stesso effetto dei fari di un’auto su un cervo.
Per questo motivo non li ha mai chiusi e li ho visti sfumare rapidamente mentre si avvicinavano ai miei, troppo vicini per mantenere il fuoco.
In trappola. Un po’ come il fiato nei miei polmoni. Non chiedetemi di spiegare come fosse fisicamente possibile una reazione così esagerata.
In fondo non mi ha obbligato a fare nulla. Non mi ha puntato una pistola alla tempia, non mi ha minacciato in nessun modo. Si è limitato a guardarmi. E poi mi ha baciato.
L’ho sempre pensato che quegli occhi fossero un problema. Mi era capitato di sentire la parola magnetici per descriverli, soprattutto dalle ragazze.
Ma non erano mai stati un problema per me, diciamo, quindi chissenefregava.
Insomma, è andata proprio così: mi ha guardato – stregato è più corretto – , in silenzio si è avvicinato, ha piegato appena la testa di lato e mi ha baciato.
Durata dell’atto in sé? Impossibile dirlo.
Ero fottutamente perso in quelle iridi nocciola per avere anche una minima cognizione dello scorrere del tempo.
Ah, dettaglio. Si è alzato appena sulle punte dei piedi. Ragionandoci a posteriori, tappo com’è non ci sarebbe mai arrivato alla mia faccia altrimenti.
Mi sono abbassato. Non so se rendo l’idea. Gli ho facilitato le cose.
Io… boh. Non lo so spiegare e basta.
È una cosa tanto strana? Voglio dire, può capitare, vero? Vero?!
Tanaka e Nishonoya sempai, due anni fa, c’erano dentro fino al collo in certe cose. Ne parlavano continuamente, avevano il pensiero fisso.
Io e Hinata abbiamo diciassette anni, quasi diciotto, mai una distrazione al di fuori della pallavolo… ci sta, avere una… curiosità, no? Ci sta?!
Il problema è che… parliamone. Una volta capita. Per altro senza spiegazioni, senza arrivare alle mani, senza alzare la voce. Nulla.
Ma due volte? No, due volte è perseverare nell’errore. Quando poi diventano più di tre, quattro... credo si possa definire diabolico.
Hinata lo sapeva che era una roba diabolica, e forse si sentiva anche lui un po’ diabolico perchè aspettava che fossimo soli prima di guardarmi. Mi evitava con lo sguardo tutto il fottutissimo giorno, e poi… poteva capitare davvero ovunque.
Una volta sulla strada di casa, in un vicolo deserto.
Una volta in palestra, quando tutti si erano ormai dileguati.
Una volta in classe – che idiozia –, quando ci siamo fermati per una pausa pranzo lunga.
Una volta al parcheggio delle biciclette.
Una volta davanti ai lavandini fuori dagli spogliatoi.
Quando ci siamo baciati in classe è stata quella più strana, quella che mi ha messo in subbuglio di più gli organi interni, come se fosse possibile una cosa del genere.
Hinata si era seduto a cavalcioni di una sedia davanti a me, con il suo succo di frutta in bocca, e aveva appoggiato la testa sul mio banco.
Un po’ lo temevo e nello stesso tempo lo desideravo, che mi guardasse: lo temevo perché eravamo a scuola e le voci dei compagni in cortile erano più vicine che mai; lo desideravo perché… ecco, questo non lo so ancora perché.
Però a un certo punto lo ha fatto e io mi ricordo che non ho mosso un muscolo quando ha alzato lo sguardo. Ha continuato a fissarmi mentre asfissiava il povero succo di frutta ormai vuoto e io… io ho smesso di masticare il mio panino, ho deglutito – forse troppo presto, ho rischiato mi andasse di traverso – e ho aspettato.
Quel senso di impazienza, di attesa. Penso di aver seminato briciole di pane per l’ansia che nemmeno Pollicino…
Ha staccato il viso appiccicoso di sudore dal banco, si è spostato quelle maledette ciocche pel di carota dalla fronte, si è sporto in avanti e mi ha baciato di nuovo, come sempre faceva in quei momenti. Il frinire assordante delle cicale e il vociare degli altri ragazzi era diventato un sibilo lontano.
Succo di frutta alla pera. Che bambino.

Non mi ha mai chiesto il permesso di baciarmi. E io non gliel'ho mai negato, dopo tutto.
Si era instaurato questo equilibrio strano, questo gioco di sguardi che anticipavano… beh, si è capito cosa. Poi si tornava alla normalità. La solita routine fatta di pallavolo, insulti, corse mozzafiato lungo i fianchi di una collina.
Il problema, credo, fu che l’estate arrivò e ci travolse a piena potenza.
Quei momenti divennero sempre più frequenti. Indispensabili. Anche più volte durante la giornata.
Ed erano diventati feroci.
Le prime volte, a ripensarci, potevo sentire il sapore del nulla cosmico in quei baci a stampo.
Ma quando il caldo e l’afa ci investirono, tutto si fece più… confuso.
Tenere gli occhi aperti era diventato difficile. Quella voglia stupida e insensata di stringere gli occhi e semplicemente lasciarsi trascinare dal momento mi lasciò interdetto.
L’odore del sudore di Hinata mi solleticava la nuca, il suono del suo respiro pesante che veniva forzato fra labbra rosse mi lasciava con uno strano ronzio nelle orecchie.
Per non parlare della vicinanza dei nostri corpi.
Non abbiamo mai alzato un dito, non ci siamo mai toccati. Ma ricordo benissimo che stringevo i pugni fino a sentire le nocche formicolare in quei momenti, e le unghie si piantavano dolorosamente nei palmi delle mani.
Quello che era iniziato con un bacio a stampo aveva preso una piega più… spinta.
Ogni tanto, c’era l’imbarazzo degli occhi che riuscivano a rimanere aperti e io bevevo dentro quelle pupille così maledettamente espressive. Hinata boke, sempre così cristallino. Apriva la bocca e la lasciava socchiusa sulla mia, le labbra calde che si toccavano e si separavano di continuo, umide di saliva, la stessa che fino a qualche tempo fa avrei avuto i conati al solo pensiero di sfiorare, e tutt’a un tratto… non mi faceva più tanto vomitare. Respiravo il suo respiro insieme a qualche gemito che gli scappava, e lì per lì sembrava quasi un guaito di dolore. Quanto soffriva in quei momenti? Mai quanto me, che mi sentivo in balia delle onde e non sapevo fare altro che controllarmi.
Ho intravisto spesso la sua lingua rossa. Si annodava dietro le labbra nel tentativo di resistere.
A cosa? A cosa doveva resistere? Cosa voleva fare con quella lingua? L’idea mi divorava alla sera, sotto la doccia, quando mi toccavo al pensiero della sua bocca che avrebbe dovuto spiegarmi tutto e invece mi lasciava con più dubbi che risposte.
Ahhhh Hinata, cazzo! Cosa ne sapevo io, boke che non sei altro!? Io mi sono lasciato trascinare. Non capivo nulla di quelle cose. Non ne avevo mai sentito il bisogno, tu mi hai creato un bisogno, l’hai piantato nella mia testa e ha iniziato a crescere, a mettere radici, a spaccarmi il cranio per i mal di testa che mi attanagliavano.
Io non potevo farci nulla.
E poi… c’è stato quel giorno. Ti ricordi? Certo che ti ricordi, sei un idiota, ma non così tanto.
Negli spogliatoi della palestra eravamo soli, come al solito, dopo l’allenamento. Eravamo sudati, stanchi. Non vedevo l’ora di andare a casa.
No, cazzata. Enorme cazzata. Prima di andare a casa ero in attesa che qualcosa accadesse.
Ti guardavo con la coda dell’occhio nella speranza che ti accorgessi di me, del mio bisogno a cui non avrei mai e poi mai dato voce.
E te ne sei accorto. Ho tremato di impazienza, mi tremavano le labbra, ho trattenuto un sorriso estasiato, credo, o almeno spero.
Ti stavi per infilare la maglietta per tornare a casa quando mi hai guardato.
Poi mi è preso il panico.
Sì, perché la maglietta l’hai accartocciata con determinazione e l’hai fatta cadere sulla borsa.
Ti sei avvicinato e io mi sono schiacciato contro il muro. Avrei voluto scavare la mia via di fuga nel cemento duro e freddo dietro di me.
Ho iniziato a fare caso ad ogni goccia di sudore, ad ogni respiro che ti muoveva il petto. Qualcosa era diverso, ma non capivo cosa.
E poi, stronzo come mai… hai chiuso gli occhi.
Ho ripreso a respirare. Terrorizzato, insicuro, smarrito. È stato un po’ come svegliarsi da un sogno. Non sapevo che fare.
Sei rimasto lì, di fronte a me, in attesa. Ma in attesa di cosa, boke?! Io non ce la facevo proprio a muovermi! Eri tu quello che prendeva l’iniziativa, quello che mi impediva di fuggire piantandomi gli occhi addosso…! Se non mi guardavi, che scusa avevo io per…?!
Ti ho visto incazzarti gradualmente.
Ti si sono stretti i pugni lungo i fianchi, hai corrugato la fronte, la bocca ti si è tirata in una smorfia. Hai soffiato tra i denti.
Mi si è acceso qualcosa, in quel momento, vedendoti così indifeso. Pensavo di essere io quello debole, davvero. Quello che, dopotutto, subiva.
Invece, pensandoci bene, eri tu che avevi sopportato la mia passività tutto quel tempo. Ma che ci posso fare, non era facile da capire.
Hai aperto gli occhi, due lame di rabbia e furia. Ti saresti dovuto vedere, eri spaventoso. Hai sibilato un Sei uno stronzo! e poi hai caricato un pugno e hai cercato di colpirmi. Ti ricordi? Che idiota. Non ci sei mai riuscito. Figurarsi.
Ti ho afferrato il polso con una mano e con l’altra mi sono aggrappato ai tuoi capelli, proprio dietro l’orecchio.
Ti ho baciato.
Quella volta, l’ho fatto io. Me lo avevi chiesto così tante volte e non me ne ero mai accorto. Mi avevi sempre dato il tempo e il modo di fare la prima mossa e non ne avevo mai avuto il coraggio.
Quella volta è stato diverso. Ti ho sentito mugugnare indispettito e dimenarti contro di me, mentre l’istinto mi ha suggerito di infilarti la lingua in bocca.
Tu mi bloccavi con gli occhi, io non ho mai avuto questa forza: ho ribaltato i ruoli, ti ho spinto al muro e ho combattuto contro la tua reticenza finché non ti ho sentito scioglierti contro di me.
È stata una figata. La mano libera che mi stava tirando pugni sulla schiena si era aperta e aveva iniziato a toccarmi, e ho fatto lo stesso. Potevo solo imitarti, insisto, che ne sapevo io di quella roba?
Credo che abbiamo fatto quello che i ragazzi della nostra età chiamano pomiciare.
Dopo dieci minuti ti sei lagnato infastidito e mi hai allontanato dandomi dell’idiota, quando ti ho infilato le mani nei pantaloni. Eri così paonazzo che non si distingueva più il confine fra capelli e pelle.
So di averti chiesto incazzato che avevi, mentre ti liberavi dalla mia presa e ti rivestivi: non potevo farci niente, lo ero davvero, incazzato… confuso… mi avevi lasciato una sensazione di vuoto allucinante nelle viscere. E una pressione fastidiosa nei pantaloni, ovviamente.
Mi hai chiesto di seguirti a casa. Eri imbronciato, ma avevi una scintilla negli occhi…
Ti ho seguito senza fiatare. Su per la salita, nel giardinetto di casa tua, in camera da letto. Mi hai baciato ancora – anzi, ti ho baciato io – , ti ho spinto sul letto senza nemmeno preoccuparmi del fatto che tua madre fosse in casa perchè che ne sapevo io che non era cosa da farsi, ti ho spogliato senza nemmeno capire il perchè e ti ho divorato.
Ti ho messo la bocca in posti che al solo pensiero mi vorrei scavare una fossa per la vergogna, ti ho sentito tremare e ansimare e gemere sotto di me, ti ho fatto qualsiasi cosa l’istinto mi suggerisse di farti e non mi hai mai detto no, non mi hai mai fermato, non mi hai mai chiesto di rallentare.
Mi hai fatto venire con una rapidità imbarazzante, e tu hai ghignato e io ti ho tirato i capelli.
Mi hai chiesto di farti cose assurde, che mai la mia testa avrebbe anche solo lontanamente immaginato.
Ma tu sì, boke, tu sembrava le avessi immaginate e che avessi ben chiaro cosa volessi che ti facessi.
Ti ho esplorato così a fondo da toglierti il fiato, con le dita, con la lingua. Io mi sentivo… perso, perso dentro di te. Preda dell’eccitazione e dei sensi di colpa di starti facendo quelle cose che a me sembravano così tremende, ma che per te evidentemente non lo erano. Mi chiedevi di più, sempre di più, e non so dove saremmo potuti arrivare quella volta se non fossi venuto anche tu fra le lenzuola umide di sudore. E se tua madre non ci avesse chiamato per la cena.
Mi hai detto che mi amavi e hai riso quando io ti ho guardato, parole tue, “con l’espressione più stordita di sempre”.
Non me lo hai mai chiesto, se ti ricambio. Credo tu lo abbia capito ormai, che io sono fatto in modo diverso dagli altri.
Ti basta quello che abbiamo, forse. Ti basta, Hinata? Il pensiero mi angoscia un po’, il fatto che magari ti aspetti qualcosa da me. Ancora non ti ho risposto perché io questa cosa enorme non la capisco e non ha senso dirti qualcosa che non comprendo.
Però poi ogni giorno ci salutiamo quando le nostre strade si dividono, tornando da scuola. Sono sempre io a baciarti per primo. Hai quel ghigno enorme stampato sulla faccia che è quasi irritante, infantile. Mi ringrazi e mi dai la schiena. E mi sento… non so. Felice?

Sai, Hinata, penso tu sia un idiota, ma credo tu abbia già capito cosa io provi per te, a differenza mia.

 

 





Grazie per aver letto questa mia One-Shot!
Un pelo datata, ad essere sincera, ma rileggendola in questi giorni mi sono convinta che sì, andava betata dalla meravigliosa Giorgi_b perchè tutto sommato meritava di essere postata.

 

   
 
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