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Autore: Doctor Nowhere    29/09/2023    1 recensioni
Uro è un minotauro che si è votato a Nemesi, dea della vendetta, per portare giustizia dovunque lo porti la sua strada.
Un giorno, in una taverna, incontra Amalia, una vecchia barda, che gli propone di accompagnarla in un'importante missione, per salvare una povera donna incapace di trovare conforto e riposo persino nella morte...
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Uro trascinò gli zoccoli tra le sterpaglie, al limite del sentiero, in quel poco di ombra che offriva la foresta. A ogni passo, il fodero della spada tintinnava. Il frinire monotono delle cicale riempiva l’aria e nugoli di moscerini volavano tutto intorno a lui. Agitò la mano per scacciarli, ma quelli a malapena si scansarono, e continuarono a ronzare imperterriti.

Gettò indietro la testa e si grattò il mento bovino. Ma come facevano gli altri Cavalieri, in Cidonia, a marciare con tutta l’armatura? Lui moriva di caldo con solo i bracciali e le gambiere!

Una folata di vento fece sbatacchiare il suo mantello rosso.

Lo stomaco gli brontolò. Era arrivata l’ora di mettere qualcosa sotto i denti. La scelta era tra attingere alla riserva o fermarsi alla taverna a pochi passi di distanza.

Accarezzò la scarsella, e le dracme tintinnarono. Non aveva proprio una gran voglia di carne secca. E tutto sommato se lo poteva permettere un pranzo più sostanzioso.

La taverna era un grosso casolare di due piani, fatto di legno ormai mezzo marcito.

Sull’insegna svettava un animale peloso che portava abiti umani e spessi occhiali, traballante e con una bottiglia nella zampa destra. Sotto c’era scritto, con lettere nere su sfondo giallo, “La Talpa Sbilenca”. Uro grugnì una mezza risata. Quel coso era mille volte più simile a un topo che a una talpa.

Poco distante, una stalla rozza quanto il resto, e lì davanti sedeva uno di quei piccoletti con la barba. Com’è che si chiamavano? Nani, ecco. Quello in particolare, un tappetto lurido con capelli e barba rossicci, se ne stava seduto su una botte, con le gambe ciondolanti a due spanne da terra, un cappello di paglia calcato sugli occhi e una lunga pipa da cui si levava un sottile filo di fumo. Difficile dire se dormisse o se fosse solo tanto perso nei suoi pensieri da non notare il nuovo arrivato. Non che fosse importante. Uro non aveva un cavallo da affidargli.

Il porticato di legno che dava al locale cigolò sotto i suoi passi. Dall’interno provenivano voci ovattate, tintinnii di bicchieri e bottiglie, qualche risata. Non molta gente, comunque.

Sbatté gli zoccoli, per far cadere almeno un po' del fango essiccato. Alzò le mani a sollevare il cappuccio, fece scivolare le corna dagli appositi strappi e lo lasciò ricadere sulla schiena.

Poggiò la mano pelosa sulla porta, che si aprì con un irritante cigolio.

Ogni brusio si interruppe.

C’erano una mezza dozzina di tavoli circolari, ma solo un paio erano occupati. Due uomini che giocavano a carte, quattro avventori di varia stazza coi piatti mezzi vuoti e un vecchio barbogio che mangiava con un librone aperto davanti. Tutti intenti a fissarlo, alcuni con gli occhi stretti dal sospetto, altri aperti dalla curiosità. Il vecchiardo aveva la bocca spalancata, ma probabilmente era perché si era paralizzato poco prima di trangugiare un boccone. Aveva ancora a mezz’aria il cucchiaio di minestra.

“E tu che razza di mostro saresti?” bofonchiò l’oste, un nano calvo dalla folta barba bruna.

Uro incrociò le braccia: “Un minotauro.”

Il nano tirò sul col naso, sputò, e centrò in pieno una sputacchiera dall’altra parte del bancone: “Mino-che?”

“Minotauro, oste” disse una donna al tavolo da quattro. Aveva i capelli bianchi raccolti in una coda, il volto segnato da rughe, e sedeva in modo tale da avere una perfetta visuale sull’ingresso: “Vengono dai Regni di Cidonia, ma sono rari anche lì. Avevo visto qualche raffigurazione, ma dal vivo…”

“E che mangiate?” il nano si gettò un panno sulla spalla: “Biada o cibo vero?”

“Carne.” disse Uro “Cruda.”

Il nano scrollò le spalle: “Beh, meno lavoro per mia moglie.” si trascinò sul tavolo con le mani. Uro sbatté le palpebre. Gli mancavano le gambe. Gli era parso che fosse in piedi dietro al bancone, invece non aveva proprio nulla dalla vita in giù.

La donna dai capelli bianchi continuava a fissarlo, con un sopracciglio aggrottato e uno strano sorrisetto sulle labbra. Uro arricciò il naso. Che voleva, quella?

L’oste raggiunse una porta laterale e la aprì con una testata: “Lagertha!” urlò a pieni polmoni: “Piglia una bistecca in cantina e ficcala su un piatto così com’è.”

“Ma che dici?” provenne una voce femminile dall’interno: “Così poi si piglia le malattie, i vermi!”

Uro roteò gli occhi, e si diresse verso un tavolo. Quello all’angolo, più isolato. Seduto lì, fra l’altro, la vecchia per guardarlo avrebbe dovuto girarsi all’indiero.

“E che ne so io, qui c’è un mezzo toro che la vuole così” sbottò il nano: “E comunque, rispetto a come la fai tu, la bistecca, forse forse sono meglio i vermi!”

“Daven, figlio di un cane! Guarda che poi facciamo i conti!”

Il nano scrollò le spalle, si sollevò sulle braccia, si voltò e riprese a spazzare il bancone. Appesa al muro alle sue spalle c’era una grossa ascia bipenne, con diverse tacche sulle lame, ma ancora molto affilata.

“Ehi” uno dei due giocatori di carte tirò una gomitata all’altro: “Sei tu di mazzo. Muoviti.”

La vita riprese nel locale. Il cucchiaio del vecchio si immerse di nuovo nel piatto, le palpebre socchiuse dietro gli occhiali, concentrate sulla pagina ingiallita: “Tra le proprietà della Mandragola si – slurp – si ricorda l’estrema pericolosità del suo pianto, che sarebbe in grado di...”

“Verso Est, eh?” mormorò uno al tavolo da quattro: “E quanto tempo durerebbe?”

Uro si passò una mano sull’orecchio taurino. Sempre così tanto rumore.

“Alla salute!”

“Se non si estrae – slurp – con la dovuta attenzione…”

“Ehi! È il mio bicchiere quello!”

“Lascia, mischio io, che te non sei bravo!”

“Vedrete, non vi pentirete di aver fatto affari con David l’Onesto!”

Menzogna.

Uro drizzò la testa. Qualcuno aveva mentito.

Di sicuro non poteva essere il vecchio studioso, tutto intento a sorseggiare la sua minestra con un insopportabile risucchio. Uno dei giocatori, forse? Se ne stavano lì, assorti nel gioco… no, improbabile.

Il minotauro digrignò i denti. No, doveva essere stato uno dei quattro.

Oltre alla donna dai capelli bianchi, al tavolo sedevano due uomini e una creaturina verde, un goblin. Degli uomini uno era alto e massiccio, aveva la testa rasata e lo sguardo assente, l’altro era più nella media, aveva una ciocca bianca nei capelli altrimenti neri e una benda sull’occhio destro. Il guercio protese la mano, l’indice che strisciava sul pollice nell’inconfondibile segno dei soldi: “Rimane solo una questione, mi pare…”

“Venti scudi d’oro, di cui la metà anticipati.” la donna lasciò cadere sul tavolo una saccoccia tintinnante: “Come da accordi.”

“Come da accordi!” ripeté il goblin con voce stridula.

Il minotauro si grattò il mento. Qualunque cosa ci fosse sotto, non lo convinceva.

“A lei signore!” un piatto con un’abbondante bistecca cruda si posò sul suo tavolo, servito da un nano con capelli e barba biondi raccolti in lunghe trecce.

Uro mugugnò e annuì. Ora, per quanto riguardava quei quattro…

“Ma allora è davvero un mezzo toro” commentò il cameriere con voce femminea “E anche bello muscoloso…”

“Tieni gli occhi al loro posto, Lagertha!” le urlò contro Daven.

Il minotauro aggrottò un sopracciglio. Come?

“Oh, taci!” rispose a tono il, no, la nana e accarezzò il braccio peloso di Uro “Quando mai mi ricapita di vedere una bestia così?”

Uro si ritrasse ed emise un mezzo ruggito. Ma perché non si levava?

“Focoso” ridacchiò la nana: “Mi piace. Ma davvero mangiate carne cruda voialtri?”

“Lagertha, in nome di Odino!” strepitò il locandiere: “Non disturbare i clienti!”

La moglie fece una smorfia, ma finalmente si allontanò. Il minotauro si grattò la testa sotto il corno. In effetti, gliel’avevano detto che le femmine dei nani avevano la barba… scosse la testa. Non era il momento di distrarsi! A che punto era rimasto?
La donna dai capelli bianchi aveva lasciato il tavolo, erano rimasti solo gli altri tre.

“Quindi, capo, adesso tagliamo la corda?” il goblin voltò la testa da una parte all’altra: “Dieci scudi non sono affatto male come bottino!”

Uro abbassò lo sguardo sulla carne.

“No, Spina” mormorò una voce più aspra: “Restiamo finché non torna la nostra gentile cliente”

“Perché?” bofonchiò un vocione profondo: “Abbiamo i soldi. Possiamo andarcene.”

Delle dita tamburellarono sul tavolo: “Magog… secondo te perché qualcuno dovrebbe pagare venti scudi d’oro per essere accompagnata in un viaggio di neanche due settimane tra andata e ritorno?”

“Eh…” un mugugno, seguito da un piccolo tonfo. Uro sollevò appena gli occhi. Quello grosso giocherellava con un’enorme clava.

Il minotauro afferrò la carne e l’addentò. Il sale gli pizzicò la lingua. Delizioso.

“L’unica spiegazione” continuò l’Onesto “È che sia in cerca di qualcosa, qualcosa…” si passò la lingua sulle labbra: “Che vale ben più di venti monete.”

Spina batté le mani: “Uuuuh. Un tesoro, un tesoro!”

L’uomo colpì il tavolo: “Silenzio, idiota! Vuoi annunciarlo a tutto il mondo?”

Il goblin guaì: “Scusa, capo”

“Quindi noi troviamo il tesoro…” mormorò Magog: “E poi?”

“Imbecille.” David sospirò: “E poi ci teniamo tutto per noi!”

I due lacchè esultarono.

Uro puntò gli zoccoli e trascinò indietro la sedia. Aveva sentito abbastanza. E l’Occhio Indagatore non si era attivato. Non avevano mentito sulle loro intenzioni.

Si ficcò in bocca quel che restava della bistecca e la ingoiò in un sol boccone. Si alzò e passò la mano sul tavolo, per pulirla dal sangue.

Camminò fino al tavolo delle tre canaglie e si scrocchiò le dita.

“Che vuoi?” David l’Onesto si piegò in avanti: “Cerchi rogne, bestione?”

“Avete intenzione di rapinare una donna innocente” Uro sfoderò la spada: “Io giungo a portare la punizione di Nemesi, che mai ignora il sangue versato.”

La bocca dell’umano si aprì in un grande sorriso: “Amico, devi aver capito male” la sua mano si ritirò sotto il tavolo: “Noi non faremmo mai una cosa del genere…”
Menzogna.

Uro si portò l’elsa alle labbra e sussurrò: “Divina Nemesi, riempimi con la Tua giusta ira, perché io possa diventare strumento della Tua giustizia.”

Le fiamme sacre della dea della vendetta divamparono e avvolsero tutta la lama di fuoco rosso sangue.

Il goblin urlò e cadde all’indietro. Il guercio estrasse un pugnale, e lo scagliò contro il minotauro. Uro lo deviò con la spada.

Magog si alzò e gli scaraventò contro il tavolo con un solo movimento. Uro, preso in pieno, cadde all’indietro, e la spada gli scivolò via.

Grugnì.

Spina gli saltò addosso, brandendo un’accetta con entrambe le mani: “Muori, bastardo!”

Uro sollevò il tavolo e parò l’ascia del goblin. Si sporse e lo colpì con un manrovescio. L’esserino verde rimbalzò via, con un acuto: “Aaaaah!” di dolore.

Il minotauro piantò gli zoccoli e si rialzò.

Magog e David lo fronteggiarono, il primo con la sua clava, l’altro con una spada corta.

Lo zoccolo di Uro raschiò sul pavimento. Si lanciò contro Magog, ma all’ultimo scartò di lato, e l’enorme mazza si schiantò a vuoto alle sue spalle.

Il bestione si voltò. Quel bandito era enorme, lo superava di tutta la testa. Il minotauro gli assestò un montante sul mento, e Magog barcollò.

David balzò fuori da dietro il gigante e si lanciò in un affondo, poi un altro, e un altro ancora. Uro indietreggiò. La sua schiena urtò contro il bancone.

“Ora non puoi più scappare, mostro!” gridò l’umano, proprio davanti a lui, e tirò indietro la lama per caricare il colpo fatale.

Uro gli schiacciò il piede sotto lo zoccolo.

Il guercio urlò e crollò a terra gemente. La piccola spada rimbalzò sul pavimento.

“Capo!” strepitò Spina.

Uro allungò il braccio e afferrò il goblin per la collottola.

“No, no, aspetta!” gridò il piccoletto: “Pietà! Pietaaaaaah…”

Il minotauro lo scaraventò dall’altra parte della locanda. Il goblin si schiantò sul tavolo del vecchio studioso, e si rovesciò addosso tutta la brodaglia.

Uro soffiò dal naso. Rimaneva solo quello grosso.

Magog dondolò la clava. Un’arma formidabile, senza dubbio. Ma lenta.

Uro muggì con ardore, poi caricò. Incornò il gigante e lo spinse avanti, avanti, avanti, fino a che non si schiantò contro la parete. Tempestò di pugni il petto del brigante. Anche Magog gli assestò dei colpi sulla schiena, ma dovette usare le mani, era troppo vicino per usare la clava.

Il minotauro si ritrasse, afferrò le spalle del bestione e tirò verso il basso. La faccia di Magog cozzò contro il ginocchio del minotauro a metà strada dal pavimento.

Il bandito si afflosciò a terra, costretto a reggersi sulle braccia, boccheggiante.

Uro tirò il fiato. Si diresse verso l’angolo dov’era caduta la sua spada.

“Bravo!” Lagertha alzò i pugni: “Erano anni che non vedevo una rissa così! Bravissimo!”

“Starai scherzando, donna!” strepitò suo marito, che aveva impugnato la grossa ascia: “Mi hanno sfasciato tutto! E adesso chi lo ripaga tutto ‘sto sfacelo?”

Uro levò in alto la lama e di nuovo le fiamme di Nemesi si accesero.

Un sibilo improvviso gli sfiorò l’orecchio, e un dardo si conficcò nella parete davanti a lui.

“Fermo lì!”

Uro si voltò. Sulla soglia della taverna si stagliava la donna, intenta a ricaricare la balestra.

Il minotauro digrignò i denti: “Non intrometterti”

“Oh, e perché non dovrei?” la vecchia rialzò l’arma: “Dopotutto un gigantesco testone mezzo uomo mezzo somaro ha appena messo fuori gioco la mia scorta!”

David l’Onesto si appoggiò al bancone e si tirò su. Il goblin gli corse incontro e lo aiutò a zoppicare verso l’entrata.

“La tua scorta voleva tenderti una trappola” disse Uro: “Ti ho appena salvato la vita”

La donna alzò gli occhi al cielo, scosse la testa e si fece da parte, per permettere ai tre di fuggire. Uro soffiò. Beh, poteva credergli o no, non faceva nessuna differenza.

Le tre canaglie ruzzolarono fuori dalla porta. Doveva sbrigarsi, o sarebbe stato impossibile raggiungerli.

“Senti, donna” disse: “Non ho motivo di lottare contro di te. Guarda” indicò con la spada fiammeggiante le monete d’oro sparse per terra: “Non voglio i tuoi soldi, puoi riprenderteli.”

Il nano sbatté il manico dell’ascia sul bancone: “Ehi, ehi, ehi, razza di disgraziati! Questa è una locanda perbene, non un tugurio qualsiasi! Pagatemi i danni, altrimenti…”

Uro fremette, poi si ricompose. Non aveva tutti i torti. Era un innocente, dopotutto, e gli aveva recato un danno. Afferrò la sua scarsella, prese un paio di dracme d’oro e le lanciò all’oste, che le afferrò al volo.

“Dovrebbero bastare” disse Uro “Ora vado.”

Daven morse una moneta: “Bah. La gioventù di oggi. Quando ero avventuriero io...”

“Ma sta’ zitto!” sbuffò Lagertha: “Se volessi contare le volte che ti abbiamo raccattato sbronzo e pesto dai pavimenti delle osterie non ti basterebbero le dita neanche se avessi ancora i piedi!”

Il nano intascò le monete e brontolò: “Tre volte maledetto il giorno che ti ho chiesto di sposarmi!”

Uro scosse la testa. Non aveva tempo da perdere.

Uscì a grandi passi dalla locanda.

   
 
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