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Autore: Chiccaxoxo    04/10/2023    2 recensioni
Madara ha scelto la solitudine per fuggire dal dolore e da quel mondo che non sente suo. Ma, dopo tredici anni in compagnia solo del suo diario e del vino, scopre di amare il cugino Obito in un modo diverso. Ora non c’è più il richiamo della passione, Madara desidera solo vedere Obito felice e avere l’affetto della famiglia.
Chiudere il dolore nella gabbia dell’alcol e dell’isolamento, lo ha solo fatto diventare più cattivo.
MadaObi; ObiMada; Madara x Obito Modern AU
Questa storia partecipa al Whumptober 2023.
Prompts usati: Journal; Solitary Confinement; “Make it stop.”
Questa storia partecipa agli Oscar della Penna indetti sul forum Ferisce la Penna
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Madara Uchiha, Obito Uchiha
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto, Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Essere soli, sentirsi soli'
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Si dice che i primi amori siano sempre i cugini. Pensavo succedesse solo ai ragazzini. Come mi sbagliavo! A me è capitato a vent’anni suonati.

Obito. Non lo vedevo da quando era un bambino pestifero e sognatore, sempre con la testa tra le nuvole e il naso nei libri. Le nostre famiglie si erano perse di vista parecchi anni prima, l'ultima volta che io e Obito avevamo giocato insieme io avevo dieci anni e lui otto. Poi, dieci anni dopo, durante le feste di Natale, mia madre aveva deciso di smetterla di portare rancore e li aveva invitati a cena.

Mi ero sentito le guance in fiamme tutta la sera, osservavo Obito stando nascosto nei miei stessi capelli. Ero riuscito a mandare giù solo pochi bocconi e mi erano uscite poco più di due parole in croce. Il cuore mi martellava e il camino era diventato insopportabile, sembrava eruttare lava.

Vent’anni e mi comportavo da adolescente.

Anche Obito aveva parlato poco, impassibile, etereo, difficile capire cosa pensasse. Mi guardava ogni tanto e solo di sottecchi. Non aveva raccontato niente di sé, si era limitato alle gentili formalità

Obito era diventato alto, forse qualche centimetro più di me. Magro. Con le gambe lunghe e slanciate. La pelle olivastra lo rendeva caldo e passionale, non era cadaverica come la mia, si intonava con il nero degli occhi e dei capelli senza contrastarlo.

La sua indifferenza mi feriva come un coltello, per questo, a fine cena, gli avevo proposto di salire nella mia stanza per dare un’occhiata alla libreria.

Era stato facile sgattaiolare via dal salotto mentre le nostre mamme lavavano i piatti e i nostri padri giocavano a scacchi incoraggiandosi a suon di amari. Mio fratello minore Izuna si era già attaccato ai videogiochi. Obito aveva accettato di seguirmi per noia.

Obito era rimasto un quarto d’ora a contemplare la libreria. Io tremavo incapace di sbloccare la situazione. Lui se ne era accorto e mi aveva lanciato un’occhiata tagliente.

Fa freddo, questa casa è un vulcano al piano inferiore e una ghiacciaia a quello superiore” Obito non aveva sollevato lo sguardo dal libro sull’Amazzonia che aveva iniziato a sfogliare.

Gli avevo proposto un tè caldo, lui mi aveva risposto con un grugnito senza guardarmi.

Glielo avevo portato passando tra i nostri padri ormai brilli, le nostre mamme che spettegolavano e Izuna che ormai pareva fuso con la consolle.

Obito era ancora lì, rapito dall’Amazzonia. Gli ero seduto accanto per offrirgli la tazza, non mi aveva neanche ringraziato.

Muovendomi leggero sul materasso, gli ero passato alle spalle. Mi ero avvolto con il piumone e poi avvicinato ancora a Obito. Ammiravo il suo collo sottile mentre stava chinato nella lettura tra un sorso di tè e l'altro. Lo trovavo incantevole con quel maglioncino verde scuro che gli stava a pennello.

Mi ero avvicinato ancora, ormai sentivo il calore della pelle di Obito attraverso i vestiti. Ne avevo bisogno. Gli avevo posato il piumone sulle spalle facendogli capire che volevo scaldarlo, lui ne aveva afferrato un lembo e ci si era avvolto senza sollevare la testa dal libro. Mi ero appoggiato alla sua schiena, Obito si era mosso appena, forse provava finalmente sollievo dal freddo.

Ne avevo sempre più bisogno. Avevo fatto gravare parte del mio peso sulla sua schiena, avevo alzato le braccia per avviluppare Obito nel piumone, stavo attento che non finisse sulle pagine per non disturbarlo. La pressione dei corpi mi faceva sentire il mio costato contro il suo, avevo il respiro accelerato. La stoffa che ricopriva la mia erezione aumentava la smania.

Avevo allargato le gambe per appoggiare le mie cosce su quelle di Obito, gli posai la testa sulla spalla, ciocche dei miei capelli gli erano finite sull'addome.

Il controllo mi sfuggiva, non mi ero accorto di stare inarcando la schiena e che mi ero strofinato sulle sue natiche. Il mio affondo aveva fatto cigolare il letto, il respiro mi tremava.

Il fragore della tazza che si frantumava in terra mi aveva fatto sobbalzare. Obito si era liberato dal piumone, aveva gettato il libro sul letto e poi era scappato dalla stanza.

Quando la macchina dei genitori di Obito si era allontanata, io ero già rannicchiato sotto le coperte squassato dai singhiozzi. Avevo passato così l’intera notte; malgrado Izuna dormisse nella stessa stanza, non si era accorto di niente.

Al mattino avevo preso la mia decisione. Non potevo rivedere Obito. Non ero fatto per questo mondo.

 

Madara Uchiha.

 

 

Senza avvertire nessuno, Madara si era stabilito in una casa di campagna isolata. Era senza telefono e senza rete internet, persino la ricezione delle stazioni radio risultava disturbata. Aveva gettato il suo vecchio cellulare per farsene uno nuovo irreperibile da chiunque, nessuno conosceva la mulattiera disastrata che arrivava a casa sua.

Si era isolato dal mondo, solo il suo diario gli faceva compagnia.

Troppo dolore da gestire. Aveva saputo che Obito era innamorato di una ragazza, Rin. Madara era fuggito via prima che il cugino potesse presentargliela.

Da tredici anni nessuno sapeva niente di Madara.

Il mondo non era fatto per Madara e Madara non era adatto al mondo.

Grazie al suo carattere dominante e organizzativo, in pochi anni Madara era riuscito a piantare un vigneto e un oliveto che gestiva in autonomia e che era la sua unica fonte di sostentamento. La solitudine non faceva male, anzi, gli leniva un poco le ferite che guarivano lente.

Pensava spesso alla famiglia. Durante i primi anni augurava ogni bene a Obito sorridendo nel sole e godendosi la solitudine, nessuno poteva ferirlo adesso.

Però, gli capitava spesso di chiedersi cosa ne avesse fatto della sua vita.

Negli ultimi tempi, rileggeva poco il suo diario, doveva smettere a causa delle lacrime che increspavano la carta e sbaffavano l’inchiostro.

I genitori erano anziani e rischiava di non vederli più, magari Izuna era cambiato.

Madara aveva iniziato a sentirsi solo, la casa era troppo grande e vuota. Le stanze rimbombavano al suo respiro spezzato. La notte non riusciva a dormire, si annodava sudato e ansimante tra le lenzuola logorato dall’angoscia. Era molto dimagrito, il vuoto gli occupava tutto lo stomaco.

L’unica consolazione era nel vino che lui stesso produceva, quando il dolore urlava troppo forte era il solo modo per farlo smettere. La bestia rientrava nella gabbia e, per qualche ora, smetteva di dilaniarlo.

Aveva letto di Obito, sentiva le bottiglie che lo chiamavano dal frigo. Madara non stava male per l’amore perduto del cugino, dopo tredici anni gli interessava solo che Obito potesse essere felice. Avrebbe voluto vedere ancora il suo sorriso, non gli importava più che Obito lo amasse in un certo modo. A Madara ora bastava l’amore di un cugino, di una fratello, della famiglia.

Stava male perché era la solitudine a soffocarlo. Aveva bisogno di parlare, di raccontare.

A ogni bicchiere di vino ingollato, Madara si domandava perché l’effetto tardasse tanto ad arrivare. Il dolore non stava zitto, tredici anni di isolamento lo schiacciavano. Lo aveva deciso lui. Lui era andato seppellirsi in quella casa per non soffrire.

Ma ora stava male da morire.

L’effetto del vino era finalmente arrivato, quando Madara si era alzato sul tavolo c’era uno strato di bottiglie. Un sorriso informe in barba al dolore. Aveva biascicato un vaffanculo.

Era durata poco. Bianco come un cadavere, Madara era dovuto scappare verso il bagno con le mani premute sulla bocca, inciampava a ogni passo.

Si faceva schifo per la fine che aveva fatto.

Aveva vomitato anche le budella con i lunghi capelli sparsi ovunque, anche dentro il water. Era scivolato, aveva sbattuto la fronte sulla ceramica del wc.

Era ridotto male, ma voleva evitare di svenire dentro il cesso. Era riuscito a tirarsi su e a mettersi seduto, ansimava spalmato sulla parete con il viso incrostato in vomito. Sbatacchiava la testa alle piastrelle impotente, stavolta il dolore gridava troppo forte e non era riuscito a farlo smettere.

Sarebbe stato bello avere qualcuno a sostenerlo mentre vomitava, oppure a passargli una pezza bagnata sulla fronte. Ma era solo e lo aveva scelto lui.

Altra risata informe. Madara si contorceva sul pavimento in attesa di potersi mettere in piedi. Non aveva nessuno che lo potesse aiutare a rialzarsi.

Madara aveva gettato il suo vecchio telefono ma prima aveva segnato tutti i numeri su un’ agendina; aveva la copertina gialla e ruvida ed era rimasta sepolta in una cassapanca fino a quel giorno. Erano le tre di notte.

Ora era la rubrica a chiamarlo, non più le bottiglie di vino. Aveva trovato la forza di alzarsi dalle mattonelle sporche di vomito per andarla a recuperare. Aveva composto il numero di Obito con le mani tremanti e la testa che gli pulsava. Era piena notte, ma se il cugino avesse avuto il telefono spento o avesse cambiato numero, Madara avrebbe avuto un malore, il petto gli faceva già male.

“Pronto?” la voce impastata dal sonno aveva risposto dopo cinque squilli.

Madara sentiva la vita uscirgli dal corpo. Sì, era Obito. Udire la sua voce dopo tutti quegli anni lo aveva fatto singhiozzare, non riusciva a dire niente.

“Pronto chi parla?” Obito ora era infastidito, una voce di donna aveva detto qualcosa di incomprensibile in sottofondo.

Madara non sapeva se ridere o piangere, era certo che si trattasse di Rin. Obito era felice e gli bastava questo.

“Obito…” Madara mormorava con un filo di voce.

Pausa. Madara aveva percepito il tremito della mano del cugino attraverso il telefono.

“Madara!” Obito aveva gridato.

Dopo tredici anni di silenzio, si erano scambiati solo poche parole e i loro nomi pronunciati con diverse intonazioni.

“Madara… dimmi dove sei” la voce di Obito era stata un soffio leggero pieno d’affetto.

Madara gli aveva dato indirizzo. Non avrebbe dovuto aspettare la luce del sole per riabbracciarlo.

   
 
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