Ciao
a tutti! Sono CINQUE anni che non pubblico qui, mio Dio.
Sono
arrugginitissima, ma l'Inktober di quest'anno ha dei prompt veramente
interessanti, e mi è venuta voglia di provare a buttar
giù qualcosa
di scritto (ahimè, per disegnare ho ancora meno tempo) su
quello
odierno. E' un esercizio di scrittura più che altro, non una
storia
vera e propria, perché sono davvero, DAVVERO fuori
allenamento, ma
il bisogno di scrivere degli Ineffable Husbands era davvero troppo per
resistergli.
Sperando gradiate comunque, vi auguro buona lettura!
Per Greta, compagna di scleri angelici e non <3
Inktober
2023
6. Golden
Educated
into gold ¹
Anthony J.
Crowley non era certamente (affatto, davvero) estraneo ai piaceri
terreni.
Comprendeva quanto fosse appagante adagiarsi su una
poltrona di velluto, d'inverno, dopo un pranzo luculliano di quattro
portate, o il refrigerio della prima brezza d'autunno appena finita
l'estate; capiva perfettamente l'appeal dell'indossare
una blusa di seta morbida lasciata slacciata quanto bastava
perché
il suddetto refolo di vento ottobrino sfidasse il costoso tessuto a
chi gli avrebbe regalato la carezza più piacevole.
Inoltre,
ciò che anche sapeva benissimo, era quanto alle volte fosse
conveniente affiancare a certi piaceri, una dose di dose di sano,
corroborante, edonismo.
Quel
pranzo di quattro portate, dopotutto, era servito ad entrare nelle
grazie di un certo sovrano,
e quella camicia strategicamente adagiata sulla curva delle spalle,
quanto bastava per scoprire un invitante petto d'alabastro, era
occorsa affinché il sovrano si facesse persuadere
(sedurre?) a intraprendere una guerra abbastanza cruenta e alquanto
inutile con il regno confinante.
Quello che però avrebbe sempre
fatto fatica a comprendere, era il bisogno tutto umano di adornarsi
di inutili e vistosi orpelli preziosi.
“Ma
sono carini!” aveva detto una volta Aziraphale, una frase che
ripeteva spesso, come se la semplice gratificazione estetica fosse
per lui una giustificazione a tutto. “E poi sono di un colore
così
particolare.”
Aziraphale, rispettando quella legge degli opposti
che sembrava vigere tra loro ormai da secoli (millenni?), era invece
sempre impaziente di aggiungere altri inutili ammennicoli alla sua
collezione, gelosamente custodita insieme ai più preziosi
dei suoi
volumi, oltre che sulla sua persona.
“Sarà, ma per me
l'orologio è più che sufficiente. E' leggero, ci
leggo che ora è e
non devo sollevare il mio peso in metallo quando cerco di grattarmi
il naso.”
Aziraphale aveva arricciato il suo di naso, in quella
maniera buffa e tutta sua di mostrare disappunto, e aveva scosso la
testa.
“Beh, ti dirò che hanno anche
un'utilità sentimentale.
Per esempio, questo” aveva indicato l'anello d'oro che teneva
al
mignolo, “-a me ricorda la nostra prima volta assieme in
Scozia.
Sai, un orafo l'ha modellato dalla moneta d'oro regalataci da quel
simpatico uomo alla locanda.”
Crowley, sbuffando, aveva cercato
di trattenere una risata riuscendoci a stento.
“Quel tizio ti
aveva scambiato per un- uomo di piacere”
il demone aveva tenuto a sottolineare, nonostante fosse un ricordo su
cui non gli piaceva particolarmente soffermarsi, “e quella
serviva
a comprare la tua compagnia
per la notte.”
L'angelo
era avvampato e aveva distolto lo sguardo dal suo nel giro di un
attimo, prendendo a giocare nervosamente con il gingillo che gli
fasciava il dito.
“Vorrei ricordarti che il mio abito si
confaceva perfettamente
al luogo” aveva replicato con un tono offeso che
però peccava
della convinzione iniziale.
“...se fossimo stati in un bordello.
Beh, in effetti è curioso che tu ne conservi un promemoria.
Dimmi di
più” lo aveva stuzzicato Crowley, mordendosi la
lingua per non
scoppiare definitivamente.
I loro sguardi erano tornati a
incrociarsi, Aziraphale ancora della stessa identica
tonalità
carminio del muro del pub alle sue spalle, e, alla fine, avevano riso
entrambi: insieme, come facevano ormai ogni cosa.
Non erano più
entità separate neanche nelle azioni quotidiane
più scontate,
quelle che si fanno senza accorgersene.
L'acqua nel bollitore, da
un giorno che nessuno dei due davvero riusciva a ricordare, era
sempre stata versata per due, che fossero insieme o meno.
Due
saponette sul lavabo.
Due calici per il vino sul tavolino da
caffè.
E quel giorno di Ottobre, in una Londra ventosa, in piedi
su un marciapiede affollato di Soho, Crowley aveva desiderato per la
prima volta una moneta d'oro che potesse trasformare in un ricordo
di quella
risata.
Poi aveva
scosso la testa, come volendo scacciare materialmente quel pensiero
dalla sua mente.
“Allora, dove hai voglia di cenare?”
§
Crowley
è solo, in un letto che è sfatto da giorni.
Il sole penetra
dalle tendine che Aziraphale aveva tessuto con le sue mani, durante
quel periodo in cui, ossessionato da un vecchio manuale di uncinetto,
aveva deciso che avrebbe adornato le finestre della sua stanza con un
discutibile primo tentativo.
Non erano mai realmente servite ad
alcuno scopo: la luce penetrava nei fori fra i punti malamente
intrecciati, riversandosi su Crowley, costringendolo a serrare gli
occhi e a nascondersi sotto le lenzuola spiegazzate.
C'era ancora
il suo profumo, dopo tre settimane.
Tre
settimane.
Due giorni.
Sei ore.
Non
sapeva perché avesse rimesso piede in quel posto, adesso che
aveva
di nuovo una casa sua, adesso che la tazza di tè era tornata
ad
essere una, così come il sapone sul lavandino, e il vino
della
riserva speciale di Aziraphale passava direttamente dalla bottiglia
al suo stomaco senza inutili step intermedi.
Aveva agito contro la
sua stessa volontà, come se qualcuno avesse scollegato ogni
barlume
di raziocinio da un corpo che non gli rispondeva più, ma che
sembrava invece reagire alla familiarità di quei libri
impolverati,
all'arredamento pomposo, fuori moda, alle luci soffuse più
scure di
fiamme di candela morenti.
Muriel non gli aveva detto niente,
quando lo aveva visto entrare, riappropriarsi di quegli spazi come se
ne fosse il legittimo proprietario (lo era? No?), come se fosse
un'entità lì nata e che per sempre vi avrebbe
vissuto, prima
corporea e dopo immateriale.
“Signor Crowley” aveva solo
sussurrato, la testa bassa, guardandolo dal filtro delle palpebre
come se avesse imparato il significato di timidezza.
“Bentornato.”
Non avevano avuto conversazioni molto diverse,
da quel giorno.
Crowley aveva vissuto
da quel momento, e non aveva fatto molto altro. Le giornate erano
trascorse su di lui, intorno a lui, senza che nulla lo tangesse, come
se tutto accadesse senza riguardarlo. I giorni si erano avvicendati,
le bottiglie di vino smezzate, poi svuotate, e lui era rimasto
lì,
impegnato a esistere
perché non poteva dare ad Aziraphale la soddisfazione di
guardare
giù e vederlo piangere, disperarsi, strapparsi l'anima a
mani
nude.
Impassibile, si volta verso la finestra, uscendo dalla sua
tana di seta e cotone, riabituandosi alla luce del giorno. Fissa gli
occhi sul cuscino accanto al suo, vuoto, sprimacciato, ma nessuno vi
ha dormito la sera prima, o quella precedente.
Due giorni.
Sei ore.
Prima.
Allunga
la mano su quel cuscino, e gli pare di sentirlo caldo, come se
qualcuno vi si fosse destato da poco. Se chiudesse gli occhi Crowley
potrebbe quasi immaginare il rumore dei passi di Aziraphale per le
scale, attutiti dalle sue ridicole pantofole, e il rumore di una
padella poggiata sul fuoco, al piano di sotto. Il profumo delle uova,
che permea l'aria, mentre l'angelo canticchia una canzone di un
secolo passato.
Ma non ha mai vissuto niente di tutto questo.
Non
si è mai svegliato accanto ad Aziraphale, non l'ha mai visto
stiracchiarsi, alla luce del sole che di certo si sarebbe riflessa in
quei riccioli dello stesso colore eburneo, adamantino, accecante. Non
lo ha mai visto sorridere appena sveglio, gli occhi ancora gonfi di
un sonno di cui non ha mai avuto bisogno ma in cui gli piaceva
indulgere, perché dormire era un po' come mangiare, per
Aziraphale:
una delizia magari inutile, ma divenuta indispensabile.
Eppure,
Crowley quasi sembra conservarne un ricordo.
Forse
sta impazzendo, uscendo di senno, per quanto possibile per una
creatura ultraterrena. Forse è questo che accade quando
diventi
indesiderato in entrambi i luoghi che in passato hai chiamato casa:
ti ritrovi in un limbo, che non è quello dell'inferno, ma
uno
peggiore, uno in cui diventi umano, rimani
umano,
e non più per scelta ma per condanna.
Condannato ad avere un
cuore, a provare, sentire.
Le
mani di Crowley, all'improvviso poi, sfiorano qualcosa. E'
impalpabile, quasi sfugge alla sensibilità del suo tocco,
eppure
allo stesso tempo è inconfondibilmente lì.
Lo
coglie con le mani, prima che la brezza dalla finestra possa
spazzarlo via: è un filo sottile, dorato, quasi bianco,
corto ma
abbastanza lungo da poterlo stringere tra le dita.
E' un
capello.
Un capello di Aziraphale.
Non sa cosa succede, Crowley
l'angelo, Crowley il demone, Crowley l'essere umano che è
diventato
a sua insaputa e suo malgrado. Non sa cosa succede quando sfiora quel
filo quasi invisibile, quel frammento dell'uomo che ama che
è solo
una parte infinitesimale di lui, di quello che è stato, di
quello
che continua ad essere ma lontano da lui, là dove non
può tornare,
dove non può andare.
“Fanculo” il demone sussurra, mentre gli
occhi gonfi di lacrime che non ha sentito arrivare cominciano a
scorrere sulle guance, lungo il collo, sul tessuto martoriato di un
cuscino su cui non dorme realmente da troppo tempo. “Fanculo,
angelo.”
Sono parole di un odio che non prova, Anthony J.
Crowley, che non prova nei confronti dell'unica personificazione
dell'amore che abbia mai conosciuto, che è quanto di
più lontano dal risentimento, dal rancore, dal disprezzo
possa esistere e sia mai
esistito.
Riluce sul suo anulare sinistro, quel filo che sembra
plasmato d'oro, come quei ricordi
che al suo angelo piaceva edulcorare di ottimismo, fondere, cesellare
e poi modellare in qualcosa che potesse portarsi dietro, adornandosi
di un passato che voleva ricordare, e che a Crowley piaceva pensare
fosse perché condiviso
con lui.
Quel gioiello dal peso di un respiro era ora avvolto a
quel dito che gli sposi fasciano di anelli che sono promesse, e
Crowley non cerca più di trattenere niente.
Piange,
urla quasi, si morde la lingua e il sapore del sangue, che sa di
Terra e di Inferno e di Paradiso, è tutto quello che riesce
a
sentire, perché quella promessa, quel ricordo che mai
è davvero
stato tale è ora un orpello indesiderato che non riesce a
sfilarsi
via dalla mano, che brucia come fuoco ma allo stesso tempo lo solleva
come l'acqua ristora un assetato.
E' condannato, di nuovo.
A
indossare quell'anello, quella voto nuziale, quel costante promemoria
della sua umanità, dell'amore che prova che è
più forte di ogni
altro sentimento: è innamorato di Aziraphale nonostante la
scelta
che ha fatto, e nulla cambierà questo fatto, una certezza
che
rimarrà immutabile, eterna,
finché
avrà vita il mondo e quel che c'è sopra e sotto.
Crowley
fissa il suo dito, alla luce del sole che si è attenuata, e
non
riesce a capire se sia ancora mattina, o se il giorno sia scivolato
nel pomeriggio senza che lui se ne fosse accorto.
Lo
guarda e pensa che, nonostante tutto, sia bellissimo. Perché
è
suo.
Chiude
gli occhi.
Forse
proverà a dormire.
*
¹
Il
titolo è parte di una citazione di Mark Twain:
«Everything has its limit - iron
ore cannot be educated into gold.»