Libri > Good Omens
Ricorda la storia  |      
Autore: SAranel    06/10/2023    3 recensioni
«Non si è mai svegliato accanto ad Aziraphale, non l'ha mai visto stiracchiarsi, alla luce del sole che di certo si sarebbe riflessa in quei riccioli dello stesso colore eburneo, adamantino, accecante. Non lo ha mai visto sorridere appena sveglio, gli occhi ancora gonfi di un sonno di cui non ha mai avuto bisogno ma in cui gli piaceva indulgere, perché dormire era un po' come mangiare, per Aziraphale: una delizia magari inutile, ma divenuta indispensabile.
Eppure, Crowley quasi sembra conservarne un ricordo.
Forse sta impazzendo, uscendo di senno, per quanto possibile per una creatura ultraterrena. Forse è questo che accade quando diventi indesiderato in entrambi i luoghi che in passato hai chiamato casa: ti ritrovi in un limbo, che non è quello dell'inferno, ma uno peggiore, uno in cui diventi umano, rimani umano, e non più per scelta ma per condanna.»
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ciao a tutti! Sono CINQUE anni che non pubblico qui, mio Dio.
Sono arrugginitissima, ma l'Inktober di quest'anno ha dei prompt veramente interessanti, e mi è venuta voglia di provare a buttar giù qualcosa di scritto (ahimè, per disegnare ho ancora meno tempo) su quello odierno. E' un esercizio di scrittura più che altro, non una storia vera e propria, perché sono davvero, DAVVERO fuori allenamento, ma il bisogno di scrivere degli Ineffable Husbands era davvero troppo per resistergli.
Sperando gradiate comunque, vi auguro buona lettura!

Per Greta, compagna di scleri angelici e non <3


Inktober 2023
6. Golden



Educated into gold ¹


Anthony J. Crowley non era certamente (affatto, davvero) estraneo ai piaceri terreni.
Comprendeva quanto fosse appagante adagiarsi su una poltrona di velluto, d'inverno, dopo un pranzo luculliano di quattro portate, o il refrigerio della prima brezza d'autunno appena finita l'estate; capiva perfettamente l'appeal dell'indossare una blusa di seta morbida lasciata slacciata quanto bastava perché il suddetto refolo di vento ottobrino sfidasse il costoso tessuto a chi gli avrebbe regalato la carezza più piacevole.
Inoltre, ciò che anche sapeva benissimo, era quanto alle volte fosse conveniente affiancare a certi piaceri, una dose di dose di sano, corroborante,
edonismo.
Quel pranzo di quattro portate, dopotutto, era servito ad entrare nelle grazie di un certo
sovrano, e quella camicia strategicamente adagiata sulla curva delle spalle, quanto bastava per scoprire un invitante petto d'alabastro, era occorsa affinché il sovrano si facesse persuadere (sedurre?) a intraprendere una guerra abbastanza cruenta e alquanto inutile con il regno confinante.
Quello che però avrebbe sempre fatto fatica a comprendere, era il bisogno tutto umano di adornarsi di inutili e vistosi
orpelli preziosi.

Ma sono carini!” aveva detto una volta Aziraphale, una frase che ripeteva spesso, come se la semplice gratificazione estetica fosse per lui una giustificazione a tutto. “E poi sono di un colore così particolare.”
Aziraphale, rispettando quella legge degli opposti che sembrava vigere tra loro ormai da secoli (millenni?), era invece sempre impaziente di aggiungere altri inutili ammennicoli alla sua collezione, gelosamente custodita insieme ai più preziosi dei suoi volumi, oltre che sulla sua persona.
“Sarà, ma per me l'orologio è più che sufficiente. E' leggero, ci leggo che ora è e non devo sollevare il mio peso in metallo quando cerco di grattarmi il naso.”
Aziraphale aveva arricciato il suo di naso, in quella maniera buffa e tutta sua di mostrare disappunto, e aveva scosso la testa.
“Beh, ti dirò che hanno anche un'utilità sentimentale. Per esempio, questo” aveva indicato l'anello d'oro che teneva al mignolo, “-a me ricorda la nostra prima volta assieme in Scozia. Sai, un orafo l'ha modellato dalla moneta d'oro regalataci da quel simpatico uomo alla locanda.”
Crowley, sbuffando, aveva cercato di trattenere una risata riuscendoci a stento.
“Quel tizio ti aveva scambiato per un-
uomo di piacere” il demone aveva tenuto a sottolineare, nonostante fosse un ricordo su cui non gli piaceva particolarmente soffermarsi, “e quella serviva a comprare la tua compagnia per la notte.”
L'angelo era avvampato e aveva distolto lo sguardo dal suo nel giro di un attimo, prendendo a giocare nervosamente con il gingillo che gli fasciava il dito.
“Vorrei ricordarti che il mio abito si confaceva
perfettamente al luogo” aveva replicato con un tono offeso che però peccava della convinzione iniziale.
“...se fossimo stati in un bordello. Beh, in effetti è curioso che tu ne conservi un promemoria. Dimmi di più” lo aveva stuzzicato Crowley, mordendosi la lingua per non scoppiare definitivamente.
I loro sguardi erano tornati a incrociarsi, Aziraphale ancora della stessa identica tonalità carminio del muro del pub alle sue spalle, e, alla fine, avevano riso entrambi: insieme, come facevano ormai ogni cosa.
Non erano più entità separate neanche nelle azioni quotidiane più scontate, quelle che si fanno senza accorgersene.
L'acqua nel bollitore, da un giorno che nessuno dei due davvero riusciva a ricordare, era sempre stata versata per due, che fossero insieme o meno.
Due saponette sul lavabo.
Due calici per il vino sul tavolino da caffè.
E quel giorno di Ottobre, in una Londra ventosa, in piedi su un marciapiede affollato di Soho, Crowley aveva desiderato per la prima volta una moneta d'oro che potesse trasformare in un
ricordo di quella risata.
Poi aveva scosso la testa, come volendo scacciare materialmente quel pensiero dalla sua mente.
“Allora, dove hai voglia di cenare?”





§



Crowley è solo, in un letto che è sfatto da giorni.
Il sole penetra dalle tendine che Aziraphale aveva tessuto con le sue mani, durante quel periodo in cui, ossessionato da un vecchio manuale di uncinetto, aveva deciso che avrebbe adornato le finestre della sua stanza con un discutibile primo tentativo.
Non erano mai realmente servite ad alcuno scopo: la luce penetrava nei fori fra i punti malamente intrecciati, riversandosi su Crowley, costringendolo a serrare gli occhi e a nascondersi sotto le lenzuola spiegazzate.
C'era ancora il suo profumo, dopo tre settimane.


Tre settimane.
Due giorni.
Sei ore.


Non sapeva perché avesse rimesso piede in quel posto, adesso che aveva di nuovo una casa sua, adesso che la tazza di tè era tornata ad essere una, così come il sapone sul lavandino, e il vino della riserva speciale di Aziraphale passava direttamente dalla bottiglia al suo stomaco senza inutili step intermedi.
Aveva agito contro la sua stessa volontà, come se qualcuno avesse scollegato ogni barlume di raziocinio da un corpo che non gli rispondeva più, ma che sembrava invece reagire alla familiarità di quei libri impolverati, all'arredamento pomposo, fuori moda, alle luci soffuse più scure di fiamme di candela morenti.
Muriel non gli aveva detto niente, quando lo aveva visto entrare, riappropriarsi di quegli spazi come se ne fosse il legittimo proprietario (lo era? No?), come se fosse un'entità lì nata e che per sempre vi avrebbe vissuto, prima corporea e dopo immateriale.
“Signor Crowley” aveva solo sussurrato, la testa bassa, guardandolo dal filtro delle palpebre come se avesse imparato il significato di
timidezza. “Bentornato.”
Non avevano avuto conversazioni molto diverse, da quel giorno.
Crowley aveva
vissuto da quel momento, e non aveva fatto molto altro. Le giornate erano trascorse su di lui, intorno a lui, senza che nulla lo tangesse, come se tutto accadesse senza riguardarlo. I giorni si erano avvicendati, le bottiglie di vino smezzate, poi svuotate, e lui era rimasto lì, impegnato a esistere perché non poteva dare ad Aziraphale la soddisfazione di guardare giù e vederlo piangere, disperarsi, strapparsi l'anima a mani nude.
Impassibile, si volta verso la finestra, uscendo dalla sua tana di seta e cotone, riabituandosi alla luce del giorno. Fissa gli occhi sul cuscino accanto al suo, vuoto, sprimacciato, ma nessuno vi ha dormito la sera prima, o quella precedente.



Tre settimane.
Due giorni.
Sei ore.

Prima.

Allunga la mano su quel cuscino, e gli pare di sentirlo caldo, come se qualcuno vi si fosse destato da poco. Se chiudesse gli occhi Crowley potrebbe quasi immaginare il rumore dei passi di Aziraphale per le scale, attutiti dalle sue ridicole pantofole, e il rumore di una padella poggiata sul fuoco, al piano di sotto. Il profumo delle uova, che permea l'aria, mentre l'angelo canticchia una canzone di un secolo passato.
Ma non ha mai vissuto niente di tutto questo.
Non si è mai svegliato accanto ad Aziraphale, non l'ha mai visto stiracchiarsi, alla luce del sole che di certo si sarebbe riflessa in quei riccioli dello stesso colore eburneo, adamantino, accecante. Non lo ha mai visto sorridere appena sveglio, gli occhi ancora gonfi di un sonno di cui non ha mai avuto bisogno ma in cui gli piaceva indulgere, perché dormire era un po' come mangiare, per Aziraphale: una delizia magari inutile, ma divenuta indispensabile.
Eppure, Crowley quasi sembra conservarne un
ricordo.
Forse sta impazzendo, uscendo di senno, per quanto possibile per una creatura ultraterrena. Forse è questo che accade quando diventi indesiderato in entrambi i luoghi che in passato hai chiamato casa: ti ritrovi in un limbo, che non è quello dell'inferno, ma uno peggiore, uno in cui diventi umano,
rimani umano, e non più per scelta ma per condanna.
Condannato ad avere un cuore, a provare,
sentire.
Le mani di Crowley, all'improvviso poi, sfiorano qualcosa. E' impalpabile, quasi sfugge alla sensibilità del suo tocco, eppure allo stesso tempo è inconfondibilmente
.
Lo coglie con le mani, prima che la brezza dalla finestra possa spazzarlo via: è un filo sottile, dorato, quasi bianco, corto ma abbastanza lungo da poterlo stringere tra le dita.
E' un capello.
Un capello di Aziraphale.
Non sa cosa succede, Crowley l'angelo, Crowley il demone, Crowley l'essere umano che è diventato a sua insaputa e suo malgrado. Non sa cosa succede quando sfiora quel filo quasi invisibile, quel frammento dell'uomo che ama che è solo una parte infinitesimale di lui, di quello che è stato, di quello che continua ad essere ma lontano da lui, là dove non può tornare, dove non può andare.
“Fanculo” il demone sussurra, mentre gli occhi gonfi di lacrime che non ha sentito arrivare cominciano a scorrere sulle guance, lungo il collo, sul tessuto martoriato di un cuscino su cui non dorme realmente da troppo tempo. “Fanculo, angelo.”
Sono parole di un odio che non prova, Anthony J. Crowley, che non prova nei confronti dell'unica
personificazione dell'amore che abbia mai conosciuto, che è quanto di più lontano dal risentimento, dal rancore, dal disprezzo possa esistere e sia mai esistito.
Riluce sul suo anulare sinistro, quel filo che sembra plasmato d'oro, come quei
ricordi che al suo angelo piaceva edulcorare di ottimismo, fondere, cesellare e poi modellare in qualcosa che potesse portarsi dietro, adornandosi di un passato che voleva ricordare, e che a Crowley piaceva pensare fosse perché condiviso con lui.
Quel gioiello dal peso di un respiro era ora avvolto a quel dito che gli sposi fasciano di anelli che sono promesse, e Crowley non cerca più di trattenere
niente.
Piange, urla quasi, si morde la lingua e il sapore del sangue, che sa di Terra e di Inferno e di Paradiso, è tutto quello che riesce a sentire, perché quella promessa, quel ricordo che mai è davvero stato tale è ora un orpello indesiderato che non riesce a sfilarsi via dalla mano, che brucia come fuoco ma allo stesso tempo lo solleva come l'acqua ristora un assetato.
E' condannato, di nuovo.
A indossare quell'anello, quella voto nuziale, quel costante promemoria della sua umanità, dell'amore che prova che è più forte di ogni altro sentimento: è innamorato di Aziraphale nonostante la scelta che ha fatto, e nulla cambierà questo fatto, una certezza che rimarrà immutabile,
eterna, finché avrà vita il mondo e quel che c'è sopra e sotto.
Crowley fissa il suo dito, alla luce del sole che si è attenuata, e non riesce a capire se sia ancora mattina, o se il giorno sia scivolato nel pomeriggio senza che lui se ne fosse accorto.
Lo guarda e pensa che, nonostante tutto, sia bellissimo. Perché è
suo.
Chiude gli occhi.
Forse proverà a dormire.



*


¹ Il titolo è parte di una citazione di Mark Twain:
«
Everything has its limit - iron ore cannot be educated into gold.
»

  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Good Omens / Vai alla pagina dell'autore: SAranel