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Autore: Briseide    16/09/2009    9 recensioni
Lui è un avvocato.
Lei è la sua ex fidanzata. L'altra lei è la sua assistente. L'altro assistente è frustrato. La studentessa è distratta.
E nella vita bisogna sempre tirarsi fuori da un cliché.
[riveduta, marzo 2011]
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: I personaggi di questa storia sono puramente inventati. Qualsiasi riferimento a fatti o persone realmente accaduti o esistenti è puramente casuale. Idem per i cognomi presenti, tutti scelti a caso.

 

Altre note a fine storia.

Cliché.

 

 

Era iniziato tutto con il porta-aceto.

O più correttamente, era finito tutto, con il porta-aceto.

“Non metti mai l’aceto in tavola” aveva detto la sera prima Chiara, posando la forchetta nel piatto, con una calma meticolosa e una placidità studiata che non lasciavano presagire niente di buono. Andrea non aveva risposto, aspettando che il silenzio solito in cui erano avvolti nelle loro ore pasti le togliesse anche quella volta ogni desiderio di iniziare polemiche di dubbia utilità.

“A me piace l’aceto” andò avanti lei, invece, rimettendo al lato del piatto anche il coltello. Il che avrebbe dovuto rassicurare Andrea, invece gli diede la perfetta misura di quanto fosse catastrofico quello che ne sarebbe conseguito. Chiara adesso lo stava guardando, aspettando una sua reazione, o anche un minimo cenno di comprensione riguardo al punto focale del suo monologo. Andrea si versò da bere, sostenendo il suo sguardo con gli stessi occhi imperscrutabili che riservava alle facce sgomente dei suoi studenti in sede d’esame, in università.

“E detesto, lo sai, la senape, ma metto sempre il barattolino al centro del tavolo, quando mangiamo la carne” insistette, sibilando.

“Chiara…” iniziò allora Andrea, prendendo atto di dover fermare subito la valanga di recriminazioni che languivano da un anno sotto la lingua della sua compagna.

“Ti accorgi che la sedia davanti a te è occupata?” lo aveva interrotto lei, garantendogli che quella sera non avrebbe avuto voce in capitolo, non una sola occasione di dare sfoggio della sua retorica allenata dai suoi studi giuridici e praticata compiacendosi del proprio riflesso nel cucchiaino del caffè la mattina.

“Entro da un anno nel tuo letto e ancora non ho le chiavi di questa casa” diede il via all’elenco. Andrea finì il vino che aveva nel bicchiere, sentendo di non avere più molta fame. Lasciò perdere anche il contorno, il caffè, l’amaro dopo il caffè e passò direttamente alla sigaretta di routine.

“Non so di che colore sono le pareti del tuo studio, non ho mai guidato la tua macchina… non sono neanche mai stata gelosa delle tue ex, perché non mi hai mai raccontato niente. E’ un diritto della fidanzata ufficiale, odiare le ex del proprio uomo, avvocato, e tu mi privi di questo diritto”.

“Chiara, io e te abbiamo un concetto di rilevanza giuridica piuttosto diverso” si permise di farle notare con un sospiro stanco. Il giorno dopo avrebbe avuto lezione alle otto, come tutti gli altri. Avrebbe anche dovuto discutere con il rettore di facoltà, fingendo il solito garbato possibilismo in merito alle sue idee quando invece non vedeva altro possibile rimedio all’idiozia e alla pochezza culturale di quell’uomo se non una rassegna di dimissioni. Ma quando mai.

“Me ne frego, della rilevanza giuridica!” esclamò Chiara, serrando le dita smaltate contro il collo del bicchiere come se fosse il collo di Andrea. Lui ne ebbe piena percezione e non seppe se riderne o preoccuparsene. “Sai cosa significa? Sì che lo sai” continuava, ormai lanciata nella sua arringa. “Perché tu te ne freghi di tutto! Tu hai un serio problema relazionale, Andrea, lascia che te lo dica.”

“Ti ringrazio, ne parlerò con il mio analista”.

Per un attimo il sardonico distacco delle sue parole sembrò lasciare attonita Chiara e la sua furia.  Non che fosse una novità, dopotutto, da quando era divenuto capace di intendere e volere Andrea aveva fatto del più sincero e dissacrante cinismo il suo cavallo di battaglia, in sella a cui affrontare le più disparate e spiacevoli incombenze della vita. Non aveva mai dubitato che Chiara fosse stata attratta dal suo modo impeccabile di vestire in facoltà, dal sorriso irridente e l’amore per se stesso e per il suo lavoro, piuttosto che per il suo carattere. Ed era andato tutto liscio, all’inizio il loro era stato un perfetto contratto, l’espressione della comune volontà delle parti, che ne delineava la sintonia sessuale e la simpatia condivisa per il caffè a stomaco vuoto nel bar all’angolo dell’università.

Poi lui era stato distratto, evidentemente, dalla routine, dalla sua noia, dall’affezionata cura della propria persona. Gli era sfuggito il momento in cui Chiara aveva intrapreso i suoi voli pindarici e dipinto la loro storia come un naturale processo evolutivo verso la tenera e appassionata condivisione di progetti di vita e di vacanze al mare con gli amici.

“Non devi parlarne con il tuo analista” gli stava dicendo in quel momento, a proposito, con voce accorata. “Devi parlarne con me”.

Seguì un silenzio carico di sgomento da parte di Andrea, e di aspettative da parte di Chiara.

“Stavo facendo del sarcasmo” replicò spazientito, versandosi ancora da bere. “Non abbiamo mai discusso dei termini del nostro rapporto” aggiunse, alzandosi, d’improvviso prigioniero nella propria cucina.

“Ne parli come se fosse—” si interruppe lei, con un certo, scenografico, orrore nello sguardo.

“Non ho nessun problema relazionale con te” cercò di spiegarle Andrea, il più delicatamente possibile, per non dover fare fronte anche all’isterismo del suo orgoglio offeso. “Né con i miei genitori o con me stesso” aggiunse in fretta, togliendole la possibilità di costruire psicologie turbate intorno alla semplice mancanza di volontà di avere una “storia” – come andava di moda dire – con lei. “Non vedo il motivo di darti le chiavi di questa casa, considerando che ne hai una tua, e che passiamo tutto il giorno fuori dietro i nostri impegni”. Chiara avrebbe voluto suggerirgli che una convivenza non le sarebbe dispiaciuta, ma come le era mancato il coraggio di avanzare la proposta in tutti quei mesi, le mancò anche quella sera.

“E le mie storie passate hanno il pregio di essersi concluse. Non vedo perché mai una Alice o una Roberta dovrebbero avere l’obbligo di avere a che fare con te solo perché ti stai arrogando il diritto di dichiarare loro guerra. In nome di cosa poi?” concluse più che soddisfatto del suo argomentare, e spegnendo la sigaretta nel posacenere.

“Alice e Roberta? Dubito che ti sia limitato solo a due—”

“Sono nomi ipotetici. Smettila, Chiara” le intimò considerando l’idea di accendere un’altra sigaretta. O di tornare ad aprire il cassetto dei segreti e tirare fuori l’altro genere di fumo, che mai avrebbe ammesso di aver provato di fronte a terzi diversi dalla sua coscienza.

“Smettila nel senso di Zitta e mangia? Tu fingi di non vedere il problema, Andrea, io sono—”

“Sì, certo, tu sei innamorata di me. Così io posso passare una notte insonne a rimuginare sui fasti di quest’anno trascorso insieme, capire di aver vissuto una vita a metà fino ad ora, fare appello a tutto il mio coraggio e venirti a prendere al lavoro, chiederti di sposarmi, farlo davvero e poi fare un figlio, e un altro a distanza di non oltre cinque anni dal primo. E poi porterei a casa un cane, magari. E tu mi chiederesti di comprare una station wagon. Una familiare a cinque porte, con annesso il seggiolino e lo scalda biberon…”

Chiara era già arrivata alla porta, quando lui era appena arrivato al concepimento del secondo figlio.

“Sei uno stronzo, Andrea” gli comunicò con la sicurezza di un addetto stampa. Poi tornò indietro, afferrò il suo codice civile dal secondo scaffale della libreria nell’ingresso e glielo lanciò con tutta la forza del suo amore.

Andrea, esattamente come aveva appena fatto con la forza dell’amore di Chiara, lo schivò.

“Dovrebbe esserci una sezione speciale su quelli come te!” la sentì urlare sul pianerottolo.

“… invierò una mozione alla Corte costituzionale” mormorò lui, godendosi la pace del silenzio.

 

*

 

“Come fai a passare un anno insieme ad una persona e a non affezionarti neanche un po’?” gli chiese la mattina dopo Amanda, cercando sul fondo della borsa il suo rossetto.

“E tu come fai a passare tutta la giornata alla ricerca del fondo della tua borsa?”

Amanda ignorò il dettaglio riguardo l’antipatia di quello che in tutta la facoltà di Giurisprudenza alla fine doveva definire il meno antipatico, per forza di cose.

“La vita degli assistenti è dura” sancì estraendo il rossetto e svitando il tappo. Salvo scoprire di aver messo in borsa quello finito. “Sei un disastro” commentò senza alcuna smanceria Andrea, tenendole aperto il portone d’ingresso, perché almeno non si facesse travolgere dalla marea di universitari alle sue spalle.

Lui della  vita degli assistenti ne sapeva poco.

Alla metà dei trent’anni era professore ordinario, e a chi commentava il fatto con un banale e fatalista “che fortuna!”, non perdeva tempo ad opporre il poco tempo in cui si era laureato, gli anni spesi in America e in Inghilterra per allargare le sue competenze e il suo curriculum, gli scrupoli che non aveva perso tempo a porsi quando si era trattato di preparare un concorso e la passione per l’oggetto dei suoi studi e del suo lavoro.

Sapeva di essere una rarità, e che il suo posto avrebbe dovuto difenderlo con i denti, perché essere un homo novus nel baronato universitario equivale ad essere ad un passo costante dal precariato. Tuttavia lo teneva al sicuro il ruolo extra universitario di consulente per società sulla via dell’affermazione nel mercato economico, e le sue collaborazioni ormai più che occasionali con riviste e quotidiani economici nazionali. Tutto surplus che aveva il potere di incidere sul suo status di docente ordinario.

Amanda, ad esempio, con i suoi boccoli deliziosi e il sorriso simpatico sulle labbra tinte di rossetto, aveva avuto meno occasioni di lui alla sua età. Non dubitava che la vita di un assistente fosse dura e frustrante per molti aspetti, e forse solo per questo si tratteneva a volte dal parlare di quanto fosse altrettanto complicato e stancante – o forse a volte solo noioso – fare i conti con la propria cattedra universitaria, giorno dopo giorno, dopo giorno, dopo giorno.

“Quanti ne bocci a questa sessione?” lo riscosse la sua voce.

“Il dovuto” replicò a colpo sicuro, con un sorriso ironico sulle labbra, a lasciare intendere di aver colto il rimprovero rivoltogli ma di non avere alcuna intenzione di dichiararsi colpevole di alcunché, soprattutto dell’intransigenza con cui trattava le preparazioni dei suoi studenti.

“Sai, tu sei un ottimo insegnante, Andrea” rispose Amanda, battendogli un colpo sulla spalla - faceva fatica a raggiungerlo, nonostante camminasse su dieci centimetri di tacco d’abitudine – “sei solo un po’ troppo stronzo”.

“E tu stai bene anche senza rossetto”. Il sorriso di prima era ancora al suo posto sulle labbra.

Amanda lo squadrò alcuni secondi, davanti all’Aula2.

“Non fare il ruffiano” gli intimò, giocando con la sua femminilità nonostante si fosse imposta anche quella mattina di non farlo, quando aveva visto la figura di Andrea andarle incontro lungo il viale.

“Sono oggettivo. Infatti hai anche delle scarpe orribili” soggiunse, indicandole con un cenno della testa. Amanda abbassò subito lo sguardo, non comprendendo come qualcuno potesse trovare orribile una scarpa Sergio Rossi. “E quella non è natura, è una tua responsabilità” le giunse la voce di Andrea, piena di saccente simpatia.

“Io sto dalla parte di Chiara” comunicò infine, voltandogli le spalle stizzita.

“Non c’è nessuna controversia in corso!” alzò la voce lui, per farsi sentire in mezzo al tumulto dell’università in pieno risveglio mattutino.

Lo sguardo di accondiscendenza di Amanda, intravisto tra la folla, gli fece temere di non aver capito niente, in fondo, del mondo femminile. O forse solo di Chiara.

 

*

 

Alberto Scarpelli, barista ufficiale de L’ora legale, di statistica non sapeva assolutamente niente, ma era più che certo che in proporzione a tutti i caffè in vetro ristretti che buttava giù nell’arco di una giornata, di cui la maggior parte a stomaco vuoto, il professor Minati avesse una gastrite.

“Un caffè in vetro, ristretto”. A proposito.

“Arriva subito, professore!” replicò prontamente, confermando la diagnosi. Non ci voleva di certo il Dottor House, checché ne dicesse sua moglie lamentandosi del loro medico della mutua.

Andrea ignorò l’aria critica con cui gli venne servito il suo caffè, allungando una mano per prendere la solita bustina di zucchero, rigorosamente di canna. Per quanto odiasse ammetterlo, Amanda in tutto il suo parlare a vanvera era riuscita a coinvolgerlo in quella moda alternativa. Adesso anche lui faceva parte della categoria di persone che sostiene di sentire nello zucchero di canna un gusto diverso dallo zucchero normale.

L’automatismo della sua azione venne interrotto però da qualcosa, che poi scoprì essere qualcuno, scaraventatosi a rotta di collo sul bancone del bar, nell’esatto punto in cui fino ad allora sostava indisturbata la zuccheriera.

“Alberto, scusa hai – oh cazzo, scusa!” piovve dalla bocca di quella che infine apparve essere un essere umano di genere femminile. Alberto sia era tirato su, smettendo di litigare con la lavastoviglie solo per prendere atto che la zuccheriera era rovinosamente franata nel lavandino e il suo contenuto era sparso tra il lavandino e il bancone.

E che qualcuno lo stava guardando estremamente mortificata.

“Fa niente, fa niente” mormorò agitando una mano e passando sopra l’accaduto nel passare lo straccio sopra al bancone, invece. Con un’occhiata obliqua captò l’espressione del professor Minati appena in tempo per allungare verso di lui l’altra zuccheriera, alla sua sinistra.

“Dicevi?”

La ragazza si riprese dal mea culpa con uno scatto, sporgendosi per vedere l’entità dei danni.

“Non è che hai visto un codice di procedura civile?” domandò, sbirciando verso i tavoli alle sue spalle. Alberto aggrottò la fronte, riflettendoci.

Considerando che il suo locale assomigliava molto più ad un centro per il recupero di oggetti smarriti che ad un bar, gli parve plausibile pensare che oltre al portafoglio della giornalaia lì davanti, ai cinque ombrelli che aveva trovato l’altra sera chiudendo il bar, e i due cellulari della settimana scorsa, potesse esserci anche un codice di procedura civile, o quel che era.

“Anitaaaaaaaaaaa!” urlò perforando il timpano dei presenti, incluso quello di Andrea.

“Eeeeeeeeeh?” gli fece eco quella della moglie, dall’altra parte, perforandogli anche l’altro timpano.

La ragazza fonte di tutto quell’inquinamento acustico se ne stava appoggiata al bancone, con l’unica preoccupazione di non recuperare il suo strumento di studio, anziché prendere atto di essere una disturbatrice della quiete pubblica.

“No dolcezza, non lo abbiamo visto” le comunicò dispiaciuto il barista qualche secondo dopo.

La ragazza lo guardò come se gli fosse spuntato un pomodoro al posto della testa d’improvviso.

“Ma non è possibile, l’ho lasciato sul tavolo, quello lì!” mormorò confusa, indicando un tavolino traballante accanto alla vetrina. “Ho l’esame tra due giorni…”

“Non so dove possa essersi ficcato” si scusò ancora Alberto, pensando di offrirle la colazione, sinceramente colpito dal puro panico che le aveva scolorito la faccia.

“Sarà andato in cerca della Sua testa” si intromise poi una voce, rivolgendosi verso di lei, con un tono troppo derisorio perché potesse fingere di non averlo sentito.

“Mi scusi, ci conosciamo?” domandò alterata.

 “Spero di non avere mai l’onore, altrimenti saprò che non ha studiato”.

A quel punto Valeria – quella che aveva perso testa e codice di procedura civile – perse anche ogni speranza di poter raddrizzare la giornata.

“Sono due mesi che preparo questo esame, la pregherei di non infierire ulteriormente” replicò passandosi una mano tra i capelli, del tutto dimentica di aver speso tre ore a costruire una coda che non le lasciasse sfuggire ciuffi da tutte le parti, quella mattina. Ovviamente distrusse il risultato di quelle lunghe ore di lavoro architettonico.

“Lungi da me. Spero non fosse della biblioteca giuridica di facoltà, almeno” si sentì in dovere di chiederle, in quanto co-responsabile della struttura, a tempo perso. In aggiunta al fatto che qualsivoglia manifestazione di disorganizzazione, sciatteria e fatalismo lo indisponevano da sempre. Da quando suo fratello a cinque anni aveva lasciato le castagne raccolte nello zaino che gli aveva prestato, dando adito ad un nuovo ecosistema di ricrearsi lì dentro. Strani vermi inclusi.

“No, era di mio padre. Questo immagino le dia ancora più soddisfazione” borbottò Valeria, sotto lo sguardo di viva partecipazione di Alberto.

“Mi segua” le ordinò più che dirle Andrea pagando il suo caffè, dopo un lungo secondo meditativo. Valeria sgranò gli occhi, cercando quelli di Alberto vagamente preoccupata.

“Che fa? Mi arresta per abbandono di buonsenso?”

Andrea aprì la porta del bar, lasciandola aperta in attesa che l’indisponente studentessa si decidesse a seguirlo sul serio. Sulle sue labbra sottili tuttavia si era disegnato un mezzo sorriso, che tutto sommato avrebbe anche potuto definire rallegrato.

“Tutto al più potrei denunciarla. È sicura di voler dare questo esame, signorina?” domandò alternando ironia e abuso di potere alla cavalleria con cui le fece cenno di passare per prima.

“Le procuro un altro codice” chiarì, per fugare ogni resistenza che ancora albergava negli occhi scuri e piccoli di Valeria.

“Nel caso in cui il suo non torni al bar prima di due giorni” aggiunse, costringendola a ricredersi sulla sua inaspettata cortesia.

 

*

 

“Non Le avevo detto di seguirmi?” domandò Andrea quando finalmente vide spuntare il profilo di Valeria dietro l’angolo. Lei lo guardò interdetta e con sempre meno simpatia.

“Lei sta seguendo un percorso alternativo, perché la biblioteca è—”

“Chiusa, alle due di pomeriggio” le fece notare, impeccabile come lo aveva visto essere in ogni altra cosa. Nel chiudere la macchina con il telecomando della chiave, un colpo sicuro e deciso, tic, chiusa. Nell’aprire il portone d’ingresso della facoltà, che cercava di trascinarsi dietro Valeria tutte le volte che aveva cercato di ricorrere alla sua sola forza. Niente, lui gli aveva imposto di rimanere aperto sorreggendone il peso con il palmo di una sola mano. E dire che poteva dirsi tonico ma di certo non un campione di pesi massimi. E infine l’aria con cui camminava per i corridoi della facoltà, come se effettivamente fosse sua, in senso giuridico di proprietà, rifletté Valeria affiancandolo di nuovo, per le scale.

E poi, ovviamente, sapeva a memoria gli orari della biblioteca.

“Quindi?”

“Mi segua nel mio studio, le do una copia di quelle che mi ha fornito la biblioteca” spiegò tirando fuori le chiavi – dalla tasca giusta, naturalmente, mentre Valeria, Amanda e gran parte del resto del mondo avrebbero come minimo cercato nella tasca sbagliata per due volte – del suo ufficio ed aprendo la porta.

“Mi piacerebbe riaverlo indietro, questo” specificò aprendo la teca e tirando fuori il benedetto codice. Si voltò, porgendolo a Valeria con aria solenne, ma la trovò intenta a scrutare l’enorme scatola poggiata sul suo tavolo, che lui non aveva notato entrando. Abbandonata lì sopra aveva un aspetto spettrale ed escatologico tuttavia cercò di dissimulare il presagio in presenza di una studentessa.

“Mi lasci le sue generalità, per il codice” disse tenendo d’occhio la scatola, come se dovesse saltare in aria da un momento all’altro. “Sembrano buone notizie” commentò Valeria, frugando nella borsa in cerca della carta d’identità. A dire dal nastro annodato in un fiocco che chiudeva la composizione, più che una bomba ad orologeria sembrava una comunicazione straordinaria. Tuttavia l’aria preoccupata del professor simpatia le faceva pensare un possibile contrario, il che la divertiva abbastanza, proprio lei che il sadismo lo trovava fuori luogo e fuori moda.

“La pregherei di limitarsi a parlare con me di quanto concerne l’ambito giuridico e didattico, signorina” le intimò annotando da parte nome, cognome e numero del documento.

“Mi scusi” mormorò lei, riprendendo il suo documento. “Era per dialogare, un fatto sociale”.

Andrea le rivolse uno sguardo molto chiaro in merito al suo concetto di fatto sociale, comportamento etico e tutela degli interessi personali.

“Lei è un po’ un cliché, sa?” aggiunse poi, prendendo il codice di procedura civile e avviandosi alla porta dello studio. La sfacciataggine di quella confidenza che si era concessa deliberatamente con lui lo distolse per un attimo dall’agghiacciante immagine del contenuto della scatola. Forse ci avrebbe trovato l’orecchio del rettore.

“Prego?” le chiese, volutamente minaccioso. Non sortì un effetto particolare.

“Sì, senza offesa”.

“Sarebbe il minimo”.

A quel punto Valeria si sentì in dovere di difendere la propria posizione e fornirgli una spiegazione appropriata che confermasse le intenzioni dichiarate. “Intendevo dire… il giurista che subordina tutto alla legge. Il genere di persona che dà una gerarchia ai sentimenti come se fossero criteri di interpretazione di un contratto. Sempre senza offesa. È solo uno studio antropologico, la prenda così” concluse in fretta, rendendosi conto, per la prima volta in una vita di disattenzioni e sconsideratezze, di aver decisamente varcato il confine della decenza. Ad un passo dalla laurea, per giunta, che avrebbe già ottenuto se non fosse stato per quel maledetto esame che non voleva essere superato.

Andrea rimase in silenzio per lunghi secondi, fissandola torvo e attento come se fosse uno strano esemplare di uccello esotico; poi d’improvviso infranse quello stato di trance in cui sembrava essere caduto e con un buffo tono alla Perry Mason, disse: “Lei non studia in questa facoltà, vero?”

Valeria considerò l’idea che non volesse ucciderla, e stabilì che al confronto essere espulsa non era poi un male tanto grande. “No. Sono… studio a Scienze politiche” biascicò aprendo la porta.

Andrea prese un respiro profondo, chiuse gli occhi, incrociò le braccia, poi tese un solo braccio verso di lei e le fece cenno di restituirle il codice. O almeno così lo interpretò Valeria.

“Allora non le serve questo. Le serve un codice civile per dare l’esame di Diritto Privato”.

Valeria lo guardò allibita. “E io cosa ho detto?”.

Di nuovo, Andrea prese un profondo respiro. “Fino ad ora Lei ha parlato a sproposito di un codice di procedura civile”.

Un lampo illuminò lo sguardo annebbiato di Valeria.

“Mi sbaglio sempre. Intendevo davvero dire un codice civile”. Si giustificò nel tempo in cui Andrea sbatté il codice di procedura civile nella teca, estraendo il codice civile e porgendoglielo di nuovo, in un gesto secco.

“Se ne vada, adesso” proclamò stancamente, in modo decisamente teatrale pensò Valeria, piuttosto umiliata dalla faccenda, ma accolse il gentile invito e si ritirò in retromarcia, con un “Mi scusi per la confusione, grazie, mi scusi anche ancora per il cliché, grazie, arrivederci!”.

 

*

 

Una volta solo nel suo studio, Andrea fumò le restanti due sigarette del pacchetto.

Poi si decise ad aprire la scatola.

Tagliò il fiocco con le forbici, e sollevò il coperchio scaraventandolo lontano, neanche fosse fatto di acciaio bollente. Poi con molto poco coraggio e una non troppa cautela, diede un’occhiata dentro.

Con sommo orrore ne estrasse quello che sembrava a tutti gli effetti e fino a prova contraria un ciuccio. Seguito da un altro qualcosa che aveva l’aspetto di un biberon, e che finì con il fare compagnia al coperchio. Sotto al biberon era adagiato un coupon di un Villaggio Vacanze, con cerchiato in rosso un’offerta per tre, in alta stagione. Infine, sotto al coupon troneggiava quello che senza ombra di dubbio era il preliminare di un contratto definitivo. E altrettanto indubbiamente, Andrea scoprì che si trattava del preventivo d’acquisto di una macchina a cinque porte familiare.

Sul fondo della scatola, con lo stesso inchiostro rosso del Villaggio Vacanze (lo stesso che si usa nei film splatter, pensò Andrea con una trista analogia), troneggiavano le parole: Spero che ti sia venuto un infarto. Stronzo.

A quel punto, Andrea cercò una terza sigaretta, senza trovarla.

Poi riprendendo lucidità dopo lo sgomento e il sollievo degli ultimi due minuti, ne trascorse altri cinque, seduto alla sua scrivania, con gli occhi sul soffitto e le braccia dietro la testa, a domandarsi se per caso Chiara in quel momento non stesse dando fuoco alla sua macchina, lì fuori.

Infine chiamò la sua banca per scoprire ciò che già sapeva: la vacanza era stata pagata con la sua carta di credito. Chiamò anche il concessionario di automobili per scoprire anche in quel caso cosa già sospettava: che le trattative Chiara le aveva iniziate spacciandosi per sua moglie, e lasciando come numero di referenza quello di Andrea.

Mettendo giù la cornetta, e lasciando il suo studio per andare a comprare un nuovo pacchetto di sigarette, Andrea non poté fare a meno di pensare che tutto sommato a lungo termine sarebbe stato meglio dare a Chiara una copia delle sue chiavi di casa, piuttosto che lasciarle scritto il codice della sua carta di credito per pagare quello stupido smoking per il matrimonio di sua sorella.

 

*

 

“C’era scritto proprio così? Spero che ti sia venuto un infarto, stronzo?” domandò di nuovo, per sicurezza, Amanda, con aria gioviale.

Andrea la guardò dall’alto della sua tazzina di caffè, con odio sincero.

“La cosa ti soddisfa enormemente, non è vero?” domandò risentito, mandando giù il caffè in un sorso. Amanda inzuppò con tutta calma il suo cornetto nel cappuccino. Andrea la guardò nascondere un sorriso dietro lo zucchero in polvere e la crema, con il divertimento di una bambina, e poi portare alle labbra la tazza bollente.

“Non hai trovato il rossetto neanche oggi” osservò, notando che il bordo della tazza non era macchiato. Amanda cancellò le tracce delle briciole dal suo golf nero, con una alzata di spalle.

“Qualcuno mi ha detto che sto bene anche senza” rispose a bassa voce, con il tono che si addice ad un segreto, per quanto avrebbe preferito che il segreto più grande – che un commento del professor Minati la compiacesse e determinasse il suo look della giornata – rimanesse tale.

Andrea sorrise, recuperando la sua borsa da lavoro dal bancone, abbassando lo sguardo. “Ma hai sempre quelle scarpe orribili” constatò scherzando.

Amanda lasciò che pagasse anche il suo cappuccino, obbligandosi ad un po’ di decoro, almeno professionale, se non emotivo. “Non sono affatto orribili. Ogni tanto dovresti mettere in discussione le tue certezze” commentò anticipandolo fuori dal bar.

Alberto raccolse soldi e mancia, mentre sua moglie Anita accanto a lui scuoteva la testa, fissando torva professore ed assistente uscire dal bar. “Tutti uguali, sono” borbottava cambiando il filtro del caffè. Suo marito come sempre non ascoltava i suoni confusi dei suoi rimbrotti. “Che ci ho guadagnato io a sposare te? Un bar. Vedi, se mi sposavo un bel professore, diventavo l’assistente! Sai che… Alberto? Eh, figurati se mi ascolti. Manco per sbaglio. La volta che dico qualcosa di interessante, poi vedi.”

Suo marito alzò la testa dalla lavastoviglie, che neanche quel giorno gli rendeva facile il lavoro. “Ad esempio?” domandò troppo occupato per seguire il filo logico della questione.

“Ho deciso cosa lasciarti in eredità” sancì sua moglie, porgendo il caffè macchiato alla giornalaia lì di fronte, che anche quel giorno avrebbe dimenticato sul bancone il suo portafoglio.

“Ti ascolto” rispose suo marito, perplesso.

Anita provò il forte desiderio di chiuderlo nella lavastoviglie, anche quella mattina.

 

*

 

Dopo aver siglato l’ennesimo misero e scialbo 22 sul libretto di uno studente medio, Andrea decise di averne momentaneamente abbastanza. Batté con le dita sul microfono della sua cattedra, avvisando tutti che avrebbero fatto una pausa e gli esami sarebbero ripresi alle due e mezza.

“Che ne hai fatto del mio 28?” gli domandò Amanda, nel cortile della facoltà.

Andrea ci pensò su, distratto.

“Mi hai mandato un 28?”

“Sì, perché tu confermassi il voto. Ma quando l’ho visto andare via non aveva più la faccia di un 28” spiegò Amanda.

“Ah sì. Avrà avuto la faccia di un 25” rispose Andrea, cercando di evitare il suo sguardo.

Amanda scosse la testa, sinceramente risentita a nome del povero studente.

“Era molto preparato” insistette, andando a sedersi su una panchina poco più in là. Andrea la seguì, reticente, consapevole di sé. “Ma tu inibisci gli studenti. Gli avevo dato 28! Come hai fatto a…” Andrea le rivolse uno sguardo di finta attesa per la conclusione della domanda. Soddisfazione che Amanda, con il più delizioso dei sospiri, gli tolse. “Lascia stare. Il professore sei tu. Io non dovrei neanche darti del tu” proclamò parlando più a se stessa che all’altro.

Era difficile lavorare con uno come lui, che del dialogo non sapeva che farsene e interpellava l’altro solo su raccomandazione minacciosa del rettore o se il caso proprio lo richiedeva come necessità. E probabilmente lei aveva iniziato a vederlo con occhi diversi dal giorno in cui aveva preso l’abitudine di chiederle pareri, su questo e su quello, niente che avesse a che fare con il loro lavoro, certo, per carità, sia mai che l’illustre professor Minati avesse dei dubbi in merito all’interpretazione di un contratto. Un giorno poi aveva nominato Chiara, un altro ancora il suo migliore amico, che era avvocato associato a New York e con cui aveva perso quasi ogni contatto che non fosse il ricordo della vita da studenti che avevano diviso.

Aveva compreso che Andrea fosse una persona da scoprire e ricomporre, da prendere come esempio da seguire e come modello di cose da non fare – dire – pensare. A fatica, tra mille incertezze, qualche porta in faccia, le solite discussioni, era riuscita ad ottenere una vittoria, ad imporgli la complicata arte della dialettica, a parlare con lui senza stare solo ad ascoltare, ma facendosi anche sentire.

Durante tutto questo processo, che Amanda aveva messo in atto in un primo momento per una questione di principio, di rivalsa professionale, era anche riuscita a captare degli aspetti di Andrea che aveva solo potuto sospettare o sperare fossero parte di lui.

Le gentilezze nascoste dietro un commento critico, ad esempio. Quella sua abitudine gentile di pagarle la colazione, con quel modo di fare naturale e per niente formale che si usa con una persona vicina e considerata, e non con un collega subordinato.

Si era sforzata di non cedere mai alle proprie debolezze, di restare sempre sul suo stesso piano, di non andare oltre, di conservare il sarcasmo e l’ironia e lasciar perdere la delicatezza con cui avrebbe voluto parlargli quando si accorgeva di quanto fosse stanco alla fine di una giornata con cento studenti esaminati.

“Amanda, ti sembra che io sia un cliché?” disse d’improvviso Andrea, e lei quasi sussultò, colta in flagrante in quei pensieri. Lo guardò senza capire.

“L’avvocato concentrato sul lavoro che—”

“Intendi dire se sembri il tipo che troverebbe più attraente la Boccassini piuttosto che la sua assistente?” domandò ironica, fino al secondo in cui comprese di averlo detto sul serio. Di aver davvero scelto quel termine di paragone, di aver ceduto alla più banale delle lezioni freudiane.

Andrea rise per quella battuta. Il che peggiorò notevolmente la giornata di Amanda.

“Sì, una cosa del genere. Sono quel tipo, secondo te?”

Amanda comprese in quel momento cosa significasse arrampicarsi sugli specchi e cercare disperatamente di non scivolare, servendo sul piatto ad Andrea la possibilità di licenziarla, subito, in tronco, per violazione dell’etica professionale.

“Immagino che questo dovresti dirmelo tu” sussurrò infine, flebilmente, troppo perché potesse sembrare l’Amanda spigliata e disincantata di sempre. Sebbene quella fu forse la prima volta che le capitò di vedere Andrea Minati imbarazzato. Per di più per qualcosa che lei aveva detto.

“Beh, credo che Vittorio voglia ricominciare gli esami” aggiunse poco dopo, pur di evitare di stare seduta su una panchina con Andrea, nel cortile dell’università, a sentirsi come la studentessa che era stata una volta, che affogava nei principi codicistici il pensiero del primo uomo che l’aveva fatta sentire… come si sentiva ora. “Stasera ha a cena i suoi genitori, dice che deve prepararsi psicologicamente almeno tre ore prima” continuò, alzandosi e recuperando i fogli che aveva lasciato sulla panchina.

“Voi assistenti state preparando un colpo di mano?” domandò Andrea, assecondando la sua proposta tuttavia. “Quello è da 28, gli esami riprendono adesso, la lezione la spostiamo di pomeriggio…” le fece il verso, raggiungendo l’ingresso principale. Di nuovo, come sempre, tenne aperto il portone per Amanda.

“Non so se sei un cliché, ma di sicuro sei suscettibile” gli fece notare, entrando.

In lontananza scorse Vittorio rientrare in aula, con una certa fretta.

“Consapevole delle mie qualità”.

“E autoreferenziale”.

“C’è dell’altro?”

“No, Chiara mi ha rubato le parole”.

Andrea la guardò oltraggiato.

“Potrei licenziarti” le fece notare, con quel solito vizio di abusare del proprio potere. Amanda gli sorrise.

“Sì, ma dubito che la Boccassini accetterebbe di farti da assistente”.

 

*

 

“Mi stavo chiedendo come ha fatto Chiara ad entrare nel mio ufficio”.

Amanda recuperò le chiavi della macchina nella tasca del cappotto, dopo aver frugato in tutte le tasche della sua borsa. “Non sapeva neanche dov’era”.

Poi si impegnò accuratamente perché i verbali di esame entrassero simmetricamente all’interno della sua cartellina. Andrea la guardò, non visto, non aspettandosi un suo silenzio. Lei che in genere aveva idee fantasiose, e soprattutto che guardava troppi telefilm polizieschi in televisione.

“Avrà corrotto gli inservienti della pulizia” rispose, agitando la mano con fare vago. Lei così precisa nelle sue analisi sui profili psicologici delle persone, era un aspetto divertente per lui, che invece osservava da lontano, spaventato dai profondi abissi della psiche umana.

“Amanda” la chiamò infine, vedendola di nuovo distratta da qualcosa di totalmente ininfluente. Aspettò allibito che la smettesse di affaccendarsi in altre faccende. Poi, le rivelò l’intuizione.

“Sei stata tu”.

“Ho la macchina qui”.

Andrea aggrottò la fronte.

“La tua macchina è rossa”.

“Nuova”.

“La vecchia?”

“Rotta, incidente, mercoledì sera”.

“Eravamo ad un seminario, mercoledì sera. È finito alle nove, eri in macchina con Vittorio”.

“Sì, già, poi sono uscita—”

“Ma se eri distrutta”.

Amanda frenò la sequela di patetiche giustificazioni per commuoversi all’idea che Andrea avesse notato la sua stanchezza. Un attimo dopo si preoccupò di cosa lo avesse reso palese, ossia dello stato dei suoi capelli, o delle occhiaie che magari aveva coperto male con il fondotinta, o…

“Amanda” la chiamò di nuovo Andrea, con un sorriso di sorpresa sulle labbra. “Sei stata tu” proclamò trionfante sul caso misterioso.

Amanda gliela diede vinta.

 

*

 

Vittorio era a stento sopravvissuto alla cena di famiglia, quasi avvelenato dai commenti di sua madre riguardo la piattezza preoccupante della sua vita sentimentale, quasi stroncato dallo sguardo giudice di suo padre rispetto al professore ordinario che non sarebbe mai diventato per sue incapacità nel settore, del tutto ucciso dalla gloriosa persona di suo fratello e di sua moglie, che avevano annunciato di aspettare un secondo figlio.

Nessuno dei suoi genitori aveva pensato al mutuo ancora acceso e tutt’altro che spento che pendeva sulla famiglia del valente Edoardo, o al lavoro da casalinga di sua moglie, che avrebbe dovuto essere provvisorio e invece sarebbe durato per sempre, valutava Vittorio, se nei periodi di noia sceglievano di mettere al mondo un figlio per ravvivare il rapporto.

Ma nessuno aveva chiesto il suo parere, e suo padre non aveva mancato di far notare subdolamente quanto sarebbe stato più appropriato chiamare Edoardo con  il nome Vittorio.

Quella mattina i tacchetti di Amanda gli erano entrati nel cervello, risuonando nella desolazione dei suoi pensieri e tutto aveva voglia di ascoltare tranne le trame complicate della vita sentimentale del professore di cui era assistente.

Soprattutto considerato il suo curriculum ed il proprio, che dava dolorosamente ragione a suo padre.

“Amanda, avrebbe potuto licenziarti per una cosa del genere!” l’aveva rimproverata, sentendosi miracolato all’idea di poter fare una lezione a qualcuno, una volta tanto.

Lei lo aveva guardato con tre chilogrammi di rimmel sulle ciglia, con il solito sorriso alla Amanda e con l’aria affranta di chi comunque è ben lontana dall’ottenere quello che spera.

Perché, sebbene lei come tutti lo ritenesse un semplice uomo laureato, con la passione per il basket e una moto vendutagli dal fratello (“Non per niente, Vittorio, ma così almeno ci paghiamo tranquillamente l’asilo di Alessia”), Vittorio sapeva di essere molto altro. Incluso un fine osservatore. E che Amanda da un giorno all’altro avesse iniziato a vedere Andrea Minati con occhi decisamente diversi, era più che palese.

“Hai fatto entrare qualcuno nel suo studio! È violazione della privacy! Tu non dovresti neanche avere le chiavi del suo studio— aspetta, perché ce l’hai?” esclamò di colpo, fissandola stralunato. Amanda temette per un momento di vederlo tingersi di verde sul serio, come nelle favole di Fedro.

“Cosa fate nel suo studio?” azzardò, non volendo in realtà conoscere la risposta.

Amanda lo guardò più che offesa. “Nien— cosa? Io e Minati? Nel suo studio? Io e Minati nel suo studio! Ma come ti permetti!” replicò, sbattendo la tazzina di caffè nel piattino.

Anita, la barista, le lanciò uno sguardo fulminante.

“No, niente. Certo che non fate niente. Scusa, ho esagerato con la fantasia” rientrò nei ranghi Vittorio, sentendosi pericolosamente vicino ad un collasso nervoso. Amanda pensò che non fosse il caso di piantargli il tacco delle sue Sergio Rossi dove aveva pensato di piantarglielo. Non le parve carino, infierire ulteriormente su di lui.

“Comunque, questi sono i programmi per le lezioni del prossimo semestre” annunciò, porgendole il plico di fogli. “Li ho dovuti stampare, mettere in ordine, numerare e fotocopiare” illustrò con intenti di colpevolizzazione. “Perché non so cosa tu stessi facendo, ma Minati quella mattina ha incontrato solo me”. Amanda sfogliò il programma, mordendosi un labbro per non rispondere sgarbatamente come la sua coda di paglia le suggeriva di fare.

“Ah ma certo. Non ti ha trovata perché eri nel suo studio con la sua ex moglie” constatò Vittorio un attimo dopo, scoprendo come manovrare quello strano e tagliente strumento che era il sarcasmo.

“Non è la sua ex moglie, è la sua ex e basta” puntualizzò Amanda, pagando il proprio caffè. “Non c’è gusto a fare colazione con te. Non mi hai neanche fatto prendere il cornetto”.

Anita incrociando lo sguardo di Vittorio scoprì in quella circostanza che qualcuno oltre lei provava istinti omicidi nei confronti di Amanda.

“Senti, Amanda” la fermò lui appena fuori dal bar, afferrandola per un gomito. “Da assistente ad assistente, te lo devo dire” proseguì in tono grave. Amanda si sentì leggermente in soggezione.

“Se pensi di farti trovare nuda nel suo studio e convincerlo a sposarti, devi dirmelo con un certo anticipo. Ho diritto a cercarmi un altro professore che voglia un assistente serio e capace”.

Amanda resistette all’impulso di fargli notare di avere una laurea cum laude, diversi attestati, il tirocinio presso un notevole studio legale e un anno passato in Inghilterra ad approfondire i suoi studi di diritto comparato, e che a tutto quello aveva solo l’immane sfortuna di dover aggiungere una inclinazione sentimentale verso il professore di cui era assistente, che di certo non avrebbe incluso nel suo curriculum.

E resistette anche all’ancora più forte impulso di fargli un discorsetto sui luoghi comuni che la gente gretta, insensibile, storicamente ignorante e mentalmente chiusa ha normalmente verso le donne, e verso le donne assistenti di professori universitari.

“… e in ogni caso” proseguiva Vittorio “fino a quel momento, non farmi mai più alcuna confidenza. Io e te non siamo amici, chiaro? Siamo colleghi. E in quanto tali, possiamo anche competere. E infatti, sinceramente, io ti detesto. Non ti sopporto”. Amanda fece per rispondere, ma non c’era verso di fermare il delirio logorroico del suo collega. “Perché mi ricordi mia cugina, che a tredici anni non ha voluto ballare con me alla mia festa, e perché Minati ti preferisce a me”.

“Tu sei matto” statuì Amanda in conclusione. Vittorio la guardò rassegnato.

“No no, io sono frustrato, è diverso. Io sono frustrato” rispose, incamminandosi sconsolato verso il rettorato.

 

*

 

Dal giorno del pacco-regalo Andrea non aveva più avuto notizie di Chiara.

Accettò quella scomparsa dalla sua vita con la serenità dell’indifferenza.

Una sera, mentre si versava un po’ di vino bianco nel bicchiere, gli tornò alla mente la cena in cui Chiara lo aveva lasciato, tirandogli dietro il codice civile (che a proposito, Valeria era passata a restituire, scusandosi ancora per la storia del cliché) e a quello che aveva detto Amanda, il giorno dopo.

“Come fai a passare un anno insieme ad una persona, e a non affezionarti neanche un po’?”

A quella domanda non aveva risposto, perché era più semplice parlare della borsa di Mary Poppins in cui Amanda portava in giro – e perdeva –  gli accessori della sua femminilità.

In verità non si era neanche accorto che fosse passato un anno. Il tempo era trascorso indolente, in una pigra quotidianità, dove Chiara appariva sullo sfondo ma mai al suo fianco. Non lo aveva fatto con intenzione, forse questo era sfuggito a Chiara, forse questo non era stato in grado di spiegarle. Faceva parte della persona che era, questo andare avanti senza fare mai troppo caso a chi lo seguisse o meno, chi restasse indietro, chi si adagiasse in silenzio al suo fianco.

Notava solo le persone che avessero l’ardire – o la capacità – di superarlo, che lo sfidassero in qualcosa; e le persone e le cose colorate, che bucassero il grigiore della monotonia senza eccedere, senza uscire dagli schemi, perché fare rivoluzioni era un metodo risolutivo troppo semplicistico, secondo lui, e un’opera destinata a rimanere sempre incompiuta, perché tipico dell’uomo è mettere mano a qualcosa che ha rovinato e distruggerla, piuttosto che perdere tempo a cercare il fallo e minuziosamente ricoprire l’errore con correzioni.

Di queste persone, così colorate, nella vita non ne aveva incontrate che due.

Una era la Giurisprudenza, così dinamica a dispetto della fissità con cui era percepita da chi non metteva il naso tra le sue mille facce; a dispetto di chi la trovasse chiusa senza conoscere il gioco di interpretazioni che metteva a disposizione, gli infiniti modi di giungere alla stessa conclusione, la singola frase con cui demolire una certezza processuale.

L’altra era Amanda, probabilmente, con quel rossetto sulle labbra, o con quel biondo dei suoi capelli, e le scarpe Sergio Rossi che lui trovava orribili e lei adorabili, e l’entusiasmo con cui affrontava ancora ogni dinamica del mondo universitario, ancora convinta che da qualche parte fosse annidato un punto di svolta, e che bisognasse continuare a girare angoli prima di svoltare in quello giusto.

Con il suo interesse per l’internazionale, la curiosità con cui guardava fuori dall’Italia. L’ironia con cui fronteggiava ed addolciva il suo sarcasmo, la sfrontatezza con cui si prendeva confidenze di troppo e l’imbarazzo con cui troppo tardi cercava di chiedere scusa.

Si rese conto, quella sera, che la sua quotidianità non era fatta da altro che da quello, nel suo punto più vivo: dalla legge e il dinamismo dei suoi giochi, e da Amanda e i suoi colori.

Tutto il resto rimaneva sullo sfondo, una presenza rassicurante alcune volte, oppure soffocante.

Quindi, non lo sapeva come fosse possibile passare un anno insieme ad una persona e non affezionarsi neanche un po’.

Conoscendo Amanda, la domanda che in quel momento gli veniva spontaneo porsi, era come fosse possibile non vivere la vita in tutto il suo cromatismo.

Come fosse possibile non essere come Amanda.

Si chiese anche cosa pensare di sé. A quanto si sentisse ombroso, in realtà, a dispetto dei mille colori di sgargiante presenza di sé che mostrava in aula ai suoi studenti.

Si domandò se per caso quei colori non fossero altro che il riflesso abbagliante di quelli di Amanda, poco lontano da lui.

 

*

 

“Io mi licenzio” gli comunicò Amanda una settimana dopo, bussando alla sua porta alla fine dell’orario di ricevimento per gli studenti.

“Vai a lavorare per la Boccassini?” la prese in giro, aprendo la finestra per accendersi una sigaretta.

Amanda entrò nella stanza, chiudendo la porta, e si sedette di fronte a lui, all’altro capo della scrivania, dove abitualmente siedono gli studenti perplessi e sgomenti riguardo le mille incongruenze dello studio del diritto privato.

“Vittorio è folle. E considerato il suo curriculum ed il mio, penso di avere più facilità a trovare un altro posto” spiegò con voce ferma, per quanto l’altra voce le urlasse nella testa quanto sconsiderata fosse a formulare certi pensieri e dargli anche voce.

Prendendo atto della serietà delle sue intenzioni, Andrea spense la sigaretta.

“Mi sembri più folle tu, a fare certi discorsi”.

Amanda ammorbidì la durezza del suo sguardo.

“Non ho studiato giurisprudenza per essere assistente” gli fece notare, con la tenerezza che si riserva all’ingenuità dei bambini.

“E quando te ne andresti?” domandò lui, recuperando dal cassetto un’altra sigaretta.

“Beh pensavo comunque a scadenza—”

“Non sono d’accordo” la interruppe, a priori, come sempre. Andrea Minati viveva una vita a priori, pensò Amanda, spazientendosi.

“Che strano” commentò lei, iniziando a sentirsi un po’ a disagio. “I termini del contratto stabiliti—” si interruppe, allo sguardo di Andrea.

“Pensaci” le disse, con una gravità nello sguardo e nella voce, che cancellò tutti i mesi di ironia, sarcasmo e serietà professionale intercorsi tra loro, in un colpo solo. “Mi sembra giusto cercare altro, aspirare— ma pensaci” ripeté di nuovo, con un sorriso. Sorridendo a lei, ridendo un po’ di sé.

“Ci penserò, Andrea, ma…”

 

Ma non se la sentiva di portare avanti quella commedia dell’assurdo, di fingere che non fosse strano chiamarlo per nome anziché professore, e fare colazione con lui come due colleghi di uguale rango, o parlarsi per frasi brevi ed accennate delle proprie vite come fossero due sconosciuti che hanno appena fatto amicizia. Non se la sentiva di lavorare accanto all’invidia di Vittorio e al suo legittimo non comprendere perché la situazione avesse preso quella piega; non se la sentiva di nascondere l’affinità che percepiva avere con lui, di soffocare ogni tenerezza che istintiva le saliva alle labbra o le attraversava il corpo in una tensione verso di lui.

Non se la sentiva di ignorare la gelosia che aveva provato a volte, nel sentir nominare Chiara, e non poteva neanche pensare quanto poco professionale fosse quello che aveva fatto con quella scatola; o quanto improbabile fosse avere le chiavi della sua stanza.

Lei era solo un’assistente, con un contratto a progetto che entro sei mesi sarebbe scaduto.

Non voleva fare l’assistente per tutta la vita, per quanto essere scelta da Andrea tra diversi neo laureati del suo corso era stata una enorme soddisfazione. Eppure quello non era un onesto rapporto lavorativo, non aveva mai avuto un rapporto meno onesto di quello con qualcuno, neanche con Daniele, che aveva tradito addirittura due volte. Persino in quel caso il tradimento era stato plateale e sfacciato e molto più sincero di quel girotondo di intenzioni che invece aveva con Andrea.

Avrebbe voluto spiegargli come tutto quello la facesse sentire.

Conoscere le sue abitudini, fare colazione con lui, uscire dall’università con lui e chiacchierare fino alla macchina le sembravano prolungamenti di una relazione che avrebbe dovuto mantenersi su tutt’altro piano, e che lei aveva avuto la possibilità di confinare in termini più decisi e meno ambigui, scegliendo di non farlo, alla fine.

Vinta dal fascino di Andrea, dal suo modo di sorridere, dal suo sarcasmo che lentamente aveva smesso di farla sentire con le spalle al muro, e aveva invece iniziato a divertirla.

E cos’era quella storia del rossetto?, avrebbe voluto chiedergli.

Lui così intransigente e ligio al suo dovere; lui che temeva di cadere in un cliché, che non tollerava indefinitezze e abbandoni di alcun tipo, come si permetteva di lasciarsi andare invece a commenti tanto maschili e tanto… Era un docente ordinario, per la miseria, e lei la sua assistente, e avrebbero potuto parlare di tutto, di bioetica, della prossima sessione di esami, della riforma del sistema di giustizia, oppure del tempo, delle rondini che non volano più e della calotta artica che si sta sciogliendo per colpa del buco nell’ozono, ma non, NON, del suo rossetto e di come fosse carina anche senza metterlo. Non era ammissibile.

E Andrea faceva tutto quello con grande naturalezza, senza pretese né pianificazioni. Dolorosamente senza intenzioni. A questo doveva credere?

E poi, quella sceneggiata nel suo studio, per una semplice e prevedibile dichiarazione.

Certo lui l’assistente non lo aveva mai fatto, ma proprio per questo davvero non aveva mai considerato l’idea che l’aspirazione di un laureato non fosse quella di passare una vita a fare l’assistente?

Non l’aveva forse scelta perché era dedita allo studio, meticolosa, puntuale e precisa, e soprattutto ambiziosa e determinata?

A cosa avrebbe mai dovuto pensare, quindi? Su cosa mai non sarebbe potuto essere d’accordo con la sua scelta, uno come lui?

Avrebbe voluto dirgli che sì, ci avrebbe pensato ma… tra rimanere sua assistente e vivere in quella ambiguità, e lasciare il proprio posto a qualcun altro, realizzarsi, pubblicare saggi e vivere al suo fianco come sua compagna e non come sua assistente; camminargli vicino e poterlo toccare; arrivare alla macchina ed entrare nella sua; fare colazione e pagare per lui, o bere un sorso del suo caffè; dividere un pomeriggio al cinema, discutere di politica camminando nel parco la domenica, chiedergli pareri professionali e non delibere ad agire… avrebbe scelto la seconda opzione.

Avrebbe scelto di stare con lui cominciando da capo, come donna, e non di rimanere con lui come assistente.

 

“… ma credo di aver già preso una decisione”.

Andrea annuì, come se non avesse avuto dubbi, e fosse stato consapevole da sempre della determinatezza della sua scelta. E di rispettarla, profondamente. Al di là dei suoi capricci di uomo e delle sue compiacenze vanesie.

“Ci vediamo domani, a lezione” aggiunse, raccogliendo la borsa da terra.

“Amanda” la chiamò Andrea, fermandola. Nel voltarsi, Amanda pensò che in qualunque modo si fossero messe le cose, quell’immagine di lui l’avrebbe conservata per sempre, e nella sua memoria avrebbe sempre occupato il posto di Andrea nel modo in cui le era piaciuto la prima volta. In mezzo ai suoi libri, in una stanza ordinata e controllata, con gli occhi imperscrutabili e il sorriso rivelatore.

“Ci ho pensato, in questi giorni, e non credo di essere un cliché”.

Probabilmente si stava chiedendo quanto avesse sbagliato nel dirle una cosa simile.

“Mi dispiace per la Boccassini” commentò lei, pensando che in realtà, aveva solo una gran voglia di fare l’amore con lui, con delicatezza e desiderio, fino a stancarsene.

“Saprà consolarsi. A domani, Amanda”.

“A domani” rispose lei, con la netta sensazione che il proprio nome sulle sue labbra lo avrebbe avuto tutto il tempo nella testa, fino alla mattina dopo. Quando lo avrebbe sentito di nuovo.

 

*

 

“Amanda, ti sembra che io sia un cliché?”

“Intendi dire se sembri il tipo che troverebbe più attraente la Boccassini piuttosto che la sua assistente?”

“Sì, una cosa del genere. Sono quel tipo, secondo te?”

“Immagino che questo dovresti dirmelo tu”.

“Ci ho pensato, in questi giorni, e non credo di essere un cliché”.

 

*

Fine.

Qualche nota di spiegazione, mani alzate, giustificazioni.

1)      Sì lo so, che le assistenti non danno del tu ai professori.

2)      Sì lo so, che i professori di solito non sono così amichevoli con le assistenti.

3)      Sì lo so, che a nessuna studentessa verrebbe in mente di rivolgersi in quei toni ad un professore, l’ho pensato anche io fino a quando non ho incontrato una Valeria (che non si chiama Valeria) nella mia vita. Il personaggio è liberamente ispirato a lei, che è meglio non lo sappia o il suo narcisismo salirà alle stelle.

4)      Amanda deriva dal gerundio latino del verbo “amo”, vuol dire “colei che deve essere amata” e mi è sempre piaciuto come nome, mi fa tenerezza ^^

5)      La Boccassini ha tutta la mia stima. Non la offenderei neanche sotto pagamento o sotto corte marziale o in pubblica piazza attaccata a una pira come Giordano Bruno. Dico, scrivo e sottoscrivo.

Nota aggiuntiva (marzo 2011)
Ho corretto alcune sviste, aggiustato fraseggi poco convincenti, modificato qualche dialogo, perchè ce n'era decisamente bisogno XD E lo scrivo, giusto per la cronaca. 
Colgo anche l'occasione per ringraziare tutti: chi ha letto e recensito, chi ha letto e preferito, chi ha letto e ricordato e via di seguito ^^ Grazie davvero!

 

  
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