Una
piccola One Shot dedicata a Gaara, ai suoi pensieri pochi istanti prima
dello scontro con Deidara.
Spero vi piaccia^^
Buona lettura.
Amore, la mia
medicina.
Il sole filtrava debole dall'ampia finestra; la
luce rossa del tramonto regalava leggeri riflessi rosati alle
candide
pareti della stanza.
Se ne stava seduto alla scrivania, con la testa che affondava
pesantemente
nella comoda poltrona e lo sguardo perso nel vuoto da diversi minuti.
Si sentiva strano, come infastidito dal silenzio tombale che regnava
fra quelle
quattro mura; eppure la solitudine era sempre stata la sua inseparabile
compagna, credeva d'essere abituato alla sua ingombrante presenza.
Si lasciò andare ad un lungo sospiro prima di alzarsi
svogliatamente e
dirigersi verso l’infisso. Volse lo sguardo all'orizzonte, attraverso
la
vetrata, osservando ciò che restava di quella sfera infuocata
solita ad ardere
in cielo indisturbata e che ora, lentamente, scompariva sotto la sabbia
bianca.
Mentre il sole moriva, i suoi occhi vennero catturati dal riflesso
della sua
immagine che, gradatamente, prendeva corpo lungo il vetro. Fissò
quel viso che,
a poco a poco, iniziava a farsi sempre più definito: i
lineamenti delicati, le
labbra sottili, gli occhi chiari e le immancabili occhiaie a
contornarli. Esitò
un istante alla vista di quel marchio rosso sangue sulla fronte; le sue
labbra
s'incresparono leggermente finendo per disegnare una piccola smorfia
sarcastica.
Troppo difficile dimenticare, troppo dolorosi i ricordi legati a quella
piccola
incisione, quelli che, ogni volta, cercava inutilmente di ricacciare
indietro,
di sotterrare nel profondo della sua anima. Impossibile non avvertire
nuovamente quella dannata sensazione di vuoto che l’aveva
accompagnato per
la maggior parte della sua esistenza, così come gli risultava
impossibile non
sentire ancora una piccola parte di quell'odio scellerato che l'aveva
contraddistinto per anni.
La solitudine è il peggiore dei mali aveva detto una
volta, non aveva
mai cambiato idea.
Diverse
cose possono ferire un uomo; in una vita come quella degli shinobi si
deve
essere pronti a tutto, persino alla morte. Ma nella sua breve
esistenza, nulla
era stato in grado di ferirlo più del nulla che l’aveva sempre
circondato.
Analizzando le sue poche esperienze, era facilmente giunto alla
conclusione che
non esisteva cosa peggiore di ritrovarsi soli quando la vita si prende
gioco di
te. Nulla poteva far più male che cadere a terra, respirando la
polvere e, una
volta alzato lo sguardo, non trovare alcuna mano a cui aggrapparsi per
risollevarsi.
Chi
poteva saperlo meglio di lui… Isolato dai suoi stessi fratelli, odiato,
temuto;
detestato dagli abitanti del suo stesso villaggio, evitato e definito
“mostro”.
Persino suo padre, lui che aveva scelto di fare del suo stesso figlio
il
contenitore per un demone, aveva dato ordine d’ucciderlo.
Erano
passati anni, ma il dolore era restato; una ferita difficile da sanare
e non ancora
completamente rimarginata, non fisica, nulla da cui la sabbia avrebbe
potuto
proteggerlo.
Non
aveva dimenticato le sue continue richieste d’affetto, quel desiderio
incessante di non restare solo, quella necessità di essere
accettato che, da
bambino, lo faceva soffrire davanti ai continui rifiuti. Vedere i suoi
coetanei
fuggire gridando quella maledetta parola, mostro, o gli sguardi carichi
di
disprezzo dei suoi stessi fratelli, gli aveva permesso di capire il
significato
di quella parola a lui sconosciuta, dolore. Nulla poteva
ferirlo
fisicamente, ma il suo cuore sanguinava ugualmente.
Ciò
che più gli fece male, quello che gli fece spalancare gli occhi
mostrandogli la
sua completa solitudine e frantumò definitivamente ogni sua
infantile speranza,
non fu l’odio di queste persone, nemmeno il desiderio del padre di
vederlo
morto, bensì il tradimento dell’unica persona a cui credeva
potesse importare
qualcosa della sua esistenza, Yashamaru.
Non
l’avrebbe mai dimenticato...
Un
altro lieve sospirò abbandonò le sue labbra, andando ad
appannare leggermente
il vetro, annebbiando quel volto.
Tornato
alla realtà, lo shinobi osservò la miriade di puntini
luminosi che iniziava a
prendere vita nel cielo sempre più cupo. Lentamente anche la
Luna aveva iniziato
a fare la sua comparsa; piena, esattamente come quella notte.
Yashamaru… credeva gli volesse bene, invece…
Avrebbe preferito morire, essere trafitto da quei kunai piuttosto che vedere il volto celato sotto la maschera di quell’assassino. Purtroppo però, la sabbia lo aveva protetto, gli aveva salvato la vita come sempre, ma non poté nulla contro il dolore della scoperta. Non aveva dimenticato la tremenda fitta che gli aveva squarciato il petto quando i suoi occhi tremanti avevano incontrato il suo viso.
Ho cercato disperatamente
di amarvi come
foste l’ultimo
ricordo di mia sorella…
ma non ci sono
riuscito”.
Yashamaru…
“Il vostro nome
l’ha scelto mia sorella.
Gaara significa
demone che ama solo se stesso.
Voi non siete mai
stato amato”.
“Lottare soltanto
per me stesso e
vivere amando
solamente me stesso”.
Era
difficile da ammettere, ma in cuor suo sapeva che non era stato solo il
demone
custodito dentro di sé a renderlo un mostro. Per quanto le
persone incolpassero Shukaku
per la maggior parte delle sue azioni, solo lui poteva sapere che
ogni
volta in cui aveva deciso di porre fine all'esistenza di qualcuno,
l'aveva
fatto di sua spontanea volontà.
“Un combattimento
è uno scontro mortale
fra la propria
essenza e quella dell’avversario…
Esisto per
uccidere tutte le persone eccetto me”.
La solitudine, il dolore derivante dalla completa mancanza d’amore,
ecco cosa
l’aveva trasformato in un mostro. Non era stata la reliquia della
sabbia a
renderlo un pluriomicida, ma l’odio e il risentimento verso chi l’aveva
lasciato solo.
Il
continuo cadere nel vuoto delle sue richieste d’affetto, quel dolore
lancinante
al petto che non lo abbandonava mai e, soprattutto, quell’ultima
ferita…
Yashamaru...
“Dalle ferite del
corpo esce sangue…
…Col passare del
tempo il dolore sparisce naturalmente.
Invece le ferite
dell’anima sono quelle più problematiche.
Non c’è nulla che
guarisca con maggior difficoltà…
…Per quest’ultime
non esistono medicinali e
capita che non
guariscano mai”.
Forse la sua era proprio una di quelle che non sarebbero mai guarite.
Forse non
sarebbe mai riuscito a cancellarla del tutto, ma ora che i suoi occhi
erano
stati aperti, ora che la gente aveva pian piano iniziato ad accettarlo,
avrebbe
fatto del suo meglio per trovare quella medicina…
“C’è soltanto una
cosa che può guarire le ferite dell’anima.
Però è una
medicina complicata, che si può ottenere soltanto dagli altri.
E’ l’amore.”
Per
anni aveva creduto che solo l’odio avrebbe potuto garantirgli la
sopravvivenza,
che solo il risentimento e la cattiveria fossero in grado di farlo
sentire
vivo, di donargli la forza di continuare ad esistere. Perché
senza uno scopo,
la vita è inutile.
Se
non fosse stata per quella battaglia a Konoha, se non fosse stato per
quel
ragazzo, lui avrebbe continuato ad essere un mostro.
Quinto
Kazekage del Villaggio della Sabbia…
Forse
il sogno di Naruto Uzumaki era contagioso; forse il suo calore era
contagioso.
Probabilmente
quel ragazzo biondo dagli occhi color del cielo era la medicina che
aveva
sempre cercato, l’amore…
Era
stato quello stesso sentimento che legava il giovane shinobi di Konoha
ai suoi
compagni di team a permettergli di diventare così forte da
poterlo battere,
l’aveva fatto mettendo a rischio la sua stessa sopravvivenza.
Nonostante
anch’egli avesse conosciuto l’odio e il disprezzo, nonostante fosse
sempre
stato solo, Naruto non si era mai lasciato abbattere, aveva continuato
a
lottare per guadagnarsi il suo posto all’interno di quello stesso
villaggio che
lo detestava, sino ad arrivare a dare la sua stessa vita per
proteggerlo. Uzumaki
Naruto era riuscito a cambiare il suo destino, a cambiare persino lui,
facendo
sì che anche i suoi occhi potessero vedere la luce in fondo al
tunnel in cui
l’odio e il rancore l’avevano rilegato da tempo.
Per
anni aveva disprezzato i suoi stessi fratelli, soggiogandoli con il
terrore;
aveva goduto osservando i loro occhi spaventati, sentendo l’odore della
loro
paura. Li avrebbe uccisi senza provare il minimo rimorso, ma dopo
quell’incontro, dopo aver conosciuto quel ragazzo così simile
eppure così diverso
da lui, aveva finalmente capito che non era l’odio a rendere forti, non
era la
morte la giusta ragione di vita, ma bensì l’affetto.
Il
giovane shinobi della foglia era diventato un esempio per lui, per
questo aveva
deciso di impegnarsi a fondo per assomigliargli il più
possibile. L’amicizia e
il sorriso di quel ragazzo l’avevano contagiato, scaldando quel cuore
freddo e
solo, riuscendo ad alleviare quel profondo dolore che l’aveva
perseguitato per
anni.
La medicina stava facendo effetto, Yashamaru aveva ragione…
Spostò
lo sguardo sull’ampia scrivania in rovere scuro, sulla cornice posta
sull’angolo destro.
Una
foto lo ritraeva il giorno della sua nomina a Kazekage, stretto
nell’abbraccio
di Temari e sotto lo sguardo fiero di Kankuro alle loro spalle. Non
poté far
altro che lasciarsi andare ad un lieve sorriso constatando quanto le
cose fra
loro fossero cambiate.
Finalmente
non era più solo, pian piano era riuscito a diventare importante
per qualcuno.
Gli occhi dei suoi fratelli non erano più velati dall’odio o dal
terrore, ma sembravano
quasi sorridere sinceri.
Si
avvicinò piano, senza staccare lo sguardo da quell’immagine,
afferrando la
ruvida cornice in legno per poter osservare meglio quei volti. No, non
v’era
più segno del reciproco disprezzo che per lungo tempo aveva
contrassegnato i
loro rapporti: l’ampio sorriso di Temari e quelle braccia che lo
circondavano
amorevolmente, i suoi occhi lucidi quasi a voler sottolineare la gioia
e
l’orgoglio di quel momento, tutto sembrava così perfetto, quasi
incredibile.
Riappoggiò
lentamente la cornice al suo posto e tornò ad osservare il cielo
di Suna.
Un’ampia
e stupenda stellata cullava i sogni dei suoi abitanti, uno stupendo
spettacolo
disturbato unicamente da un grande uccello bianco e da un mantello nero
a
nuvole rosse… Akatsuki.
Erano
venuti per lui, per Shukaku, e quel mostro avrebbe messo di nuovo in
pericola
la vita di persone innocenti; non poteva permetterlo.
Poggiò
il soprabito sulla poltrona e afferrò la giara, incamminandosi
verso la porta.
Prima
di uscire, posò nuovamente lo sguardo sulla foto che sino a
qualche istante
prima teneva fra le mani. Ora che era riuscito a dare un nuovo
significato alla
sua esistenza, ora che aveva finalmente trovato la sua medicina,
avrebbe
protetto i suoi fratelli, la sua famiglia, il suo villaggio anche a
costo della
sua stessa vita.