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Autore: ariblake_    22/10/2023    1 recensioni
Anita riceve un messaggio - è Ginevra. Si sentono solo due volte all'anno, ormai. Eppure il cuore le sale sempre in gola e ogni volta, Anita ripensa a chi Ginevra è stata, ed è, per lei.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il messaggio era arrivato di notte e aveva svegliato Anita – per un attimo era stata scossa da un brivido, il pensiero orribile che fosse successo qualcosa. Perché qualcosa, qualsiasi cosa sia, accade sempre di notte: le brutte notizie ti colpiscono quando sei più vulnerabile, più esposto, più propenso ad essere colto di sorpresa.
Aveva acceso l’abat-jour nervosamente, faticando in prima istanza a rintracciare gli occhiali da vista. Gli ci erano voluti un paio di tentativi e alcuni schiaffi a vuoto sul comodino, prima di afferrare la plastica scura della montatura e infilarla sul naso.
Aleksandr, vicino a lei, si era mosso a sua volta aprendo appena gli occhi, ma lei non lo aveva considerato granché. Era corsa a leggere il messaggio col cuore in gola e quello gli era salito, poi, su fino alle tonsille quando aveva scoperto che non si trattava di una brutta notizia, non era successo qualcosa, era successa Ginevra.
Era uno di quei messaggi lunghi simili a lettere che scriveva lei. Anita avrebbe saputo distinguere il suo stile tra altri mille; non era mai stata una gran lettrice, ma sapeva che un certo modo di comunicare era proprio di Ginevra e basta.
- Tutto bene? – le aveva chiesto Aleksandr, riportandola per un attimo nella loro stanza.
Aleksandr. Forte, bellissimo, straordinario uomo. Anita si era innamorata di lui senza neanche rendersene conto. Era stata una folgorazione, un colpo di fulmine mentre percorreva il cammino di Santiago. Era partita da sola un paio d’anni prima da Roncisvalle, lo aveva incontrato a Pamplona ed era arrivata a Finisterre insieme a lui.
Si ricordava benissimo quel pomeriggio di fronte all’oceano. Avevano lasciato le loro cose in un albergo – l’Albergue de Hungarian, gestito da un improbabile signora ungherese e dal suo compagno – ed erano corsi sulla spiaggia nuvolosa di inizio settembre. Lei, che non sapeva nuotare, aveva messo i piedi nell’acqua, cercando un attimo di ristoro: Aleksandr invece si era gettato senza paura tra le onde. Aveva spinto con le braccia e Anita era rimasta a guardare la curva della sua schiena, la muscolatura forte del suo collo e delle sue spalle, la linea dei suoi polpacci. Quando era uscito dall’acqua l’umidità aveva reso i suoi capelli scuri ricci e disordinati, i suoi occhi verdi ancora più chiari sotto la luce dell’ultimo sole. Si erano seduti su un asciugamano insieme ed erano rimasti a sorseggiare una birra fino a tardi, cercando di rubare il più possibile a quell’ultima giornata.
E ora vivevano insieme. Aleksandr era la persona più emotivamente stabile che Anita conoscesse. La sua stabilità, la sua calma le servivano a rimanere concentrata dentro la propria vita, a darsi una direzione che fosse sensata e che per anni aveva faticato a trovare.
- Sì, è solo un messaggio. – rispose Anita con un sorriso – Torna a dormire, Sasha.
Lui rimase per un attimo a guardarla, ma non disse nulla. Chiuse gli occhi, arrendendosi di nuovo al sonno, mentre Anita spengeva di nuovo la luce.
Ginevra non avrebbe mai potuto essere solo un messaggio. Affondando la faccia nel cuscino, Anita scorse la chat Whatsapp. Si sentivano un paio di volte all’anno, quando andava bene, ma erano sempre loro.
 
Quando andava alle scuole medie, nel suo paesino della Toscana, Anita faceva parte di una classe molto unita. Andavano a cena insieme tutti i sabato sera, in una pizzeria in centro che faceva la pizza nel forno a legna; si riunivano una volta a casa di uno, una volta a casa dell’altro con la scusa di fare i compiti, ma in realtà giocavano al gioco della bottiglia. Esploravano i loro corpi a vicenda, qualcuno più pudico, altri già disinibiti. I ragazzi cominciavano a notare le ragazze e viceversa e tra tutti loro c’era una sorta di competizione, di gara a chi tagliava prima certi traguardi. Erano ancora bambini, ma giocare agli adulti era il loro passatempo preferito, anche se di adulto non avevano nulla: non la forma mentis più strutturata, non la complessità emotiva, né tantomeno le responsabilità che ne derivano.
Il salto con il liceo era stato traumatico. Quasi tutti si erano iscritti al liceo classico e scientifico: Anita era tra i pochi ad aver selezionato il liceo artistico e, durante lo smistamento delle classi, si era trovata sola.
La nuova classe era un misto ibrido di studenti delle medie e ripetenti messi insieme. Alcuni vestivano esclusivamente di nero, altri avevano frangette cortissime, scarpe con zeppe enormi, zaini pieni di spille. Anita non sapeva in che sottocultura identificarsi. Ascoltava musica punk e ne apprezzava il vestiario, ma dipendeva ancora da sua madre per la gestione dell’armadio, così doveva accontentarsi di tenute piuttosto sobrie fatte di jeans scuri e anfibi del discount.
Non le era facile legare con le ragazze, così fece amicizia con i ragazzi. I pomeriggi, però, li passava quasi tutti in casa, al computer. Era stato così che lei e Ginevra si erano conosciute: giocando ai giochi di ruolo online. Avevano attraversato insieme svariate land: extremelot, fangtasia, persino i gruppi su facebook.
Entrambe avevano personaggi uomini, nonostante fossero donne. Entrambe erano ottime scrittrici, entrambe ascoltavano musica punk, entrambe non avevano molti amici.
Ginevra aveva un paio di anni in più rispetto ad Anita e ai suoi occhi appariva come una creatura perfetta. Era bionda, aveva gli occhi azzurri, la pelle bianca, un cognome tedesco; viveva in Trentino Alto Adige e dietro la finestra della sua stanza rosa, in cui si faceva le foto da mettere sul blog di Splinder, c’erano le montagne. Andava a danza, partecipava a gare, poteva vestirsi come voleva perché i vestiti se li comprava da sola – lei viveva solo con suo padre che non si preoccupava troppo dell’abbigliamento della figlia.
Ginevra e Anita si erano conosciute molto prima che esistesse il concetto di famiglia tossica e che avessero i mezzi per comprendere cosa stesse succedendo loro. Entrambe venivano da ambienti disastrati in modo diverso ma simili, in crisi, che non comunicavano: i genitori di Ginevra si erano separati lasciando alla figlia l’arduo compito di prendersi cura di loro, che non mancavano di recriminarle il solo fatto di esistere. Quelli di Anita, che non erano stati altrettanto coraggiosi, le avevano involontariamente affibbiato il ruolo di collante.
Quando Anita, nel tentativo di essere perfetta, aveva smesso completamente di mangiare, Ginevra c’era stata. Aveva parlato con lei ogni giorno, avevano persino litigato. Le aveva scritto messaggi, lettere, erano state ore e ore al telefono a discutere. C’erano state lacrime, bronci, musi, ma alla fine Anita si era convinta a chiedere aiuto.
Quando invece era stato Ginevra a sprofondare, troppo stanca per reggere i ritmi a cui veniva sottoposta, Anita aveva tentato con ogni mezzo che aveva a sua disposizione di aiutarla. L’aveva ascoltata, confortata, aveva passato ogni secondo a ribadirle quanto fosse speciale. Si erano giurate di esserci sempre l’una per l’altra e Ginevra le aveva detto: se un giorno avrò una figlia, la chiamerò Anita, perché spero assomigli un po’ a te e abbia un po’ della tua forza.
Anita, che non era stata capace di replicare, si era messa a piangere.
Si erano viste una volta sola, anni dopo, quando Anita era ormai abbastanza grande da viaggiare da sola e senza dover chiedere il permesso a nessuno. Era andata a trovarla a Trento e si ricordava l’esatto momento in cui l’aveva vista in piazza Duomo: aveva un cappotto chiaro e un baschetto nero, si era voltata con un sorriso e Anita era rimasta stupita di come potesse sembrare così piccola. Erano rimaste abbracciate a lungo, lì in mezzo. Ginevra forse un po’ più rigida di lei, che invece si era lanciata subito a cercare un contatto con il suo corpo, a distruggere qualsiasi forma di imbarazzo.
Dopo quel giorno, avevano cominciato a sentirsi ma le loro vite, ormai adulte, avevano cominciato a prendere delle direzioni. Quella di Ginevra era molto più concreta rispetto a quella di Anita: si era iscritta a infermieristica, aveva cominciato a lavorare quasi subito ed era andata a convivere con Dario, il suo ragazzo storico. Poi a un certo punto lo aveva lasciato e, complice il perfetto tedesco che parlava, era andata a vivere in Germania. Lontano, diceva, dalla famiglia terribile in cui era cresciuta e più felice così.
Invece, Anita non aveva mai trovato un vero e proprio verso. Aveva fatto centinaia di lavoretti casuali, scoperto il sesso in modo triviale nel periodo in cui aveva vissuto in città, si era concessa qualche incontro frivolo e molte poche relazioni perché riteneva di non averne la stabilità. Prima di Aleksandr, la sua vita era stata un girovagare confusionario e irrequieto, tant’è che in certi frammenti era stata addirittura convinta che lei fosse questo: una forma indefinita, un colore sfumato, la pulsione di un acquarello che si disperde nell’acqua ma non si concretizza mai in una struttura solida. Si era anche messa in testa di accettarlo, a un certo punto, di smetterla di prendere in giro gli altri e se stessa fingendo di essere ancora quello che aveva tentato di essere per tutta la vita: la brava bambina che tiene insieme i pezzi, la ballerina in equilibrio sulla fune che deve trattenere il respiro per non cadere.
Anita aveva imparato a conoscersi, a conoscere il suo corpo. La prima volta che si era concessa di masturbarsi aveva già venticinque anni ed era piena di inutile senso di colpa cattolico; era rimasta stupita dal modo istintivo in cui le sue dita conoscevano il suo corpo molto meglio di qualsiasi altro uomo si fosse mai avvicinato a lei. La prima volta che aveva provato un orgasmo aveva pianto di liberazione, perché si era resa conto di saper provare anche lei il piacere. Non aveva mai compreso a fondo, però, le dinamiche dello stare con qualcuno. Aveva faticato a discernere il sesso dalla relazione, perché per lei il suo corpo riscoperto era la più grande fonte di comunicazione acquisita che avesse, così bella e importante da togliere il primato alle parole, evitando di renderle necessarie. Di alcune cose, Anita continuava a chiedersi il significato: l’amore rimaneva il mistero più grande. La sua canzone preferita era diventata Afterlife degli Arcade Fire, perché si chiedeva proprio questo: dove va, l’amore quando muore?
Aveva pensato di chiederlo a Ginevra, ma a quel punto delle loro vite, erano già troppo distanti per potersi fare domande complesse a vicenda.
Eppure non smetteva di pensare a lei. Alle volte era solo un retro pensiero, una configurazione automatica del suo cervello. Altre era mancanza e nostalgia. Altre era qualcosa di ancora diverso – un calore irrorato, magico, che arrivava fino alla punta delle dita e dei capelli. La sensazione di essere imprescindibilmente legata l’una all’altra che resisteva, coriacea, al tempo e agli eventi che dominavano le loro vite.
 
Anita non aveva mai parlato a Aleksandr di Ginevra. Non sapeva neanche lei perché.
Forse, aveva pensato in un certo momento, ne sarebbe geloso. Anche se Aleksandr non era mai geloso di nessuno, o almeno non lo era in modo manifesto. Qualsiasi emozione provasse, era bravissimo a tenerla per sé, gestendola senza farle pesare nulla.
Forse era lei ad essere gelosa. Non era capace di condividere Ginevra, di parlare a qualcuno del legame che aveva con lei e solo con lei.
Ti amo. Era stata la prima persona a cui lo aveva detto. Ginevra glielo aveva scritto una volta alla fine di una lunga e-mail e Anita aveva fatto lo stessa, certa di sentire un sentimento puro, splendente.
Si erano amate sul serio. Di un amore alla Corto Maltese: si guardavano molto, non si toccavano per niente quasi avessero una paura morbosa, ossessiva di contaminarsi.
Anita si era chiesta spesso se questo significasse qualcosa nel suo orientamento sessuale. Aveva messo in dubbio la propria se stessa più di una volta e alla fine aveva raggiunto la consapevolezza di essere banalmente eterosessuale; ma che Ginevra, in qualche modo, rappresentava una categoria a parte. Era la vita.
Non sapeva se si sarebbero mai riviste, ma aveva ancora bisogno di lei nella sua vita. Raggomitolata sotto le coperte, col cuore che batteva forte, lesse il messaggio.
Cara Anita, diceva, ho sempre paura ad entrare nella tua vita, di prendere spazio. Ho paura che tu ti sia dimenticata di me, che non sia più il nostro tempo, che non lo sia stato mai ma vedi, alla fine quando non riesco a dormire è sempre te che cerco. Nella notte, tu sei la mia luce, come lo sei sempre stata. Forse se tu non ci fossi stata io non mi sarei salvata da me stessa durante l’adolescenza. Non so se per te è stato lo stesso, ma non importa perché vedi, io sono egoista e la realtà è che ancora, dopo tutto questo tempo, non ho nessuna intenzione di lasciarti andare. Spero che tu stia bene, che la tua vita sia piena e felice e non mi vergogno di dirti che nonostante il tempo passi e nonostante tutto, io ti amo e tu sei stata, e ho la presunzione di dire che sarai sempre, una delle più grandi storie della mia vita.
Anita strinse il cellulare al petto. Chissà perché, si chiese, alla fine sono le storie non vissute quelle a cui ci affezioniamo di più. Quelle su cui abbiamo sognato, fantasticato, sperato. Sono gli amori che ci rendono più nostalgici, più banalmente privi di senso proprio perché inspiegabili e irrazionali.
Nel sonno, Aleksandr si girò, stringendole il braccio attorno al fianco. In un gesto istintivo, nel dormiveglia, aprì una mano sul suo ventre.
- Sono incinta. – gli aveva detto lei, un paio di settimane prima, appoggiando il test di gravidanza sul tavolo. Lui era rimasto un attimo inebetito e poi era scoppiato a ridere, le aveva riempito di baci la faccia, l’aveva chiamata moya lyubov’ ed erano rimasti una sera intera sul divano, confusi e commossi, a pensare a dove avrebbero messo la stanza del bambino, alla faccia dei loro genitori quando glielo avrebbero detto, dei loro amici, a tutte le cose che li rendevano felici e li spaventavano.
- Se è maschio – aveva detto Aleksandr a un certo punto – Lo chiamiamo Rodion, come Rodja di Delitto e Castigo.
- Possiamo dargli almeno due nomi? – aveva scherzato Anita – Uno italiano e uno russo. Che ne so, Andrea Rodja.
- Va bene, va bene, hai ragione. E se è femmina?
Anita aveva sorriso, con velata malinconia, e si era accarezzata la pancia.
- Se è femmina. – aveva risposto, con le lacrime agli occhi – Si chiamerà Ginevra.
 
*
 
Note a piè di pagina:
- Sasha è il diminutivo russo di Aleksandr;
- Rodja è il diminutivo russo di Rodion;
- La citazione di Corto Maltese viene da La Casa Dorata di Samarcanda;
- Extremelot è un gioco di ruolo che esiste ed è ancora funzionante;
- L’Albergue de Hungarian esiste ed è ancora funzionante; è anche un posto meraviglioso e la sua improbabile proprietaria, anni fa, ha scattato una foto a me e alle mie compagne di viaggio proprio lì fuori
- Riferimenti a fatti, nomi e persone sono puramente casuali. Alla domanda c’è la famigerata componente autobiografica, che mi viene fatta spesso, rispondo quello che rispondo sempre: come dice Paul Dano in Ruby Sparks, Come potrà dirvi ogni scrittore, nella condizione più felice e più fortunata le parole non sgorgano da voi ma attraverso voi. Lei mi si è presentata da sola, io ho solo avuto la fortuna di poterla descrivere.
   
 
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