Era stato un baluginio improvviso attraverso le pupille ignare. Un urto sulla guancia, abbastanza violento da farle dire “sono sveglia”. Un colpo di tosse dai polmoni doloranti le aveva attraversato la trachea. L'aria le aveva riempito la cassa toracica mentre il liquido amniotico iniziava a seccarsi sul suo corpo come colla biancastra. Era preda di un tremito incontrollabile e di una profonda debolezza. Ma la sua carne sintetica voleva muoversi. Quelli erano i suoi primi brividi. Era il suo primo incontro con la paura.

Era stata la sua mano a risvegliarla, sul suo viso, calata in modo pesante, a dirle “Vivi”.

Il suo cervello neonato aveva ricevuto l’input essenziale e lei aveva compreso di esistere.

L'uomo che le parlava aveva gli occhi vuoti.

Le spiegava concetti che lei faticava ancora ad afferrare, perché la sua mente era troppo giovane. Ma non le importava, perché lei voleva solo toccargli il viso, la barba scura, le ciglia che riparavano iridi inutili e cieche.

E la sua voce tranquilla le diceva. “Sei perfetta. Non avere paura, andrà tutto bene, mio piccolo amore funzionante.”

Che belle sillabe. Amore. Lo-ve.

Lei aveva sforzato le labbra per ripetere quella parola, aggrappandosi allo yukata nero dell’uomo, del suo signore e creatore.

“Lu-v…”

Un singhiozzo. E poi, lacrime che le pulivano il volto dai rimasugli della sua esistenza embrionale.

"Luv” aveva ripetuto lui. E aveva annuito. “Va bene. Sarà questo il tuo nome.”