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Autore: Shireith    01/12/2023    1 recensioni
«Stai facendo di tutto per convincermi a darti ragione.»
«Ma proprio no.»
«Un susseguirsi di tragedie?»
«Mai dire mai.»
Elena si concesse un minuto di pausa, non tanto perché stesse considerando le parole di Atsushi ma perché voleva fargli credere che lo stesse facendo. Dall’altra parte del minuto, Elena scrollò le spalle. «Non penso di essere così sfortunata.»
Qualsiasi cosa ci fosse nel suo futuro, non poteva essere così tragico.

Elena, Atsushi, le bugie e le assenze.
(O anche: dovrei dire ‘Buon Natale, buone feste e tante care cose’, ma qui c’è solo angst.)
‣ Storia partecipante al Calendario dell’avvento 2023 indetto da Sia e Cora sul forum Ferisce la penna.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Atsushi Miyano, Elena Miyano
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dissimulazione e altri atti di tradimento


i.
 Il mondo alle cinque di mattina è un regalo da scartare. Quel giorno era una striscia pallida di blu. Di fianco a Elena, la solita sedia vuota era un po’ meno vuota. Atsushi se ne stava seduto sul bordo come un bambino in attesa del via per scappare.
 «Stavi dicendo?» Un sorriso sghembo gli rendeva la faccia asimettrica. «Sul tempo.»
 «Che non vorrei affatto sapere cosa c’è nel mio futuro.»
 «Nemmeno se morissi domani?»
 «Se sapessi di morire domani vorrebbe dire che avrei già accettato di sapere cosa c’è nel mio futuro.»
 Atsushi incassò la sconfitta con un mmmh a labbra semiaperte.
 «Mettiamo non sapessi nulla del tuo futuro. Potresti morire domani come tra ottant’anni. Il tuo futuro potrebbe essere pieno di cose piacevoli o un susseguirsi di tragedie una peggio dell’altra.»
 Elena rise. «Stai facendo di tutto per convincermi a darti ragione.»
 «Ma proprio no.»
 «Un susseguirsi di tragedie?»
 «Mai dire mai.»
 Elena si concesse un minuto di pausa, non tanto perché stesse considerando le parole di Atsushi ma perché voleva fargli credere che lo stesse facendo. Dall’altra parte del minuto, Elena scrollò le spalle. «Non penso di essere così sfortunata.»
 Qualsiasi cosa ci fosse nel suo futuro, non poteva essere così tragico.
 Che cosa stava pensando Atsushi: sei una scienziata e credi nella fortuna? 
 Lo stava pensando con una probabilità dell’ottantasette per cento. O forse no. Elena era brava con i numeri, ma non quando si trattava delle persone. Troppo imprevedibili per essere rinchiuse in una scatolina.
 «Mettiamo lo fossi.»
 «In quel caso», disse Elena, muovendo un ciuffo con uno sbuffo indirizzato ad Atsushi, «preferirei non saperlo. Dammi dell’ingenua.»
 «Coraggiosa», disse Atsushi. Elena lo fissò. Alle sue spalle il cielo combatteva, e perdeva, la sua lotta contro il sole. Di lì a poco, le strade si sarebbero riempite di persone diligenti come formiche.
 Elena si passò una mano sul volto. Lei e sua sorella erano cresciute in campagna, la frenesia della città non le piaceva. Le sembrava, invece, che ci fosse qualcosa di magico in quell’ora di mattina presto in cui il mondo pare trattenere il respiro in bilico tra la notte e il giorno. Tra i vivi e i morti, il limbo. Fantasmi, ombre e silenzio.
 Atsushi era un universitario, ma nel bar in cui lavorava non c’era niente di lontanamente universitario. Alla domanda sul perché lavorasse lì, Atsushi le aveva risposto che pagava bene e gli permetteva di schiacciare i turni tra una lezione e l’altra. «E poi», aveva detto con un sorriso che Elena aveva imparato ad amare, «mi piace.»
 Alla domanda sul perché Elena frequentasse il posto, Elena aveva risposto che era tranquillo e vicino allo studentato. «E poi», aveva detto con un sorriso che lei stessa non sapeva come interpretare, «mi piace.»
 Ora gli sorrideva per tutt’altro motivo. Una sensazione in pancia fece venire a lei la voglia di alzare e scappare. «Coraggiosa? E perché?»
 Atsushi si guardò le mani. «Io non so se avrei il coraggio di resistere», disse. «A sapere cosa c’è nel mio futuro. Ho paura del futuro, immagino. Di prendere una strada anziché un’altra e finire sotto una macchina. Di essere trenta secondi in anticipo o in ritardo e finire sotto una macchina.»
 «Molte delle tue paure sono sul finire sotto una macchina.»
 La risata di Atsushi le parve mezza vuota. «Ti sorprenderebbe se ti dicessi che una persona a cui tenevo è morta così?»
 Sua madre era inglese. Lei e sua sorella erano cresciute in aperta campagna, in Inghilterra. Il giapponese le veniva su come un singhiozzo, eppure una parte di lei lo preferiva all’inglese, la lingua di sua madre. Fredda, tagliente e distante. Uno schiaffo laddove ti saresti aspettato una carezza.
 «No.»
 Perché i traumi, pensò, sono ciò che ci forma.
 «Mi dispiace per lui.»
 «Lei.»
 «Mi dispiace per lei.»
 «È stato molto tempo fa.» Atsushi scrollò le spalle. «Ma da quel giorno», disse, «non riesco a smettere di pensare che se una macchina dovesse investirmi domani mi piacerebbe saperlo.»
 
ii.
 Il pomeriggio è la sera che fa le prove. Sembra una pausa, un respiro trattenuto a lungo nello spacco di tempo tra pranzo e cena. A volte Elena si domandava se non fosse stata la gravidanza di Akemi a scombussolarle l’orologio biologico, ma dopo tre anni questa scusa iniziava a farsi debole.
 Atsushi osservò lei, il cellulare buttato sul tavolo, poi di nuovo lei. Una calamita indecisa tra due poli.
 «Tua sorella?» chiese in quel suo tono totalmente incapace di fingere indifferenza.
 No.
 «Sì», mentì Elena. Perché anche la spaccatura tra due sorelle la vigilia di Natale era meno grave della verità. Atsushi sembrò dibattersi quella forse-bugia in testa, ma qualsiasi fosse la sua conclusione Elena non gli diede il tempo di formurarla.  «Ti fa gli auguri.» Un sorriso, mezzo falso. «Le ho detto che ricambi.»
 «Stavo pensando, per questa sera…»
 «Mi sono dimenticata il tuo regalo. Scusa.»
 Atsushi scoppiò a ridere. Una risata di quel tipo gli toglieva almeno cinque anni, la loro condizione gliene aggiungeva almeno il doppio.
 «Mi va bene anche se non mi fai nessun regalo.»
 Elena sapeva che era la verità ma sapeva anche che non era quello che lei voleva. Si era davvero dimenticata il regalo, e questo la faceva sentire in colpa. Quello che la faceva sentire ancora più in colpa era che in quella dimenticanza aveva trovato la bugia perfetta, cucita con così tanta maestria che Atsushi non aveva potuto che crederle. Erano loro due contro il mondo, non l’uno contro l’altra: le bugie minavano la loro relazione.
 Solo questa volta, si disse Elena ancora e ancora e ancora. E poi, pensò, non è colpa mia. Piuttosto della donna che le si sedette di fronte in quell’istante in un locale troppo lontano dal loro quartiere perché Atsushi potesse vederle anche solo per sbaglio.
 «Elena.»
 Vermouth era bella come un infarto. Poco importava quale travestimento indossasse, ti prendeva tutto di colpo. Quel giorno aveva optato per una semplice parrucca nera e un paio di occhiali da sole scuri che le nascondevano parte del volto. Poteva sembrare un pesce in mezzo a tanti altri, ma c’era qualcosa di ipnotizzante in lei, come un glitch in un sistema che una volta notato non si riesce a smettere di fissare.
 «Io e mio marito ci stiamo lavorando, ma abbiamo bisogno di più tempo.»
 «Buone feste anche a te, grazie.»
 Uno scatto della mano sotto il tavolo. Quanto le sarebbe piaciuto tirarle uno schiaffo in quella faccia come porcellana. 
 «Abbiamo bisogno di più tempo», ripeté Elena.
 «Se dipendesse da me, avreste tutto il tempo del mondo.»
 Elena non aveva modo di sapere se fosse la verità. Non riusciva mai a capire cosa passasse per la testa di quella donna. A volte le sembrava che avesse controllo sul mondo intero, poi, di rado, che non avesse controllo nemmeno di sé. Che ne sapesse quanto Elena, e che faceva solo finta.
 I marciapiedi fuori della finestra erano due fiumi di persone in direzioni opposte. La paura di essere investito da una macchina, aveva detto Atsushi. La paura del futuro.
 «Tuo marito sa che sei qui?»
 Sì: Vermouth avrebbe capito che era una bugia.
 No: Vermouth avrebbe capito che era la verità.
 Silenzio: Vermouth capì senza sì né no.
 Vermouth frugò nella borsa e ne estrasse una busta bianca. 
 Che quadro bizzarro che dovevano sembrare. Una donna che ricatta l’altra. Una donna che passava informazioni segrete all’altra. Le opzioni erano infinite ma ridotte a zero, perché nessuno le stava guardando.
 «Ci sentiamo presto», disse Vermouth alzandosi. Un sorriso come un lampo in faccia. «Buone feste, Elena.»
 La sedia, di fronte a lei, di nuovo vuota.
 Elena immaginò di vederci Atsushi sedersi, guardarla e scuotere la testa.
 Non si fa così, Elena.
 
iii.
 La sera è la morte come la intende chi crede in Dio: la vita eterna, il meritato riposo. 
 Mary era, da sette anni, la sedia vuota per scelta di entrambe. Le motivazioni, tante, troppe, per poterle contare. I numeri e le persone agli antipodi.
 Mary era, quel pomeriggio, la sedia occupata dall’altra parte del tavolo. Niente più che due occhi trapuntati di mille domande.
 Akemi entrò correndo in cucina, in mano un semplice bicchiere d’acqua. Lo poggiò sul tavolo come avesse riportato in luce un antico tesoro.
 Mary le regalò un sorriso. «Grazie, tesoro.»
 Akemi aveva spalancato gli occhi quando Mary era entrata in casa. In casa Miyano, una visita inaspettata in casa era sempre una brutta notizia. Pisco, raramente qualcun altro. Mai Vermouth, mai in casa.
 Questa volta, Mary. Elena le aveva presentate e questo era bastato a far calmare Akemi.
 «È la copia di suo padre», disse Mary una volta che Akemi fu uscita. Era lo stesso commento che facevano tutti, una verità tanto spontanea come dire che il cielo di notte era scuro.
 Elena guardò distrattamente l’ora. Alle 21:47, Atsushi non era ancora rientrato.
 «Sì.»
 Sperava che questo significasse che Akemi, come Atsushi, sarebbe diventata una persona di buon cuore. Che se anche avesse avuto paura di una macchina che sfrecciava giù in strada non si sarebbe fatta scoraggiare e quella strada l’avrebbe attraversata tutti i giorni. Che anzi quella paura significasse che era cauta quanto Atsushi, e per questo avrebbe evitato di ficcarsi in un guaio tanto grande quanto il loro. Ammesso che riuscisse a sfuggire da quello cui Elena li aveva condannati tutti e quattro.
 «Shiho, invece…»
 Shiho invece è come te.
 «Mary.»
 Difettosa.
 «Cosa sei venuta a fare?»
 Mary emise un suono a metà tra uno sbuffo e una risata. «Mi serve una ragione per far visita a mia sorella?»
 «Sì, se non vedi tua sorella da sette anni.»
 «Non per mia scelta.»
 «Di certo non mia.»
 No, non sua: una scelta presa a metà, un accordo silenzioso senza nemmeno il contratto e le firme. L’ultimo atto di due sorelle in quanto tali.
 «A che punto siete con le vostre ricerche?»
 Il che poteva significare: quanto prima che diventiate due criminali?
 O anche: quanto prima che vi ammazzino?
 Elena rispose alla domanda come era stata posta. «Siamo vicini, ma mai abbastanza vicini.»
 Tempo, diceva Elena. Abbiamo bisogno di tempo.
 Ma il tempo, cara Elena – diceva Vermouth – è limitato. Come in una clessidra. La loro sgocciolava da anni.
 «E dopo credi che vi lasceranno andare?»
 Non era una domanda e in quanto non-domanda non meritava una risposta. Mary, che comunque se ne aspettava una, schioccò la lingua quando l’unica che ottenne fu il silenzio.
 «Cristo santo, Elena.»
 A che cosa serve tutto quel cervello, le diceva sua madre, se poi ti riduci così. Elena immaginò quelle parole formarsi nella mente di Mary, ma se anche le pensò non le disse. Nel silenzio si ripeté la stessa conversazione che avevano avuto tantissime altre volte, la conclusione sempre la stessa, le scelte di una che si opponevano a quella dell’altra. L’unica in comune, quella di aver smesso di esserci per l’altra. E com’era stato facile, per Elena, tener fede alle sue assenze.
 Mary sospirò, poi sorrise, come se la discussione silenziosa se la fosse immaginata pure lei e fosse giunta alla stessa conclusione di Elena.
 «Se ci ripensi – »
 Le parole rimasero sospese in aria. Atsushi rientrò in casa in quel momento, due buste belle cariche strette in mano. Un lampo di riconoscimento gli attraversò la faccia. Un sopracciglio alzato, ad Elena, poi un sorriso, a Mary.
 «Mary, che sorpresa. Ti fermi a cena?»
 «No», disse Mary, poi, come se si sentisse in colpa per la maleducazione: «Ma grazie per l’invito.»
Se ci ripensi, sai dove trovarmi.
 Quella sera, a cena, una sedia vuota. L’assenza come due sorelle la conoscevano.



NOTE ⇨ Ho scritto questa storia ispirata dal primo prompt (sedia vuota, fyi) del Calendario dell’avvento organizzato sul forum Ferisce la penna (veniteci a buttare un’occhiata wink wink), anche se come sempre io e i prompt ci prendiamo a schiaffi e a pugni e a calci e le mie storie finiscono per essere delle mezze paraculate. Vbb. 
Comunque potreste avere diverse domande/perplessità, tipo: è OOC? da quando la madre di Elena e Mary è confermata essere inglese? ma dove lo vedi che Akemi somiglia ad Atsushi. Ebbene, la risposta è che a me purtroppo del canon non interessa. Che poi insomma, Aoyama ha cambiato il colore dei capelli a Elena, chi sono io per non inventarmi le cose di sana pianta? 
No davvero, ho troppi headcanon su questi due e non ce la faccio a seguire il canon. E vabbè, meglio così, scrivere è più divertente.

 

 
   
 
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