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Autore: _Lightning_    04/12/2023    4 recensioni
Cilento, 1932
Il giorno di Natale, sin da quando il commissario Ricciardi ha memoria, il fantasma di una donna appare davanti alla vecchia stazione di posta, recitando una ninna nanna. Poi svanisce, senza lasciare traccia fino al Natale successivo.
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[Giallo // Mistero // Storico // Storia breve in 5K]
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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Il silenzio della neve

Giorno 04
Prompt: Fantasma che compare solo a Natale + Ninna nanna

 

 

Fortino, Cilento
1932

          Sono due le cose che accolgono sempre Ricciardi a Fortino puntuali come i vespri in un monastero, le volte che fa ritorno in Cilento per Natale: la spolverata di neve che imbianca il paesaggio e il fantasma alla vecchia stazione di posta. Quell’anno non fa eccezione.

La mattina del venticinque dicembre, quando scende dalla carrozza che ha portato lui e Rosa sin lì dalla ferrovia di Salerno, le sue scarpe fanno scricchiolare lo strato di neve sul fango ghiacciato e, già da quella distanza, intravede la figura spettrale della donna ondeggiare accanto alledificio dimesso. La sua voce è confusa allo sbuffare dei cavalli e al tintinnio dei finimenti, ma è distinguibile.

Ricciardi accusa la fitta demicrania in mezzo agli occhi, ma si concede di ignorarla ancora per un poco, mentre aiuta a scendere Rosa.

«Grazie, signorino,» si aggrappa al suo braccio con un sorriso che le illumina il volto rugoso. «Siete sempre troppo gentile.»

«Almeno a Natale, lascia che ti aiuti in qualcosa,» la rimbecca bonario, anticipando il facchino e prendendo entrambe le loro valigie. «Facciamo da noi.»

Laltro rimane interdetto, fissando i loro bagagli.

«Siete sicuro, signor barone?»

Ricciardi quasi alza gli occhi al cielo, nel sentirsi chiamar così, ma si limita ad annuire e a congedare luomo con un cenno. Porge di nuovo il braccio a Rosa che, infagottata nel cappotto pesante e con un paio di scarpe poco adatte alla neve, si muove con goffa cautela.

Fortino li osserva poco più in alto, arroccata sul suo cocuzzolo impervio con le antiche casette color terra bruciata e il fumo dei camini che stria laria. La stradina, poco più che una mulattiera, sinerpica sul fianco della collina aggettata sui folti boschi imbiancati di neve. Sembra che qualcuno abbia ricamato merletti delicati su ogni singola fronda arborea, tanto sembrano immacolati, scossi solo da un flebile alito di vento.

Quando è nellallegro caos di Napoli, quella solitudine immobile finisce per mancargli, assieme al silenzio che, alle volte, si fa tanto denso da sembrare rumoroso.

Ciò che non gli manca è il fantasma. Non ve ne sono molti, a Fortino, e quei pochi sono rintanati in angoli che si premura di non frequentare; oppure si è adoperato per portare loro giustizia, in modo che potessero trovar pace e interrompere il loro lamento eterno per ascendere, spera, in un luogo migliore.

Quello, però, è lì ogni venticinque di dicembre e accoglie i suoi ritorni da ventanni, e lui lo guarda come un qualcuno con cui non si ha confidenza, ma che si conosce di vista per forza dellabitudine. Non lo vede, quando torna a Fortino destate, né quando il due novembre si obbliga a far visita alla tomba di sua madre, né quando capita che debba trattenersi lì per gestire le sue terre.

Appare solo in quel gelido giorno, stagliato sulla coltre di neve sottile, a ripetere la sua cantilena per ventiquattrore prima di svanire nel nulla. Dacché ricorda, ogni volta che è capitato nei pressi della stazione di posta il giorno di Natale, lha sempre visto lì.

È un fatto che gli incrina sempre lumore; lo tormenta non esser mai riuscito a venire a capo del delitto consumatosi in quel luogo chissà quanto tempo prima. E devesser tanto davvero, se quello spettro riemerge una sola volta lanno, forse nel giorno stesso in cui fu strappato alla vita.

Ricciardi non ha mai ben compreso come funzionano i sottili fili che legano la sua vita a quella dei morti, ma nel corso degli anni ha finito per intuirne alcuni meccanismi. Che, per esempio, riesce a scorgere solo chi è morto di morte violenta, il cui carnefice non è stato consegnato a giustizia. Che, non sa perché, né lo ritiene equo, anche i suicidi rientrano in quella categoria. Che, dopo tempo, i fantasmi diventano più evanescenti fino a sparire; lo suppone, o dovrebbe essere costantemente circondato da torme di spettri vecchi di migliaia danni.

Teme, ed è un timore venato di un sollievo colpevole, che prima o poi vedrà svanire anche quel fantasma di Natale, che gli sembra sbiadire di anno in anno sempre più.

Nel passarvi accanto accorcia il passo, assecondando il brivido sulla nuca e nulla ha a che fare con il gelo: incontra gli occhi pallidi e privi di pupilla della donna, che sembrano fissarlo e passargli attraverso al contempo, inginocchiata nel punto in cui è morta.

I suoi vestiti sono umili e un fazzoletto le copre il capo; ma è giovane, e in vita devessere stata bella, quando il suo volto tondo non era distorto dalla sofferenza. Ciocche di capelli scuri sfuggono dal fazzoletto e col braccio stringe al petto qualcosa di invisibile. Allaltezza del cuore, sulla casacca chiara, spicca un alone di sangue che le sboccia sopra il seno in un macabro fiore allocchiello.

Gli giunge chiara la sua voce cantata, adesso, una nenia dolce a dispetto delleco che la avvolge:

«Ninna, nanna, mio Albert, e fa  la ninna e fa’ la nunnarella...»

Una ninna nanna perduta, rivolta al bambino invisibile che pare stringere al petto e che, Ricciardi lo spera, non ha seguito lo stesso destino di sua madre, se non può vederne il fantasma.

«Signorino, va tutto bene?»

La voce di Rosa lo riscuote e si rende conto di essersi quasi arrestato dinanzi alla vecchia stazione di posta.

«Sì, Rosa,» la rassicura, posandole una mano sul braccio ancorato al suo. «Pensavo solo che è un peccato, lasciar andare così in malora la struttura. Magari si potrebbe risistemarla, unestate di queste.»

Ormai è svelto, a inventar sul momento scuse sul perché, a volte, si soffermi a fissare luoghi e angoli dove gli altri non vedono che il vuoto. Rosa annuisce tra sé, rasserenandosi.

«Mi piacerebbe rivederla come una volta. Un tempo qui cera una bella osteria; ci ho lavorato per un po da piccirilla, sapete? Era enorme, molto più di così. Prima che voi nasceste e i vostri cari genitori prendessero me e mia madre a servizio.» Sembra contenta, nel rivangare quel ricordo lontano di vita dura, e Ricciardi è contento di ascoltarla. «Potreste parlarne coi carpentieri in primavera,» aggiunge speranzosa.

Ricciardi ricambia il sorriso e fa cenno di sì. Rivolge un ultimo sguardo alla donna fantasma, persa nella sua nenia senza tempo di fronte a quella rovina dimenticata. Se la immagina rimodernata, con un bel patio esterno, un punto di ristoro per contadini e boscaioli di ritorno dai terreni circostanti, con una stalla per i cavalli da lavoro, una cucina e tutto un affaccendarsi umano attorno.

Il fantasma, allora, finirebbe per sparire. Lo vede capitare in fretta a quelli che si ritrovano sfiorati dal flusso costante di gente e vita, che sembra affievolire la tenacia con cui si ancorano al loro mondo. Se ne andrà dimenticato, la sua morte invendicata.

Stringe le labbra con risolutezza, mentre varca con Rosa la porta dingresso al paese: quello è lultimo Natale in cui vede quel fantasma, ma non certo perché lo lascerà svanire.

Non appena lui e Rosa mettono piede nella vecchia, ampia casa dei baroni di Malomonte, lui ne esce immediatamente, adducendo la scusa di farsi due passi nella quiete della domenica mattina. Lei si sorprende un poco, ma non tenta di trattenerlo. Forse pensa che voglia passare dalla cappella di famiglia in solitudine.

Ridiscende svelto per le viuzze del paese appena percorse, incontrando solo un paio di gatti raggomitolati sulle soglie delle case e un pettirosso appollaiato su un cancello, il cui canto si attorciglia in tenui volute di vapore nell'aria gelida. Raggiunge di nuovo la stazione di posta, lieto che anche la vita contadina di quei luoghi si conceda un breve riposo a Natale.

Si ferma dinanzi alla figura spettrale della donna.

«Ninna, nanna, mio Albert, e fa ' la ninna e fa' la nunnarella...» canta lei, con voce stanca.

Ricciardi non spera di trovare indizi concreti, dopo chissà quanto tempo. È proprio quello, il punto su cui si arrovella: quanto tempo esatto sia passato, così da restringere il campo di ricerca. È probabile che lo stesso assassino sia già morto, ma evidentemente non è stato mai condannato per il proprio crimine.

Osserva i vestiti della donna, nonostante posarvi lo sguardo gli causi acute fitte dietro gli occhi: non vi riconosce nulla di utile, se non che parrebbero abiti contadini piuttosto antiquati. Abiti di festa, forse, a giudicare dal corpetto nero e variopinto che tiene ferma l'ampia sottoveste bianca al di sotto, scendendo poi in una gonna di un rosso vivo. I colori sono annacquati dal tremolio di quel corpo privo di consistenza, ma sono ancora ben intuibili; inclusa la macchia sanguigna che le deturpa la camicia.

Non se ne intende abbastanza, per saperli datare con precisione, ma gli sembrano simili a quelli di una vecchissima foto di famiglia di Rosa, in cui lei aveva forse cinque anni. La sua anziana tata ha ormai superato la settantina ed è nata l'anno dell'Unità d'Italia. È dunque possibile che la donna fantasma sia vissuta ancor prima di quell'epoca.

Distoglie brevemente lo sguardo, massaggiandosi le palpebre dolenti. Non è mai semplice osservare i fantasmi; è come se la loro aura riuscisse a pizzicargli i nervi, causandogli disagio fisico.

Rivolge poi la sua curiosità alla stazione di posta che, da quanto sa, è lì da sempre. Compie un giro attorno all'edificio, sempre inseguito dalla costante nenia della donna, senza prevedibilmente trovare nulla che ne suggerisca l'epoca di costruzione. Intuisce, però, che il perimetro originario doveva essere stato più ampio, arrivando a includere anche il punto in cui si erge il fantasma.

Avanza ancora, infradiciandosi le scarpe e avvicinandosi alla forra; quella striscia di terra è inselvatichita e dalla neve sbucano sparuti ciuffi d'erba giallastra. Un pruno spinoso, assediato dai rovi, si sporge oltre il precipizio, quasi invitandolo a guardare sul fondo.

Con cautela, asseconda l'invito, una mano a sorreggersi al tronco. In basso, una distesa grigiastra di neve, arbusti e massi irregolari; nulla che catturi il suo sguardo. Nel ritrarsi, i rovi gli si impigliano nella stoffa del cappotto ed è costretto a sgarbugliarsi dalla loro presa per evitare di sfilacciarlo. Gli cade l'occhio al centro dell'intrico di fusti sottili e spine, cogliendo una sagoma insolita, che non gli pare naturale.

Si sgancia dalla presa ostinata delle piante e aggira il roveto, cambiando angolazione: nel folto della selva, irraggiungibile, giace la figura inconfondibile di un fucile. Ricciardi allunga il collo più che può oltre la barriera di spine senza ferirsi: è un moschetto, lo deduce dalla pietra focaia nel cane ormai arrugginito. È impensabile tentare di recuperarlo a mani nude, ma a Ricciardi basta vederlo così per dedurre che, con ogni probabilità, sta guardando la possibile arma del delitto.

Si ritrae, guadagnandosi un paio di graffi sulle gambe nel guadare nuovamente il mare di rovi, e torna dalla figura fantasma e dalla sua ninna nanna eterna.

«Ninna, nanna, mio Albert, e fa ' la ninna e fa' la nunnarella...»

Dopo quel breve sopralluogo, gli sembra di aver compiuto un passo avanti, per quanto microscopico.

 

Parte dal nome, perché è il dettaglio che gli ha sempre stonato, sin da ragazzino.

“Albert. Non Alberto, come logica e tradizione vorrebbero nel profondo Cilento, ma la sua variante teutonica. Se quello non è un indizio, lui può pure rassegnare le dimissioni da commissario non appena rientra a Napoli.

Ha pochi pezzi, tra le mani, ma coincidono in modo abbastanza congruo da formare un'immagine in trasparenza: un nome straniero assegnato al bambino, unito al fatto che la donna cantasse in dialetto; il moschetto nascosto tra i rovi, il fatto che l'assassino sia rimasto impunito. Sa che in Cilento ci sono stati dei moti di rivolta contro gli austriaci, prima dell'Unità d'Italia, e non gli viene difficile immaginare che la donna vi sia rimasta in qualche modo coinvolta e che magari si sia scontrata con qualche soldato.

Ricciardi si affretta a rientrare in paese, ormai alle dieci passate. Una volta a casa, riesce a intercettare Rosa tra la cucina e la dispensa, cogliendola con in mano un cesto ricolmo di pastorelle mentre si affaccenda assieme ai domestici per preparare il pranzo di Natale.

«Rosa, posso rubarti un momento?»

«Certo, signorino... basta che non vi rubate pure il resto,» gli risponde, scansando il cesto ricolmo di dolci quando fa per prenderne uno.

Ricciardi sorride un po' colpevole, ritirando la mano dagli unici dolciumi in grado di fargli gola; perché li prepara Rosa con affetto immutato da più di trent'anni, e perché gli ricordano un giorno di Natale lontano, quando c'erano ancora i suoi genitori e prima di scoprire la propria maledizione, in cui aveva mangiato le sue pastorelle alle castagne fino a scoppiare.

«Senti, ti risulta che qui a Fortino, ai tempi dei tuoi genitori, sia mai vissuto qualcuno con un nome austriaco? Albert?» chiede a bruciapelo; non vi è un modo non strambo per porre quella domanda.

Prevedibilmente, Rosa fa tanto d'occhi e le rughe del sorriso lasciano il posto a linee più serie.

«Cielo, non saprei,» dice, spostando il cesto sottobraccio. «So che quaggiù ci son venuti gli austriaci, ai tempi dei miei nonni, ma che qualcuno vi sia rimasto... tutto, hanno distrutto, pure Bosco qua vicino. Tutto alle fiamme, hanno dato.»

Fa una faccia cupa, a intendere che, qualunque austriaco con tal poco senno da rimanere da quelle parti dopo averne massacrato la gente non deve aver avuto vita lunga.

«Ma perché mai v'interessa una cosa simile?»

«Curiosità,» scrolla le spalle lui. «E potrebbe essere legato a un caso che sto seguendo a Napoli. M'è solo venuto in mente.»

«Signorino, badate bene di riposarvi, almeno il giorno di Natale,» lo fulmina lei, piantandosi il pugno libero sul fianco. «Altrimenti, vado a parlare col dottor Modo e vi faccio prescrivere il riposo forzato.»

Ricciardi si lascia scappare un sorriso, a quella minaccia, pensando che Bruno sarebbe perfettamente capace di darle corda anche solo per irritare lui.

«Non preoccuparti, non è nulla di faticoso,» minimizza, ben sapendo di non ingannarla.

Infatti, lei prende un grosso sospiro e, nonostante lui sia ormai più alto di lei di una buona ventina di centimetri, si sente di nuovo un bambino colto a fare qualcosa che non dovrebbe.

«A me basta che state a tavola per mezzogiorno,» dichiara infine. «E se proprio v'interessa chi è vissuto qui, ci sta il cimitero. Ora scusate, ma c'ho i cavatelli da preparare.»

Detto ciò, riprende la sua intenta marcia verso la cucina, lasciandolo lì nel corridoio con un palmo di naso. Il cimitero, giusto. Si sente un idiota a non averci pensato da solo; alla faccia del commissario navigato.

«Grazie, Rosa,» le dice dietro, avviandosi già di corsa verso l'uscita.

Il cimitero di Fortino è piccolo come il paese che lo ospita e delimitato da una scarpata boscosa sul retro e da un torrentello su un fianco. Dista una mezz'ora a piedi dal centro abitato, che copre in venti minuti a passo sostenuto.

Le fila di tombe sembrano quasi troppe, per un numero così esiguo di abitanti, e spaziano tra almeno un paio di secoli a giudicare dalle date. La piccola cripta centrale in pietra bianca è chiusa; Ricciardi sa che dentro c'è anche qualche suo avo di cui non ha mai ricordato il nome, ma dubita che chiunque stia cercando sia un nobile.

Attraversa il terreno innevato, scrutando i nomi incisi in ogni lapide in cerca di qualcuno che balzi all'occhio. Si sente paradossalmente sereno, nel trovarsi in un cimitero: sarà anche il luogo più facilmente associato ai morti, ma raramente vi si consumano delitti efferati. Lì i morti sono in pace, in eterno riposo, e non riemergono mai a sussurrargli nelle orecchie.

Si trova a compiere il giro del camposanto tre volte, certo d'aver mancato qualche tomba e scrutando sempre più nervosamente l'orologio.

Quando finalmente lo trova, è convinto d'aver preso un abbaglio: "Alberto", legge su una lapide, e sta già per passare oltre. Poi, nota che la "o" non è incisa sulla pietra in modo regolare, e pare invece un'aggiunta successiva operata da qualcun altro.

Alberto Capasso, 1828-1901, recita la lapide, che pare piuttosto ben tenuta, data l'assenza di muschio e licheni sulla pietra e i fiori rinsecchiti che fanno capolino dalla neve. Sono vecchi, forse deposti lì per il Giorno dei Morti. Sulla superficie della lapide, vi è abbastanza spazio per aggiungere eventuali altri nomi, ma è una tomba singola.

Sfiora con un dito il contorno della "o", incisa solo superficialmente, poi rilegge le date. È certo che i moti rivoluzionari della Carboneria in quella zona risalgano proprio al 1828, così come la calata dell'esercito austriaco a sedarli. Quell'Alberto dev'essere per forza il bambino a cui la donna fantasma, un secolo fa, recitava quella ninna nanna.

Si sente soddisfatto della scoperta, sebbene irrequieto al pensiero di dover scomodare la famiglia Capasso il giorno di Natale, ma non può rischiare che quello spettro scompaia per sempre.

Qualunque iniziativa, però, dovrà aspettare il pomeriggio: è quasi mezzogiorno e non ha intenzione di far angosciare Rosa anche a Natale. Oltre al fatto, più pragmatico, che lei saprà di certo dirgli qualcosa di più sui Capasso.

Sono quasi le cinque, quando riesce a svicolare via dal capotavola senza risultare sospetto. Nessuno tenta di trattenerlo, anche se Rosa gli scocca un’occhiataccia quando prende un'ultima pastorella dal cesto nell'allontanarsi.

Nell'ampio salone ha fatto disporre due tavolate; di parenti in vita non ne ha e finisce sempre avere come commensali i propri domestici, ormai impiegati presso i Malomonte da generazioni, e le loro famiglie. Li preferisce di gran lunga ai signorotti di provincia che si è ritrovato a soffrire fino a qualche anno fa; ed è certo meglio che pranzare in solitudine.

Quando esce, il cielo è già rossiccio, pronto al buio invernale, e il freddo intenso gli fa pizzicare le guance e il naso. S'incammina a passo sicuro: quando ha chiesto informazioni a Rosa, non è rimasto deluso nello scoprire che sapeva perfettamente chi fossero i Capasso, dove abitassero e cosa facessero di mestiere. Di un parente di nome Albert o Alberto, però, non sapeva nulla.

Così, si dirige verso la piazzetta della chiesa e poi su per Vico San Nicola, come gli ha detto Rosa, fino alla traversa senza nome con l'arco antico ornato da un rampicante ora spoglio.

Trova senza difficoltà la loro porta, con una ghirlanda di spighe secche e rami d'abete a ornarla. Esita. Dall'interno, proviene un vocio soffuso e allegro: la famiglia è probabilmente ancora intenta negli ultimi strascichi del pranzo. L'idea di incrinare quella serenità con domande riguardo a morti e fatti di sangue lo fa quasi desistere, ma il ricordo della ninna nanna fantasma lo spinge a rompere gli indugi.

Bussa due volte, abbastanza forte da sovrastare le voci. Un breve, interdetto attimo di silenzio segue quel suono, poi la porta si schiude e Ricciardi deve trattenere un sussulto involontario: la giovane che gli apre la porta è innegabilmente simile allo spettro della donna. Ha gli stessi capelli scuri, la stessa rotondità del viso, la stessa forma degli occhi castani.

«Signor barone?» chiede lei, riconoscendolo; si lancia un'occhiata dietro come a cercar consiglio.

«Buonasera. E buon Natale,» replica lui, nel modo più naturale che gli riesce. «Scusate l'intrusione, ma...»

«Laura! Chi è?» chiama una voce maschile da dietro, probabilmente il padre.

Lei in tutta risposta spalanca la porta, esponendolo allo sguardo degli altri, che lo squadrano basiti. Poi uno di loro, brizzolato e pasciuto, balza in piedi; dalla voce roboante, è l'uomo che ha parlato prima:

«Signor barone, che sorpresa!» dice, facendoglisi incontro con una spigliatezza invidiabile. «Enrico Capasso, piacere,» e gli stringe la mano con energia, senza troppe manfrine d'etichetta, «non ci aspettavamo mica di vedervi...»

«Lo so, perdonatemi l'improvvisata e se non v'ho fatto avvertire.»

«Macché, macché! Entrate pure, non state là fuori a congelarvi, di qualunque faccenda si può parlar dentro... Nadia, su, offri qualcosa al barone!» tuona poi, evidentemente agitato a dispetto della prontezza con cui ha reagito.

«Non scomodatevi, torno anch'io dal pranzo,» tenta lui, prima di essere praticamente trascinato dentro, di fronte a una quindicina di persone tra adulti e bambini che lo squadrano con tanto d'occhi.

È lieto di vedere solo sorpresa, nei loro sguardi, ma nessuna traccia di rancore. È semplice rendersi odiosi, quando si possiede metà del paese in cui abita la gente, ma si è sempre impegnato a discostarsi dalla condotta spocchiosa degli altri nobili. Forse, può pensare d'esservi riuscito.

Nadia, una donna sulla cinquantina dai capelli biondicci e dal volto tondo, è evidentemente la madre di Laura e discendente pure lei della donna fantasma, sebbene in modo meno evidente. Bruno, una volta, ha provato a spiegargli qualcosa di genetica e di come funzionino i tratti ereditari, ma non gli serve una laurea in medicina per capire di aver trovato la famiglia giusta.

Nadia gli fa cenno di sedersi sulla sedia che ha appena accostato al capotavola del tavolino in cucina.

«Prego, signor barone. Lasciatevi offrire un poco di vinsanto e un paio di morzelletti,» lo invita, gentile a dispetto delle circostanze. Poi alza l'indice verso il lato dei bambini. «E guai a voi! Piantatela di fissare il nostro ospite.»

Ricciardi si ritrova comunque gli sguardi di una mezza dozzina di ragazzini puntati addosso. Almeno per il momento, deve stare al gioco, quantomeno per buona creanza. Accetta dunque il bicchiere di vinsanto e vi intinge un morzelletto, anche se si sente scoppiare. Il resto della famiglia riprende a parlare e i bambini si riaccendono in un chiacchiericcio vivace, come se non ci fosse affatto uno sconosciuto seduto lì tra loro per chissà quale motivo.

Ricciardi apprezza quel modo di fare pratico e genuino. Dopo un sorso di vinsanto decisamente troppo forte e i convenevoli e auguri di circostanza, si rivolge verso Enrico, che si è seduto alla sua sinistra. L'uomo sembra capire all'istante e si leva in piedi, facendogli cenno di seguirlo nella stanza padronale.

«Potrei parlare anche con vostra moglie e vostra figlia?» gli chiede Ricciardi, appena sono fuori portata d'orecchio dai parenti.

Enrico si adombra, ora preoccupato e forse infastidito dalla richiesta, ma annuisce, facendo tremare le guance rubizze. Pochi secondi dopo, le due donne lo seguono dappresso; Laura chiude la porta dietro di sé.

«Signor barone, diteci pure,» esordisce Enrico. «È successo qualcosa?»

«In verità, sarei qui nelle vesti di commissario di polizia. Mi trattengo solo oggi e già domani dovrò rientrare a Napoli, per cui non avevo altra occasione per farvi visita.»

Prevedibilmente, la menzione della polizia dipinge un velo d'allarme sui loro volti.

«Non è nulla di cui dobbiate preoccuparvi: ho solo bisogno di qualche informazione per un vecchio caso che è saltato fuori.»

«Beh, chiedete pure, commissario,» dice Enrico, scambiando un'occhiata con la moglie.

«Signora Capasso, mi risulta che un vostro parente, presumo vostro nonno, si chiamasse Albert,» esordisce subito, calcando il nome straniero.

Nadia scosta una ciocca striata d'argento dietro l'orecchio e non sembra affatto raccapezzarsi.

«Mio nonno Alberto, intendete?» pronunciando il nome all'italiana.

«Sì, ma probabilmente il suo vero nome era Albert. Un nome austriaco.»

Una scintilla di comprensione si accende nel suo sguardo.

«Era il suo vero nome, dite?» chiede, d'un tratto nervosa. «È morto tanto tempo fa, ormai, ma pensavamo ci fosse stato un errore nell'incidere la lapide. L'abbiamo corretta noi stessi perché il marmista s'è rifiutato d'ammettere il pastrocchio.»

Suo marito scuote la testa, tirandosi i baffi.

«Perché mai avrebbe dovuto avere un nome austriaco? Lui era cilentano come lo sono io e come lo siamo tutti, o sbaglio?» sbotta, evidentemente spaesato.

«Commissario,» interviene Laura, con voce timida. «Forse dovreste parlare con mia nonna Elvira. La madre di mia madre,» specifica, osservando la reazione di questa, ma Nadia non sembra contrariata.

«Perché mai?» chiede però, fissando la figlia. «Ormai è così anziana che ricorda a malapena chi è, non...»

«Perché era figlia di nonno Alberto e ne parla ancora tanto. Parla un sacco di tutto, se stai lì ad ascoltarla per un po'. E a me pare proprio che ogni tanto l'abbia chiamato Albert, pure se io pensavo che era perché non riusciva a parlar bene.»

Ricciardi si ravviva, facendo un cenno alla giovane.

«Se non vi è troppo d'incomodo, vorrei parlare con la signora Elvira. Magari può fornirmi qualche informazione utile. Sarebbe di grande aiuto al nostro caso.»

Vi è uno sguardo reciproco tra Laura e i genitori, un muto parlare tra generazioni che sfocia infine in un cenno d'assenso.

La stanza in cui riposa la signora Elvira ha un'unica finestrella in alto, con gli scuri abbassati, e deve essere stata in origine un ripostiglio. Un piccolo letto addossato al muro, un comodino e un bacile da toeletta compongono l'intero arredamento.

Elvira ha occhi di un azzurro penetrante, in contrasto con quelli del resto della famiglia, e lo stesso volto tondeggiante della figlia e della nipote; e di sua nonna, anche se lei ne è ignara.

Si siede sullo sgabello di fianco al letto una volta che Laura e la madre l'hanno sollevata sui cuscini; nella stanza rimane solo la giovane, mentre i genitori, in uno sfoggio di fiducia, tornano a intrattenere i loro parenti. Laura si siede rapida ai piedi del letto, come se volesse tenerlo d'occhio, e lui non protesta: quell'atteggiamento protettivo, in verità, lo intenerisce.

«Signora Elvira?» esordisce Ricciardi, con voce pacata.

Gli occhi azzurri della donna trovano subito i suoi, pur non con precisione. Si spalancano un poco.

«Signor barone?» chiede, con un filo di voce sfibrata.

Ricciardi è abbastanza sicuro che lo stia scambiando per suo padre, data l'età avanzata.

«Sì, signora. Buon Natale,» aggiunge, con garbo; lei annuisce, replicando in un mormorio d'auguri indistinto. «Mi dispiace disturbarvi. Sono un commissario di polizia e volevo porvi qualche domanda.»

«Il barone, un commissario?» Sembra essersi fatta più desta, e rivolge gli occhi interrogativi alla nipote. «E da quando, Laure'?»

La ragazza si torce le mani e sembra imbarazzata nel dover rispondere; Ricciardi la trae d'impaccio:

«Signora, sono Luigi Alfredo Ricciardi, il figlio di Alfredo Ricciardi. Mio padre è morto molto tempo fa,» aggiunge, mascherando la malinconia con un breve sorriso.

L'anziana annuisce lentamente tra sé, facendosi d'un tratto costernata.

«Perdonatemi, barone... la memoria non è più quella d'un tempo. S'arricorda solo quello che vuol lei.» Ricciardi scuote appena il capo a significare che non importa. «Che domande volete farmi, dunque?»

«Riguardano vostro padre. Albert.»

I suoi occhi si fanno un poco più lucidi, qualche ruga attorno agli occhi si tende.

«Voi... voi siete il primo che lo chiamate così. Albert,» commenta, con un poco più di forza. «Lo sapevo solo io, che si chiamava così. A voi chi ce l'avrebbe detto?»

Qualcosa gli dice che, se dovesse decidere di raccontargli del fantasma di sua nonna che canta una ninna nanna per suo padre neonato, verrebbe creduto senza se e senza ma da quell'anziana donna, che sembra aver visto anche più di qualche spettro, per scavarle così tanto il volto e segnarle gli occhi.

«L'ho letto così sulla vostra tomba di famiglia,» dice invece, senza abbassare lo sguardo. «Sto indagando su un caso che si intreccia a vostro padre in modi che, purtroppo, non posso rivelarvi. Ma mi sarebbe molto utile sapere qualcosa su di lui, sul perché portasse un nome austriaco.»

«Suo padre era austriaco, da quanto diceva,» rivela lei, con semplicità. «Non ha mai conosciuto i suoi genitori, perché l'hanno ammazzati entrambi che era un infante...»

«E vostro padre vi ha mai detto in che modo?» chiede lui, interrompendola e rimediandosi un'occhiataccia dalla nipote. «Mi sarebbe molto utile saperlo.»

A quel punto, Elvira sorride in modo triste.

«Per amore, mi diceva sempre lui.» Scuote la testa sul collo fragile. «Mio nonno era un soldato asburgico che s'era innamorato di mia nonna, Delia, mentre era qui a combattere contro i contadini e i carbonari. Lei lavorava all'osteria, che al tempo se l'erano presa i soldati a forza. Ma lui s'era innamorato così tanto che aveva deciso di disertare e frequentarla in segreto; solo che, finite le rivolte, a lui l'hanno riportato via e chissà che gli è successo. Non s'è più visto. E Delia è rimasta qui, con mio padre in grembo, senza un soldo, additata dal paese come traditrice e concubina per essersi concessa al nemico.»

Ricciardi abbassa lo sguardo sulla sua mano nodosa, dalla pelle sottile come carta di riso che lascia intravedere il reticolo di vene al di sotto. È contratta sul lenzuolo, in un moto di rabbia silenziosa.

«Hanno raccontato a mio padre che, poco dopo che lei l'aveva partorito settimino, qualche compare del padre ha pensato bene di andare a reclamare il bambino come austriaco, per portarselo su dagli Asburgo. Non c'è riuscito, perché i suoi zii li hanno difesi e l'hanno ammazzato, ma lui è riuscito a uccidere sua madre. Così m'ha sempre raccontato. Così so io, ed è tutto quel che so.»

Il silenzio cupo che cala nella stanza si addensa, dopo quel racconto affatto adatto al giorno di Natale. L'ombra di alcuni sparuti fiocchi di neve s'intravede dallo spiraglio tra gli scuri. Elvira sospira, stancamente. Con la coda dell'occhio, vede Laura che ha gli occhi lucidi puntati ai propri piedi. Ricciardi capisce che non otterrà di più; né vuole provare l'anziana più di quanto non sia.

«Grazie, signora Elvira. Farò tesoro del vostro racconto,» proferisce infine, stringendole con gentilezza la mano fragile. «Ho solo un'ultima domanda: voi sapete come si chiamava vostro nonno? Il soldato austriaco?»

Lei scuote appena la testa, ma non sembra stare negando, solo persa nel tentativo di ricordare.

«Hans,» dice poi, in un respiro. «Si chiamava Hans.»

«Grazie ancora.» Le rivolge un lieve sorriso. «Scusate se v'ho disturbato e buon Natale di nuovo.»

Quando torna alla stazione di posta, il fantasma di Delia non è svanito, né si aspettava lo facesse. Perché, se davvero la storia di come fosse morta era nota almeno al figlio e alla nipote, e il carnefice è andato incontro a giustizia, seppur sommaria, non si spiega perché debba essere ancora lì.

C'è un'unica possibilità che è andata a prender forma nella sua mente mentre camminava fin lì nell'ombra del crepuscolo ora striato da fiocchi di neve. È l'unica possibilità che abbia senso.

Si ferma davanti a Delia, davanti al fiore rosso che le sboccia sulla casacca, e osserva il gesto tenero, anche se vacuo, con cui si stringe il braccio al petto.

«Ninna, nanna, mio Albert, e fa ' la ninna e fa' la nunnarella...»

Quella litania sommessa si confonde al fruscio della neve che cade. Ricollega i pezzi di quella vicenda, i tasselli che ha avuto in mano sin dall'inizio: il fatto che un tempo lavorasse all'osteria, che quella struttura fosse stata molto più ampia un secolo prima e che, quindi, il punto in cui è inginocchiata ora poteva benissimo essere una stanza da letto.

Il fatto che Albert non fosse stato portato via dagli asburgici, nonostante sua madre fosse morta, né ucciso, e che lei fosse soprattutto morta in quel modo, nell'intimità della propria casa, mentre cullava ignara suo figlio, di cui magari aveva scelto il nome assieme al padre, invece di tenergli nascosto il figlio.

«È stato Hans, vero?» chiede sottovoce a Delia. «Non se n'è andato con l'esercito alla fine delle rivolte. È rimasto qui, quando ha scoperto la gravidanza. Ma quando è nato Albert, pure settimino, si è reso conto di cosa volesse dire davvero.»

E chissà Hans cos'aveva pensato, se aveva temuto vigliaccamente di macchiarsi ancor più nell'onore, o se non aveva voluto sobbarcarsi un figlio mezzo italiano e mezzo austriaco; chissà quale futile scusa s'era detto, mentre premeva il grilletto contro Delia.

Chissà cos'aveva frenato la sua mano nell'uccidere anche Albert; se qualcuno l'abbia fermato per tempo o se sia stato uno scampolo d'umanità a frenare la sua mano, che aveva poi gettato il moschetto tra i rovi. Chissà che gli zii di Albert non avessero trovato loro nipote ancora tra le braccia inerti di sua madre, avessero intuito il misfatto, e avessero voluto risparmiare a quel bambino di pensare al proprio padre come a un assassino così spietato. Costruendo di fatto una bugia che, avendo celato la verità sino ad oggi, non può certo definire malvagia.

Tutto questo non potrà mai saperlo, però, né può dirglielo Delia, che tremola dinanzi a lui come l'acqua inquieta di un ruscello. Non svanisce, nemmeno ora.

Forse non è ancora abbastanza. Forse ci vuole di più: un volto, una confessione, un qualcosa di tangibile, per liberare la sua anima da quel mondo.

Delia lo fissa con occhi vacui, ripetendo la sua ninna nanna infinita tra la fitta coltre di fiocchi che quasi la cela. Ricciardi sospira piano, in una nube di vapore denso che gli offusca la vista.

Sta per voltarsi, quando un tremolio più forte scuote la figura diafana. È un battito di ciglia, un turbinio di fiocchi più ampio: il fantasma svanisce nell'aria gelida, portando con sé il suo canto. Ricciardi sente una scintilla di calore che va a scaldargli il petto. Alza il capo a seguire le volute bianche sopra di lui, quasi a trovarvi l'anima di Delia.

Nel punto in cui era rimasta in attesa per più di cento anni, continua ora a posarsi silenziosa la neve.

 

 


 


Note dell’Autrice:
Cari Lettori,
aggiungo queste note con un giorno di ritardo, perché ieri ero con l’acqua alla gola per la scadenza del Calendario dell’Avvento XD
Credo che questa sia stata la storia e autoconclusiva che ho scritto nel minor lasso di tempo. Praticamente mi sono seduta alla scrivania alle 10:00 e alle 19:00 (con un intervallo lavorativo di mezzo) era pronta per la pubblicazione :’) La revisione è molto aleatoria e non è detto che non decida di sistemare la storia da capo a piedi in futuro, una volta terminata l’iniziativa del "Calendario dell’Avvento 2023"
5.000 parole, c’è da dirlo, sono veramente poche per scrivere una storia con una trama complessa, come dettava il regolamento del contest "Raccontami una storia", soprattutto se parliamo di un giallo, ma ho accettato volentieri la sfida. In realtà, me ne sarebbero bastate appena 6.000 per limare tutti i punti che qui, per forza di cose, sono rimasti un po’ affrettati.
Edit: visto che alla fine il contest non è partito, ho aggiunto tutte quelle piccole parti di raccordo che servivano, rimanendo comunque sotto la soglia delle 6.000 parole ♥
Grazie a chi ha letto e a Cora Kodama, Sia e Mari Lace per aver indetto le rispettive iniziative sul forum "Ferisce la Penna" ♥
E pastorelle gratis per chi deciderà di lasciare un commentino! ♥

-Light-


Piccole puntualizzazioni storiche/dettagli (messe qui poiché probabilmente inutili):
1. Ho ricercato estensivamente i fatti menzionati (ovvero i Moti Carbonari del 1828), ma ovviamente non vi era spazio per approfondire, quindi sappiate solo che non ho sparato cose a caso e che anche i lassi temporali tornano (le rivolte furono in estate, Albert(o) nasce settimino a dicembre);
2. Fortino è una città fittizia, che io colloco convenientemente nei dintorni di Bosco, uno dei centri più interessati dalla rivolta;
3. La ninna nanna, da quanto ho trovato, è diffusa in tutta la Campania e l’ho solo leggermente riadattata;
4. Il Natale nel 1932 veniva ovviamente festeggiato in modo molto diverso e sobrio rispetto a oggi. Consideriamo anche che il fascismo rivisitò alcune festività: per esempio, spostò il Capodanno ufficiale al 28 ottobre, giorno della Marcia su Roma... ovviamente la maggior parte della gente se ne infischiò e continuò a festeggiare San Silvestro normalmente lol. Però diciamo che la tradizione del pranzo di Natale da coma ha radici antiche XD
5. Canonicamente, Ricciardi mangia solo perché deve e salta spesso i pasti; però mi piaceva l’idea che ci fosse *una singola cosa* che gli facesse gola, almeno a Natale :’)
6. Ho cambiato qualche nome qua e là perché ci avevo schiaffato i primi che mi erano venuti in mente XD Delia è tra questi: un piccolo omaggio al film di Paola Cortellesi "C’è ancora domani" ♥
   
 
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