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Autore: giancarlo    25/12/2023    0 recensioni
Il giudice M., affrontando il distacco dal figlio e una vita familiare in ombra, si trova a dover risolvere una minaccia al figlio Enrico, rivolgendosi alla malavita per aiuto, esponendo la sua ipocrisia.
Genere: Satirico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il fascio di luce, che si fa strada tra la verzura per attraversare il tavolo da pranzo, è periodicamente nascosto dall'oscillare di un ramo. Questo ramo del salice, agitato dal vento nel giardino, a momenti impedisce al raggio di luce di giungere alla finestra, di filtrare tra le tende appena separate. Ma il raggio continua a persistere, tenace.
Il giudice M. si è sistemato proprio in quel punto privilegiato del tavolo, desideroso di assorbire il calore del sole. Nella sua gioventù, trascorrendo i pomeriggi nella pensione dal forte odore al Pozzo del Santo Eustacchio insieme allo zio, aveva sempre anelato al sole. Ma il sole sembrava eluderli. Lo zio di M. riteneva fosse semplicemente sfortuna. "Se la pensione è situata sul lato della strada che il sole non tocca mai, che si può fare? Basta osservare il sole che illumina l'edificio di fronte dalla finestra. Ma non sentirai mai il suo calore sulle ossa. È questione di sfortuna," ripeteva lo zio di M. Queste parole divennero quasi un mantra, un insegnamento che lo zio gli impartiva tra una legge e una riflessione giuridica.
Quell'aforisma, con il tempo, si trasformò in una verità assoluta nella vita del giudice, che ora crede fermamente che ognuno nasca con un'ombra o un sole perpetuo. Abitando ora in una delle ville più raffinate della collina, il giudice M. non è mai riuscito a godere appieno del sole tanto bramato in gioventù. Un rimpianto che lo tormenta ancora. A volte, si ricorda le parole che il caro zio gli sussurrò sul letto di morte: “Nipote mio, non lasciare mai che le ombre offuschino il tuo spirito. Sfuggi, se puoi, a un mondo di sole tenebre. Cerca il sole, solo così potrai un giorno affermare di aver veramente vissuto”.
Inizialmente, la villa era inondata di sole. Il giudice l'aveva scelta proprio per questo, in cima alla collina. Ma, col passare degli anni, parenti e amici vendettero i terreni liberi circostanti, costruendovi le loro case. Così, villa dopo villa, la collina si trasformò in una sorta di foresta.
“Anna, non credi che, con tutti questi alberelli che crescono, rischiamo di essere soffocati?” chiese lui, con una certa lungimiranza. “Oh, basta con queste fissazioni! Un giardino è fatto per le piante, non per bagnarsi di sole,” rispose lei. “Ma così il sole fatica ad entrare. Sai quanto amo le stanze luminose.” “Che pensieri strani! Se amavi così tanto il sole e la luce, avremmo dovuto trasferirci al mare!” ribatté lei, sorridendo maliziosamente. Allora non diede il giusto peso alle parole della moglie, troppo impegnato a costruire la sua carriera. Ora si sente come un uomo al crocevia tra vecchia e nuova generazione, vivendo appieno il disincanto della nobiltà.
L'appartenenza a un ceto privilegiato e le grandi illusioni di potere non hanno risparmiato al giudice M. alcune delusioni riguardanti suo figlio Enrico: troppo viziato, poco propenso al sacrificio, caratteristiche che ora appaiono in tutta la loro insignificanza. Le parole di Enrico, "Il sole mi infastidisce, papà!", risuonano nella mente del giudice M. Come può suo figlio rifiutare il calore del sole, quel sole che lui ha tanto desiderato nella vita? È una ferita profonda, che si è aperta lentamente, giorno dopo giorno, alimentata dalla crescente distanza tra padre e figlio.
Nel frattempo, la moglie del giudice M., Anna, continua a vivere la sua vita nell'ombra, circondata dalla vegetazione ormai incontrollabile del giardino. La loro relazione si è trasformata in un silenzio costante, interrotto solo da occasionali lamentele e litigi. Ha perso il suo lato solare, quel sole che aveva tanto anelato. La loro vita coniugale è diventata come una stanza senza finestre, soffocante e opprimente.
Il giudice M. si ritrova a un bivio, intrappolato tra un passato di illusioni e un presente amaro. Cerca disperatamente un modo per riportare la luce nella sua vita, ma teme che sia troppo tardi per cambiare il corso degli eventi. L'ombra del suo errore passato si allunga su di lui, offuscando ogni speranza di redenzione.
Ogni giorno, il giudice M. si confronta con il proprio riflesso allo specchio, un rituale che mette in contrasto la sua apparenza esteriore con il caos interno. Il suo aspetto calmo e composto sembra tradirlo. Si chiede quanto tempo potrà ancora nascondere la tempesta che ribolle dentro di lui.
L'istinto di auto-difesa che si attiva quando si sente ferito è diventato una parte integrante della sua personalità. Ha eretto mura invalicabili intorno al suo mondo interiore, proteggendo la sua vulnerabilità da chiunque cerchi di avvicinarsi. Ma questo isolamento ha un prezzo, uno che sente sempre di più mentre vede suo figlio Enrico allontanarsi e sua moglie Anna intrappolata in un giardino trascurato.
Il giudice M. è costantemente tormentato dal pensiero di pagare qualsiasi somma pur di non vedere le loro vite sconvolte, ma sa che non può fuggire da se stesso. In questo turbinio di emozioni contrastanti, si trova in bilico tra il desiderio di aprire la porta all'amore e alla comprensione e la paura di essere nuovamente ferito.
Il disagio del giudice M. si intensifica quando nota Enrico seduto sulla sedia che per anni è stata il rifugio prediletto del gatto Garibaldi. Questa intrusione di suo figlio in uno spazio così personale lo turba profondamente. Avrebbe preferito una comunicazione silenziosa, ma Enrico sembra intenzionato a iniziare una conversazione.
— Hai capito, papà? È importante.
— Enrico ti chiede solo di ascoltarlo — interviene la moglie, facendo capolino dalla porta.
È chiaro per il giudice M. che non potrà sfuggire alla conversazione con un semplice gesto. Prevede che sarà difficile liberarsi di loro.
Enrico inizia a raccontare di una minaccia ricevuta da un ragazzo interessato alla sua fidanzata, Carmelina. Il nome di Ciccio Lo Presti, padre del ragazzo e noto boss del paese, scatena nel giudice una forte agitazione.
— Va bene, chiamerò il capitano dopo pranzo.
La domestica entra, spingendo il carrello con le pietanze. La sua espressione è confusa alla vista di Enrico seduto sul posto di Garibaldi. La donna lo guarda interrogativa.
— Servi pure, Giacomina, che aspetti? — incalza il giudice.
— Ma il signorino è seduto lì?
Enrico si alza per poi ripensarci.
— Ma sì... resto qui.
Quest'ultimo commento colpisce il giudice come un pugno nello stomaco.
— No, no — replica bruscamente. — Siediti sull'altra sedia, quella è di Garibaldi.
Enrico inizia a dire qualcosa, ma alla fine si limita a guardare sua madre, che osserva:
— Quel gatto lo stai viziando, Giuseppe.
La domestica serve il pranzo. È visibilmente confusa; per quanto ricorda, quella sedia è sempre stata occupata da un gatto.
Garibaldi, con un salto agile, occupa la sedia appena liberata e si acciambella, emettendo un miao lamentoso. Il giudice gli rivolge una carezza.
Il pranzo riprende come al solito. Enrico e sua madre conversano, mentre il giudice è assorto nel suo piatto, osservando di tanto in tanto il gatto che lo guarda affettuosamente. Garibaldi ha già mangiato, ma sembra voler godere della compagnia del suo padrone.
 
Nello studio del giudice M., un imponente ritratto di un antenato domina l'intera parete. Il ritratto evoca sempre il ricordo dello zio, l'uomo che tanto amava il sole. Nell'opera, l'antenato è raffigurato con fierezza, indossando un'uniforme militare, il viso impreziosito da folti baffoni. Un raggio di sole lo illumina, evidenziando il suo volto e parte della spalla, mentre il verde dell'erba circostante si fa progressivamente più chiaro. La passione del giudice per la luce si fa nuovamente sentire.
Riflettendo, il giudice M. considera come l'antenato nel quadro si sia posizionato strategicamente per catturare quel momento di luce perfetta. L'abilità dell'artista nel riprodurre le sfumature della luce di quel momento dona al quadro un senso di autenticità e bellezza.
Dopo queste riflessioni, il giudice si concentra sulla questione pendente. Si avvicina al telefono, compone un numero, pronto ad affrontare la questione della minaccia ricevuta da suo figlio Enrico.
Il telefono squilla e una voce risponde dall'altro capo.
— Pronto?
— Mi passi per favore il signor Cipriano. Sono un amico.
Dopo un breve fruscio e voci indistinte in lontananza, qualcuno risponde al telefono.
— Con chi ho il piacere di parlare?
— M.
— Signor giudice...
— Don Cipriano...
— Che posso fare per lei?
— Ho una questione personale da risolvere. Riguarda una minaccia fatta al mio ragazzo dal figlio di Ciccio Lo Presti.
— Ha detto Lo Presti?
— Sì, Lo Presti.
— Capito. Solo per essere sicuro di aver inteso bene il cognome.
— Avete inteso correttamente, don Cipriano. Ciccio Lo Presti. Le sarei grato se poteste occuparvi personalmente di questa faccenda. Intanto invierò mia moglie e mio figlio dal capitano. Potranno spiegare meglio di me i dettagli. Il capitano poi vi informerà.
— Allora lo aspetto.
— A proposito, il capitano è al suo primo incarico, ma è un uomo affidabile. Vi prego di trattarlo bene.
— Non si preoccupi, signor giudice. Nessuno se lo mangerà. È tutto?
— Sì, tutto.
— Bene, signor giudice...
— Don Cipriano...
 
   
 
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