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Autore: innominetuo    27/12/2023    9 recensioni
Quando capisci di aver trovato l’anima gemella, devi accettarla per com’è, e non per come (forse) vorresti che fosse.
E, soprattutto, non per come gli altri vorrebbero che fosse per te.
Questa fan fiction trae diretta ed indiretta ispirazione dalla mia vecchissima one shot “Come può amare una donna”: certamente non è obbligatorio leggerla, per comprendere questa fan fiction.
Semplicemente, si parte proprio da lì…
Questa long fic è stata da me redatta senza scopi di lucro, nel pieno rispetto del diritto di autore e della proprietà intellettuale di Mr. Yoichi Takahashi.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji, Nuovo personaggio, quasi tutti
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Milano, tarda sera.

Solo un calice di buon nebbiolo può renderti sopportabili certe serate, rese ancora più uggiose dal continuo, incessante ticchettio della pioggia sulla tua città.

Soprattutto, riesce a farti vedere le cose con maggior distacco: specialmente se all’ultima riunione societaria non ti hanno permesso di farti valere come avresti voluto.

E soprattutto se, dagli ultimi mesi ad ora, il tuo futuro in azienda è divenuto parecchio incerto.

Non era quindi riuscita a farne a meno: l’ultima volta che era stata nella sua enoteca preferita nel Monferrato aveva stilato un corposo ordine di ottimi vini. Il tempo di neanche una settimana che una cassa di faggio le era stata recapitata a casa.

Quanto lo amava, il vino.

Suo padre, da buon italiano, le aveva trasmesso l’amore per il prodotto di “una pianta benedetta”, come la definiva lui. Da questo a prendersi la patente di sommelier, così, per puro diletto, il passo era stato breve.

Il buon vino era una delle poche cose che riuscisse a renderle sopportabili le giornate più dure.

Cos’altro le era rimasto?

Dopo che seppellisci un marito quasi subito dopo la luna di miele per un fottuto incidente, decidi obtorto collo cosa vuoi essere, e cosa puoi (ancora…) sopportare, a questo mondo.

Sospirò a fondo, massaggiandosi le tempie, cercando di pensare ad altro e di lasciare spazio ad altri ricordi, magari meno difficili da rivivere nella sua mente.

Nebbiolo, ancora nebbiolo. Va giù come un velluto…

Era rimasta stupita che in quell’hotel di Berlino avessero potuto servirgliene un calice: non era un vino di matrice sovranazionale, come può essere il bordeaux, tanto per dirne uno. Eppure lo aveva gustato a fondo, in una serata che si era poi conclusa in un modo a dir poco inaspettato. Lei, a Berlino, c’era andata per l’ennesima riunione alla Casa Madre, per discutere delle prossime decisioni da prendere sulla filiale italiana.

E si era conclusa pure tardi, quella riunione.

Ma, a quanto pare, lei teneva da parte parecchie altre energie da bruciare.

Eppure… Eppure non riusciva ancora a capacitarsi di come fosse potuto accadere.

Erano trascorsi quasi sei mesi da quella sera. Se la vedeva scorrere davanti agli occhi, come una serie di fotogrammi, su cui poter fare il fermo immagine a suo piacimento.

Stupida.

Cosa ti è passato per il cervello?

Tu non le fai, “certe cose”.

Non le facevi neppure a vent’anni. E vent’anni non li hai più da un bel pezzo, pensa un po’.

Non osava pensare come quel ragazzo l’avesse poi giudicata.

Eugenia non si faceva illusioni: gli uomini ti giudicano, dopo.

E sanno essere implacabili…

Si alzò, girellando per casa in vestaglia, con ancora il calice in mano, per poi ritrovarsi davanti alla specchiera della sua toilette: unico elemento bianco in una camera di scuro mogano. Non aveva voglia di interrogarsi allo specchio, anche perché, come al solito, quello che poteva vedervi avrebbe potuto rassicurarla solo in superficie.

A volte le pareva che l’immagine riflessa, per l’ennesima volta, fosse solo una colossale presa in giro: il suo stesso conservarsi bene, benissimo anzi, nonostante non fosse più una ragazzina, poteva voler dire che il giorno del tracollo, seppur ancora lontano, sarebbe stato atroce.

E definitivo.

Il viso ancora polposo, fresco come un frutto da mordere, senza rughe o cedimenti.

L’espressione tutto sommato serena. Per il faccino doveva ringraziare la sua bellissima mamma coreana, un’ex cantante lirica che tanti anni addietro si era innamorata dell’Italia. E di un uomo.

Il corpo… beh, quello è l’ultimo a cedere, di solito.

La chioma nera, folta e lucida, lunga fino a metà schiena.

Che presa per il culo. Che immensa presa per il culo…

Rise fra sé e sé, finendo il suo nettare. Avrebbe dovuto avere il viso distrutto. Altro che la Marguerite Duras de “L’amante”, col viso a pezzi già da giovane…

Ogni giorno era un continuo, costante logorìo.

Il lavoro stava andando male: il rischio del suo licenziamento si stava concretizzando sempre più. Nonostante lavorasse quattordici ore al giorno, nonostante avesse ultimamente dedicato alla carriera ogni suo singolo respiro, gli ultimi bilanci societari non rispondevano ai suoi sforzi, alle interminabili conference call, alle indagini di mercato, agli sfiancanti report. Alle notti insonni, alle pec che lampeggiavano sul suo palmare ad ogni ora.

Passò l’intera notte così: in piedi davanti alla toilette, mezza nuda nella vestaglia aperta, senza decidersi a posare quel dannato calice, ormai vuoto.

°°°°°

Londra, in quel preciso momento…

«Direi che sia andata bene.»

Wakabayashi Shuzo emise un sospiro, togliendosi un filo dalla manica in pesante gessato grigio.

Genzo si limitò ad annuire, senza smettere di controllare il suo smartphone. Nelle ultime ore era stato letteralmente sequestrato dal padre, per un’assemblea societaria. Negli ultimi tempi si erano attuate delle acquisizioni importanti, con fusioni di società piccole e medie del terziario. L’impero Wakabayashi pareva non voler smettere di espandersi. L’ultima creatura era stata una Ethic Bank con sede a Londra, una quota dei cui profitti avrebbe sostenuto molte cause benefiche.

Lo sapeva pure lui, che sarebbe andata a finire così.

Erano lontani i tempi in cui poteva solo dedicarsi al calcio: nell’ultimo triennio le pressioni del padre e dello zio si erano fatte sempre più stringenti.

Va bene, va benissimo essere ancora l’SGGK: ma non poteva più esimersi dal partecipare per lo meno alle riunioni più importanti, essendo socio in diverse compagini societarie. Doveva nascere ed affermarsi pure l’uomo d’affari, da affiancare al campione.

Del resto, Genzo non era di certo uno stupido, o un illuso.

Sapeva benissimo che la carriera di uno sportivo ha una scadenza. I suoi stessi numerosi infortuni gli sbattevano in faccia la verità, tutte le volte: lui non era indistruttibile. Ed ogni volta le cure, la riabilitazione, la ripresa degli allenamenti, erano sempre più pesanti e lunghe da gestire.

«Ricordati che domani sera abbiamo una cena alla suite di Sir Lewis: ci sarà tua madre, ovviamente. Dobbiamo parlare dei prossimi eventi di beneficienza: alcuni ospedali ed istituti aspettano i proventi delle nostre iniziative. Ti aspettiamo alle venti, cerca di essere puntuale.» compitò Shuzo.

«Va bene.» replicò secco il giovane uomo, infilando lo smartphone nel taschino della giacca di taglio sartoriale. Credeva di aver finito, per quella sera. Ma il padre non pareva voler mollare la presa. L’uomo di mezza età, la perfetta replica più matura del portiere, si concesse il lusso di voltarsi a guardarlo, come per covarlo con malcelato affetto.

«Piuttosto, hai riflettuto su quello di cui ti ho parlato qualche giorno fa?»

Genzo aggrottò la fronte, incrociando le braccia sul petto. «Sì, certo.»

«Non hai nulla da dirmi?» lo incalzò Shuzo. Al minuto di silenzio oppostogli dal figlio, il padre sospirò. Si sentiva un po’ scoraggiato, di fronte all’atteggiamento di Genzo. «Non puoi continuare ad ignorare la questione.»

«Ah no? E perché?» replicò l’altro, con tono sardonico.

«Non è così che ti ho educato, figlio. Parlami con rispetto.»

«Scusa» sibilò questi, guardando fuori dal finestrino.

Le luci della città pareva volessero avvolgerli in una girandola di colori.

«Ricordati che hai delle precise responsabilità da onorare. Finora hai gestito la tua vita come meglio hai creduto: ti sei dedicato al calcio, alla tua squadra, alle tue eterne sfide. Ma adesso hai quasi trentun anni, sei un uomo. Giovane, ma un uomo. Non è più tempo solo di sport… lo capisci, vero?»

«Già… è tempo che l’erede al trono si trovi una degna consorte, per scodellare un piccolo successore.» bofonchiò Genzo, in tono sarcastico.

Furioso, Wakabayashi senior ordinò allo chauffeur di famiglia di fermarsi un momento.

Egon accostò l’auto non appena possibile, per arrestare la guida.

Shuzo scese dall’auto, invitando il figlio a fare altrettanto.

Dopo un breve tratto a piedi, il padre si voltò a studiare il figlio. Il suo recalcitrante figlio. Sospirò, di nuovo.

«So di sembrarti insopportabile. So che non ami sentire questi discorsi, e, soprattutto, me che te li faccio. Ma devi metterti in testa che l’età per saltare la cavallina è passata da un pezzo: io a trent’anni ero già ammogliato. Mi sono trovato la ragazza giusta e me la solo sposata subito. E se l’ho trovata è perché sono entrato nell’ordine di idee di riuscirci, e non di continuare a passare da una modella all’altra, da una sgallettata all’altra. Non credo che tu abbia bisogno di un omiai*, eh, Genzo?»

«Ci mancherebbe solo questo! Per favore, piantiamola con questo discorso!» Si innervosì ancora di più, se possibile, cercando nelle tasche della giacca un berretto inesistente. Maledizione!

«Non dimenticarti di una cosa: noi siamo dei privilegiati ma tutto questo ha un prezzo da pagare. Abbiamo degli azionisti da tranquillizzare con una famiglia, la nostra, che deve aprirsi ad una nuova generazione, per continuare con le attività… che danno lavoro e sicurezza a centinaia di altre famiglie. E per questo ti serve una benedetta moglie, non l’ennesima modella da portare a letto per una notte di bagordi. Hai capito, ora?»

«Sissignore.»

«Una brava e bella ragazza» continuò, quasi parlando tra sé e sé, unendo le mani dietro la schiena. «Non m’importa che sia ricca, ma che sia una persona perbene, intelligente, istruita e bene educata. Giapponese oppure occidentale: poco importa. Basta che non sia la solita arrampicatrice sociale fissata con la manicure e le borsette griffate: un’oca viziata risparmiacela, per cortesia. Ti prometto sin d’ora che la tratteremo come una figlia. Ma datti da fare.» Shuzo finse di non vedere la smorfia che si dipinse sul viso del figlio.

Dopo una pausa di silenzio, Genzo si degnò di riaprir bocca.

«A proposito… io per il momento non lascio Londra. Sto per firmare. Con l’Arsenal»

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Nota dell’autrice:
Omiai* (お見合い): è la pratica, tuttora in uso in Giappone, di combinare matrimoni, specie in famiglie altolocate, organizzando con un sensale una serie di appuntamenti con papabili fidanzati/e muniti di un certo… pedigree (ovvero, a seguito di un resoconto scritto con elencazione di estrazione sociale, peso/statura, curriculum studi/lavoro: il tutto ovviamente corredato da fotografie) [fonte:
clicca ]

Ed eccomi alla mia prima long (+ “mini” che “long”…) in questo fandom, dove in passato mi sono cimentata in due brevi racconti, dedicati ai personaggi che ammiro di più di Captain Tsubasa: Kojiro Hyuga e Genzo Wakabayashi.
Spero che vi piaccia e che mi farete conoscere le vostre impressioni.
Purtroppo non posso garantire un aggiornamento costante… farò del mio meglio per non farvi attendere troppo nelle pubblicazioni.

Grazie per l’attenzione ed auguri di serene Festività.
i.
  
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