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Autore: Ikki_the_crow    29/12/2023    0 recensioni
Il dottor Christopher Blackwood sembra essere quasi giunto al suo obbiettivo, la missione per cui si è condannato all'Inferno: riportare in vita la moglie e donarle una vita priva di malattie, dolore e morte. Ma qualcosa non va per il verso giusto...
[per saperne di più sul buon dottore e la sua vita passata e presente: https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=4012890&i=1]
Genere: Fantasy, Horror, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La rabbia del dottore
 
“Signori. Nel mio laboratorio, per favore.”
A quelle parole, sia Dora che Thrip sollevarono lo sguardo, la prima dalla pentola in cui borbottava una massa di stufato dall’aria insipida, il secondo dalla carne di cervo che stava sfilettando con un coltello grosso come una mannaia.
Niente insulti, sarcasmo quasi assente, perfino un «per favore» alla fine.
C’era in ballo qualcosa di grosso.
Con un sospiro, Dora appoggiò il mestolo a lato della stufa.
“Rush. Dai, andiamo,” chiamò.
Suo fratello, appeso a testa in giù ad una delle travi di sostegno della torre, le rivolse uno sguardo deluso.
“Non può aspettare? Mi mancano solo cinque flessioni per… Qual è il numero dopo il cento?”
“Duecento?” propose Fandalg. Il vecchio mago era seduto al tavolo della sala comune, con tre carte in mano e un’espressione concentrata. Con l’altra mano giocherellava con un paio di ghiande. Dall’altra parte del tavolo, uno scoiattolo con indosso minuscoli abiti da ranger batteva con aria impaziente la zampa sul legno. Aveva di fronte due carte coperte, una scoperta – un cinque di bastoni – e una grossa pigna di noci e ghiande al fianco.
“Andiamo, vecchio. Gioca!” intimò Ghipple con voce petulante.
“Un momento, Frittle. Il nostro compagno ha bisogno di noi.” Il mago fece per infilarsi le carte nella manica, ma lo scoiattolo lo bloccò.
“Col cazzo, così poi bari. Finisci la mano, vecchio!”
“Il più grande mago del mondo non bara mai.” La voce di Fandalg suonò piccata. “Al massimo bilancia la casualità.”
“Certo, come no.” Lo scoiattolo afferrò una noce e saltò giù dal tavolo. “Poi fatemi sapere cosa voleva quello squinternato. Anzi no, non mi interessa.”
Nel frattempo, Dora era riuscita a far scendere il suo gemello dal soffitto con l’aiuto di un manico di scopa. Thrip si sfilò il grembiule da cucina ricamato a girasoli, si asciugò le dita tozze e sporche di sangue usando uno strofinaccio e inforcò un paio di occhiali dalla montatura di corno. Non che ne avesse bisogno: pensava però che gli dessero un’aria distinta.
Nel giro di qualche secondo, l’intero gruppetto si spostò nel laboratorio di Christopher Blackwood. Il dottore aveva persino ruotato verso il muro il teschio di opossum che normalmente faceva la guardia all’ingresso, in modo tale che il suo grido non spaccasse i timpani a tutti quanti. Doveva davvero tenerci a quell’incontro, pensò Dora.
Il laboratorio era, come sempre, un incubo. Non perché fosse disordinato, tutt’altro. Ma le giare con dentro frammenti di esseri viventi in formalina, i tomi dall’aria lugubre, i blocchi di appunti pieni di illustrazioni anatomiche, non diventavano di certo meno lugubri quando li si disponeva in un ordine maniacale. Al massimo l’opposto.
Quella mattina, Christopher Blackwood sembrava reduce da una notte insonne e travagliata. In condizioni normali era inquietante, con il colorito pallido e le cicatrici che gli ricoprivano ogni centimetro di pelle visibile, ma con le borse sotto gli occhi e lo sguardo iniettato di sangue sembrava un autentico pazzo assassino. E, a sentir lui, un tempo lo era stato sul serio.
“Allora, Christopher. Che succede?” Dora cercò di non far trapelare l’irritazione nella voce. Se quello era l’ennesimo esperimento «moralmente ambiguo» del dottore, giurava sul sacro bastone di Lathander che – no, così suonava male…
Christopher parve non badarci. Aveva l’aria eccitata ed emozionata, un fatto più unico che raro per lui: gli occhi gli brillavano dietro gli occhiali dalle lenti crepate, e c’era perfino un’ombra di rossore sulle sue guance smagrite.
A proposito di ombre: vicino al soffitto, Lady Atasha fluttuava come una sagoma di stoffa nera quasi trasparente, il viso rivolto verso il basso. E non era l’unico non-morto presente. In un angolo, appoggiato contro il muro, l’assassino un tempo al soldo del culto di Asmodeus noto ormai solo come “Lucky” giocherellava con un coltello con aria assente. Accanto a lui, sul suo trespolo, il corvo Wolfgang si arruffava le penne, nervoso quanto il suo padrone.
“Ah, signorina Honeycomb. Benvenuti, benvenuti.” Christopher gesticolò intorno a sé. “Mettetevi pure comodi.”
Per una volta non indossava il suo solito mantello nero: era in maniche di camicia e pantaloni di cuoio, senza neppure i guanti a coprirgli le mani sfregiate e rovinate. Il farfallino rosso che portava al collo era leggermente storto, e lui se lo sistemò distrattamente.
“Vi ho fatto venire per mostrarvi una cosa. Finalmente, dopo tanti esperimenti, credo di essercela fatta.”
“Intendi dire…” Dora lasciò la frase in sospeso. Qualcosa le diceva che non le sarebbe piaciuto quel che stava per succedere.
Il dottore la ignorò. “O meglio. Non è ancora perfetto, ovviamente. Ma è un passo in avanti a dir poco incredibile. Vedrete.”
Si sgranchì le mani e iniziò a salmodiare qualcosa a mezza bocca. Sia Dora che Fandalg riconobbero immediatamente un incantesimo di Evocazione, ma era una formula che non avevano mai sentito in bocca al dottore. Parve durare per un’eternità; alla fine, dopo quelli che in realtà non furono che pochi secondi, il pavimento di pietra iniziò a creparsi e una bara di legno istoriato si sollevò lentamente, fino ad ergersi in piedi in mezzo al laboratorio. Tutti i presenti fecero istintivamente un passo indietro. Tutti tranne Christopher.
“Alcuni di voi l’hanno già conosciuta. Più o meno. All’epoca i miei poteri erano molto più ridotti. Ma vorrei comunque rifare le presentazioni per bene. Signori, signorina.” Una pausa. “Fandalg. Vorrei presentarvi mia moglie, Elisa Maria Röckel-Blackwood.”
La bara si aprì in un silenzio attonito. Al suo interno, adagiata su un tappeto di velluto violetto con le braccia incrociate di fronte al petto, c’era una donna. Chiunque avesse anche solo intravisto il pendente rovinato che Christopher si portava sempre appresso l’avrebbe riconosciuta all’istante. Aveva i capelli biondi lunghi fino alle spalle, leggermente mossi; la pelle pallida e sottile, quasi diafana, come se la proprietaria non avesse passato molto tempo al sole. Era vestita con un abito elegante, ma da contadina: gonna lunga a balze, camicetta bianca con le maniche lunghe, un grembiule ornato di pizzo sul davanti. Aveva un paio di orecchini con pendente, probabilmente delle perle, e un grosso cameo legato al collo in mezzo al quale faceva bella mostra di sé un’opale. Ai piedi indossava un paio di scarponcini pesanti, da lavoro. Quando il dottore pronunciò il suo nome, la figura parve avere un brivido e aprì piano gli occhi: erano azzurri, ma con una sfumatura rossastra proprio sul fondo.
“Mia cara.” La voce di Christopher era velata dall’emozione. Nessuno dei presenti l’aveva mai sentito usare quel tono. Deferente. Adorante. Innamorato.
Tese una mano, e l’altra la afferrò delicatamente per aiutarsi ad uscire dalla bara. Le labbra di lei si stirarono in un sorriso leggero.
“Amore mio. Bentornata.” Christopher si avvicinò di un passo, con l’intento di abbracciarla. “Perdonami se ci ho messo tanto. Questa è ancora una misura provvisoria, questo corpo non dura più di qualche minuto, ma si tratta solo di trovare una soluzione più stabile per –”
Si interruppe. Ormai era ad un soffio dal viso di Elisa. In un attimo, la sua espressione cambiò, passando dall’amore alla furia.
“Tu non sei lei,” ringhiò. “Indossi il suo viso, ma non sei lei.”
La donna batté le palpebre con aria confusa. Aprì la bocca, come per dire qualcosa, e in quel momento Dora notò le zanne affilate che facevano capolino oltre le labbra sottili. Fece per intervenire, ma non fu necessario.
“Sparisci,” intimò il dottore. Un gesto, e il corpo di Elisa si disfece in un mucchio di cenere che piombò al suolo con un fruscio. Christopher rimase in piedi in mezzo al laboratorio. Tremava leggermente.
"Chris…" tentò Dora, mentre Thrip faceva un passo incerto in avanti, come per volerlo consolare.
“Fuori di qui.”
“Christopher ascolta –”
“Ho detto FUORI DI QUI.”
Intorno al dottore esplose un muro di ombre, un’ondata di inchiostro dentro alla quale si agitavano sagome indistinte. Rush fece d’istinto un salto indietro: quando la magia l’aveva sfiorato, aveva sentito un gelo indicibile tentare di entrargli nella carne, come se volesse divorarlo dall’interno. Fandalg invece fece un passo in avanti, ma Dora lo trattenne.
Il dottor Blackwood non si attardò a controllare se i suoi compagni fossero effettivamente usciti dal laboratorio. In quel momento, non gli importava.
Con un grido a metà tra un ringhio e un gemito, spazzò un braccio sopra la scrivania. Libri, fogli di appunti, penne e calamai caddero al suolo in un concerto di tonfi. Non bastava.
Ci fu un rumore di vetri infranti e di liquido che pioveva a terra. Poi il suono di un oggetto pesante che lo raggiungeva. Poi ancora il fragore di una libreria che veniva ribaltata. Fuori dalla porta, Thrip lanciò uno sguardo agli altri membri del gruppo.
“Forse dovremmo…?” esitò.
Dora scosse la testa “In questo momento, non potremmo fare nulla. Fallo sfogare.”
“Posso spaccare qualcosa anche io? Per fargli compagnia, dico?”
“Rush. Taci.”
I rumori andarono avanti per parecchio tempo. Quando il dottor Blackwood tornò finalmente in sé, ansimante e con lo sguardo offuscato dalle lacrime, nello studio sembrava fosse passato un tornado. Non c’era praticamente più nulla di intatto: quasi tutto era stato gettato per terra, i contenitori di vetro si erano spaccati e l’alcool aveva iniziato a cancellare l’inchiostro dei libri più sfortunati. Rivoletti neri filtravano dalle pagine tra le pietre.
Inutile. Tutto inutile. Non sono più vicino alla soluzione di quanto non lo fossi un anno fa. Oh Elisa…
E poi un’idea si accese nella mente di Christopher. Una speranza, per quanto flebile.
Come muovendosi in un sogno, il dottore si avvicinò alla porta di quello che pareva essere un ripostiglio e la spalancò. All’interno, tra i campioni di tessuto di un corvo mannaro e un libro intrappolato in un vaso sigillato all’interno di una giara piena di alcool, c’era una maschera di cuoio nero dalla forma allungata, simile ad un becco.
La mano di Christopher esitò solo per un attimo prima di afferrarla.
Basta giochetti. Ora mi dirai tutto ciò che voglio sapere
   
 
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