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Autore: Orso Scrive    30/12/2023    1 recensioni
È un anno intero, che io e lei, noi due, viviamo con addosso questa paura per l’ignoto. Un anno intero che il suo e il mio sorriso, i nostri sorrisi, sono scomparsi nel buio di un’oscurità che non sembra avere nulla di quel dolce e avvolgente tepore rassicurante che ha di solito il buio.
Ripubblico questa storia, a cui tengo molto, in una versione lievemente rivista. Scritta nel 2021.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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IL FATTO DI DIOT

 

 

Che fumasse lo sapevo.

Era stata la prima cosa che avevo notato di lei, l’odore di fumo. Anzi, a dire il vero, la seconda.

Al primo incontro, del tutto casuale, ciò che mi aveva colpito di lei erano stati i suoi capelli rosso scuro. Ho sempre avuto un debole, per i capelli rossi. E i suoi erano una meraviglia della natura anche solo a vederli da lontano.

Una figura avvistata in un corridoio anonimo all’università, una delle tante. Uno sguardo, un mezzo sorriso, un apprezzamento mentale, e addio, come al solito. Solo che lei mi aveva gettato un saluto quasi casuale che mi aveva fatto fermare. Di camminare e andare via non se ne era più parlato e nemmeno pensato. Il pavimento, per sedere accanto a lei, era diventato il solo obiettivo; e quando si era chinata in avanti per domandarmi qualcosa, avevo percepito l’odore della sigaretta.

Un odore acre, pungente, forte.

Un odore che, nei giorni e nelle settimane successive, in quegli ultimi frenetici mesi di università – mentre ci illudevamo di poter preparare una tesi che né io né lei avremmo mai dato – avrei imparato a conoscere e ad amare sempre di più, specialmente quando vagabondavamo in giro alla ricerca di un passante munito di accendino.

E quindi non posso certo lamentarmi se ancora oggi, cinque anni (più o meno) dopo quel primo incontro, lei continui a fumare come una ciminiera. Volente o nolente, mi è toccato diventare tabagista. Obtorto collo, ma pur sempre tabagista. Tanto di qualcosa bisogna pur morire, alla fine, no? Allora, tanto vale farlo contenti, ognuno con i propri vizi. Lei ha le sue sigarette e io ho il mio caffè.

Stasera, però, mi pare che stia esagerando. Capisco il bisogno costante di tabacco – e lei ne ha davvero bisogno – però così mi pare persino troppo. Abbasso lo sguardo a quello che un tempo era il piattino di una tazza ormai rotta da tempo e che lei ha riconvertito nel suo posacenere. Provo a contare i mozziconi che emergono dalla cenere, ma dopo un po’ perdo il conto e lascio perdere. Comunque mi paiono troppe persino per lei, tutte queste sigarette.

Apro la bocca, come se volessi dire qualcosa.

La richiudo.

Ci penso un attimo.

Ma sì; credo di poter parlare.

«Qualcosa non va?», butto lì.

Mi fissa da sopra la sigaretta. Avvicina la mano a quel maledetto tubicino come se volesse togliersela dalle labbra. Vedo che le dita dalle unghie mezze mangiate, su cui spiccano gli ultimi rimasugli di uno smalto vecchio di mesi, tremano. Tremano forte. Ritrae la mano e continua a fumare.

Non mi risponde.

Lascio passare ancora qualche istante, per vedere se magari non sia una pausa di riflessione. Non dice nulla.

Capisco che è il momento di essere insistente.

«Diot?» la chiamo. «Va tutto bene?»

Sentire pronunciare il nomignolo che con lei uso solo io sembra rianimarla. Ma non nel modo che speravo.

Si alza dalla sedia su cui è rimasta seduta finora – immobile peggio di un baccalà rinsecchito – e si avvicina a passo rigido alla finestra. Sul suo cammino si lascia dietro una scia di fumo. La guardo mentre guarda fuori. Io guardo lei, lei non so che accidenti guardi. Fuori è buio e con la luce accesa nella stanza non si riesce a vedere niente a pochi centimetri. Il nostro giardino è poco più che una fantasia, in questo momento.

Osservo la sua schiena leggermente inarcata, le sue gambe lunghe, i capelli che, come sempre, sfuggono dalla coda in cui li ha raccolti e se ne vanno a spasso per i fatti loro. Quanto adoro quei capelli. Quel rame in cui, da qualche tempo, ha cominciato a fare la prima apparizione qualche fil di ferro.

Il fumo che continua a uscire dalla sigaretta l’avvolge completamente, come un fantasma dalle lunghe dita che tenti di penetrare nel nostro mondo da quella dimensione in cui è racchiuso. A volte lo fanno, i fantasmi.

Escono, voglio dire.

E se hai fortuna li vedi.

Per un istante soltanto, ma li vedi. Una volta ne ho visto uno, quando strimpellavo il basso nello scalcinato gruppetto che avevo con qualche amico e qualche amica. Roba dei tempi dell’adolescenza, quando portavo la maglietta rossa con il viso del Che Guevara come se bastasse tanto poco a cambiare il mondo.

Non mi pare il caso di mettersi a parlare di quel bell’uomo che era il Che, e nemmeno di fantasmi, adesso. Anche perché vedo il volto di Diot riflesso nel vetro e sembra proprio che ne abbia appena visto uno. Però temo che ci sia sotto qualcosa di peggio, di un fantasma. E, sapendo ciò che è accaduto, so che avere paura è quasi un obbligo inevitabile.

È un anno intero, che io e lei, noi due, viviamo con addosso questa paura per l’ignoto. Un anno intero che il suo e il mio sorriso, i nostri sorrisi, sono scomparsi nel buio di un’oscurità che non sembra avere nulla di quel dolce e avvolgente tepore rassicurante che ha di solito il buio.

Mi alzo dal divano in cui ho agonizzato inerte fino a questo momento – con l’idea iniziale e subito rigettata di provare a scrivere qualche nuova parola a margine di quel dannato romanzo che mi trascino dietro da ormai un anno intero – e mi avvicino a lei.

Stavolta non dico niente.

Agisco.

La mia mano scivola in avanti e le ruba dalla bocca la sigaretta. La vedo inarcare un sopracciglio e allungare il braccio per provare a riprendersela. La precedo. La infilo tra le labbra e, a rischio di soffocarmi, la finisco in un lunghissimo tiro che per poco non mi uccide. Spando cenere dappertutto. Non ho la maestria di Diot, che è capace di non far cadere nemmeno un cenno di polvere.

«Che cazzo fai!», grida.

Almeno ho la tua attenzione, tesoro. Glielo dico.

«Tu non fumi!», replica, come se non avessi detto nulla.

Riguardo a questo, potrei obiettare molte cose, mi scopro a pensare, mentre guardo la stanza che sembra perennemente avvolta nella nebbia manco vivessimo in una fumeria d’oppio.

Invece dico: «Mi spieghi che accidenti ti succede, stasera? Ti sei fatta fuori la scorta di tutta la settimana, ti rendi conto? Non voglio che tu faccia così. Ti fa male, e quello che fa male a te fa male a me.»

I suoi occhi arrossati mi guardano sconvolti. Le sue labbra, sempre screpolate e riarse, si distendono in una specie di smorfia di comprensione. Si passa la mano tra i capelli disordinati, spettinandoli ancora di più. Muove un passo, mi guarda, ne muove un altro.

«La scorta…?» ripete soltanto.

Temo che non sia una farsa. Davvero stasera ha contribuito ad allargare di almeno mezzo centimetro il buco nell’ozono senza nemmeno rendersene conto. La cosa mi spaventa, lo ammetto.

Resto immobile mentre la osservo andare verso il divano. Si lascia cadere nel punto che mi accoglieva fino a qualche istante fa. Prende in mano il mio PC portatile e osserva lo schermo con aria spenta.

Normalmente, non glielo avrei lasciato fare. Non faccio mai leggere a nessuno i miei lavori in corso d’opera. È una mia vecchia superstizione: ho sempre paura che mi dicano che fa schifo e che è tutto da rifare. Meglio saperlo a cose fatte. O non saperlo affatto.

Stavolta però me ne frego. Chi se ne fotte, di quel romanzo, che il diavolo se lo porti pure. A me interessa Diot. Perché è nervosa. Molto più nervosa di quanto non sia stata ogni giorno dall’anno scorso. Nervosa in un modo che non mi piace. Non mi piace per niente, merda.

Faccio per chiamarla, ma mi trattengo.

La vedo alzare lo sguardo, del tutto disinteressata alla resa dei conti all’O.K. Corral che stavo cercando di riprodurre in chiave moderna. A Diot, del Far West e di tutti i suoi pistoleri vendicativi, non è mai fregato un accidente. In questo momento, non ne importa nulla nemmeno a me.

Gli occhi grigi di Diot, con la sclera – o quello che è, insomma – solcata da capillari arrossati, si fissano nei miei. Uno sguardo inquietante. Mi mette angoscia.

Anzi, mi fa paura.

«È lui», dice.

La sua voce è impercettibile. Appena un flebile sussurro. Eppure intendo quello che dice. Lo capisco fin troppo bene, mentre un brivido freddo mi attraversa per intero l’organismo.

«È lui», ripete. «È uscito. Oggi.»

 

 

Quando ho conosciuto Diot, era una donna diversa da com’è oggi.

Era sempre allegra e non disdegnava di partecipare a feste e altre eventi mondani. Cose che io, al contrario di lei, odiavo sopra ogni cosa. Stare troppo in mezzo agli altri non mi è mai andato a genio. Spesso, per costringermi a seguirla in quelle faccende che per me erano torture disumane, ricorreva alle minacce più disparate.

«Guarda che ti metto una cintura di castità e butto via la chiave», minacciò un giorno, trattenendo a stento il riso.

«Perché non la metti tu?», domandai, in preda a una sincera curiosità.

«Perché io, al contrario di te, so come fare a divertirmi e voglio continuare a farlo», fu la sua risposta.

Fumava tanto già allora, ma lo faceva più per divertimento che per celare qualche dolore interiore. Sì, aveva anche lei i suoi alti e bassi – come tutti ne abbiamo – ma ogni cosa era nella norma.

E fu così per i quattro, spensierati anni che trascorremmo insieme. Due artisti – o presunti tali – che si accontentavano di quello che avevano: io scrivendo i miei romanzetti, lei dipingendo le sue tele piene di colore. A mettere insieme quello che guadagnavamo con tale attività, arrivavamo giusto giusto a fine mese, e non ci avanzava mai nemmeno un soldino. E saremmo andati avanti ancora a lungo, così. Forse per tutta la vita. In fondo, per quanto sfuggente sia la felicità, potevamo dirci felici.

Io, lei, noi, e ciò che ci piaceva.

Ma poi un anno fa le cose sono cambiate. Sono cambiate per Diot e sono cambiate anche per me. Non mi è più riuscito di scrivere mezza parola, anche se ci ho provato; lei, i suoi pennelli, non li ha più nemmeno sfiorati.

Era settembre. C’era una festa, per il compleanno di un tizio che non conoscevo. Un ammiratore di Diot, che aveva visto alcuni dei suoi quadri e sembrava averli apprezzati. Pareva intenzionato a comprarne un buon numero. Forse, quella volta, i nostri problemi economici sarebbero stati risolti. Magari non definitivamente, ma almeno per un poco sì.

Quando Diot mi aveva parlato della festa, la mia risposta era stata categorica, assoluta, inconfutabile.

La stessa di sempre.

«No!»

«La solita bestia ferita, triste e solitaria che non cambia nemmeno davanti alla prospettiva di fare un sacco di soldi», aveva commentato, fissandomi con quella sua smorfietta accigliata.

Quanto amavo quella bella smorfietta. A volte la facevo arrabbiare di proposito per potergliela vedere sul viso. Era irresistibile, quando la faceva, e anche quella volta mi precipitai a baciarla. Non potevo resistere. Le nostre labbra che si incontravano erano sempre un sogno. Non avrei mai immaginato che, quella, sarebbe stata l’ultima volta in cui avrei visto quel suo bel faccino sorridente come ancora lo ricordo.

«Dai, Diot, almeno questa volta esentami da quelle torture», la pregai. «Lo sai che muoio, a feste del genere. E poi ho lasciato a metà la scena in cui i fratelli Clanton vedono passare Doc Holliday e lo mandano a fare in…»

«E va bene», mi interruppe, lanciandomi uno dei suoi famosi sguardi profondi e di una bellezza che non so esprimere. «Ti lascio ai tuoi cow-boy. Ma ti avviso subito che quella cosa umida e coperta di pelo rosso che ho tra le gambe te la puoi scordare almeno fino a Capodanno.»

Poi mi fece una linguaccia e mi piantò lì.

 

 

Ora… io non c’ero.

Maledico mille volte quella decisione.

Perché forse… se avessi acconsentito ad andare a quella festa del cazzo…

Ma non c’ero. C’era Diot, in mezzo a tutta quella gente.

Gente coi soldi, sapete. Di quelli che si credono i padroni del mondo, di tutto e di tutti. Quella gente che, siccome si riempie il naso di polverina bianca, si crede di poter fare e avere tutto.

Quello… il tizio che voleva comprare i quadri… attirò Diot in una stanza vuota. Usò una scusa, da come venne ricostruita in seguito la faccenda: le disse che voleva mostrarle alcune opere d’arte che aveva collezionato.

Invece l’unica cosa che le mostrò fu quell’affare disgustoso che aveva dentro i pantaloni. Diot cercò di resistere, dapprima con le buone: gli disse che non poteva, che era già impegnata con me. Ma lui insisteva, e allora lei passò a dire che non voleva, che le faceva schifo… quando le si scagliò addosso, lo colpì con uno schiaffo per allontanarlo da sé. Quello divenne una belva, una specie di piovra schifosa, ma Diot, anche se fumava tanto, aveva parecchio fiato in gola, e urlò…

Per fortuna, a quella festa non c’era solo gente di merda.

Uno degli addetti alla ristorazione, che si era preso una pausa proprio in quel momento, sentì le urla. Accorse subito e fece irruzione nella stanza, in tempo per vedere Diot che urlava e scalciava mentre quell’essere disgustoso, con i pantaloni calati e quell’affare molle e inerte che penzolava in mezzo alle cosce, cercava di strapparle di dosso la biancheria intima.

Il cameriere non si fece troppe domande. Era uno di quelli che, davanti alla violenza e ai crimini, non fanno finta di niente. Afferrò uno sgabello – o forse era una delle opere d’arte, non ho mai capito di preciso – e lo scaraventò sulla testa di quella belva inumana. Lo tramortì e, intanto, attirati dalle urla di Diot che continuava a piangere e a gridare, giunsero anche altri camerieri, oltre agli invitati.

Arrivò una pattuglia. Il tizio fu arrestato. Il giudice, naturalmente, come sempre in questi casi, riconobbe le solite attenuanti: la violenza non era stata perpetrata; non era padrone di se stesso, in quanto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti; aveva subito un violento trauma cranico a causa della percossa ricevuta; la donna lo aveva provocato indossando un abbigliamento inadeguato. Le solite abominevoli cazzate che si sentono in casi del genere e che ti fanno vergognare dei tuoi simili. Venne condannato a un anno di lavori socialmente utili in una comunità.

Il cameriere fu licenziato in tronco, con il pretesto che, durante l’orario di lavoro, si era appartato in un angolo per fumare un sigaro.

E Diot.

Be’, Diot non è più stata quella di prima.

A poco a poco, con il trascorrere dei mesi, è sembrata riprendersi. Ma solo in apparenza. Un’ombra è discesa su di lei. E quell’ombra, non solo non si è affatto dissipata, ma ha avvolto anche me. Perché lei è in me e io sono in lei, e se lei soffre io soffro, se lei sta male io sto male.

Ci abbiamo provato, a dimenticare. A lasciare ogni cosa dietro le spalle, per scordare quell’innaturale violazione del suo corpo e della sua anima, e il mio infinito senso di colpa per la mia lontananza quando, più che mai, avrebbe avuto bisogno di me.

L’ho lasciata sola.

Me lo ripeto ogni secondo da quel giorno dannato.

Abbiamo tentato con una vacanza, una settimana al mare, un’altra in montagna. Non è servito a molto.

Anzi, non è servito a nulla.

Come non è servito tentare di parlarne, perché i suoi sono diventati silenzi profondi e carichi di attesa per qualcosa di incomprensibile. Silenzi che io non ho potuto infrangere, incapace di affrontare questa devastante realtà insieme a lei.

Le nostre serate sono diventate tutte uguali. Serate silenziose, tese, come se ci avesse avvolto un sudario di morte.

Io sul divano, a fingere di scrivere, lei sullo sgabello a guardarmi e a fumare.

Fino a questa sera, quando il numero di sigarette fumate è aumentato in modo esponenziale, al punto di spaventarmi.

Fino a quelle poche parole, che Diot ha a malapena sussurrato.

«È lui. È uscito. Oggi.»

 

 

 

Siamo in macchina, adesso.

Io al volante, Diot seduta al mio fianco, di nuovo la sigaretta in bocca.

Sul cruscotto ingombro di cartacce, un lungo coltello da cucina, di quelli per tagliare la carne quando si prepara l’arrosto. La lama affilata brilla sinistramente ogni volta che passiamo sotto un lampione.

C’è un silenzio insolito, tra di noi. Un silenzio diverso da quelli che ci accompagnano da un anno, che osserviamo nella nostra casetta. Un silenzio che abbiamo quasi terrore di infrangere. Il nostro timore è quello che una sola parola potrebbe far crollare la nostra intesa silenziosa.

La nostra decisione.

Abbiamo paura, forse io più di lei, ma vogliamo andare fino in fondo. Non possiamo più vivere con questo incubo addosso, con questa costante persecuzione. È il momento che questa faccenda si chiuda, dopo un anno intero di vita che non è più stata vita.

Il mondo non è un luogo facile. È selvaggio, violento, vige la legge del sangue. Non è cambiato nulla dall’epoca della frontiera.

Io e Diot da una parte.

Quel mostro disgustoso dall’altra parte.

La nostra sfida all’O.K. Corral.

Lui, oppure noi.

Non c’è possibilità di scegliere.

Siamo qui, io e lei. Pronti a uccidere o a farci uccidere.

Vivere o morire. Qui si decide tutto.

Spezzare una vita per riprenderci la nostra, oppure perderla per sempre.

 

 

È buio, tutto attorno. L’unica luce è il punto rosso incandescente della brace della sigaretta di Diot. Anche se i miei polmoni stanno ancora protestando per quell’unico e lungo tiro che ho dato prima, vorrei chiederle di darmela e di farmi aspirare ancora un po’ di fumo. Non glielo domando. Pazienza. Mi accontento di inalare quello che butta fuori lei dal naso e dalla bocca.

I fari di un’automobile che si avvicina ci distraggono dai nostri pensieri. Un SUV nero entra nel parcheggio e si ferma accanto a un palo della luce. La portiera si apre e ne discende una figura.

Sento che Diot trattiene il fiato. Poi comincia ad ansimare. Le afferro la mano e la stringo. Allungo l’altra mano per prendere il coltello, ma lei mi precede.

«Devo essere io…», sussurra.

Nego con un cenno.

«Insieme», dico.

Guardiamo quell’essere disgustoso che si ferma alla luce del lampione. Un anno di lavori socialmente utili non lo ha affatto mutato. Dubitiamo persino che abbia mosso un solo dito, in questi dodici mesi. Ogni residuo di dubbio viene dissolto quando lo vediamo prendere una scatolina dalla tasca, tirarne fuori un pizzico di roba bianca e avvicinarlo al naso.

Quell’essere disgustoso ha trascorso un anno di bagordi, mentre io e Diot ci consumavamo e annichilivamo nel dolore di queste nostre due anime violate da una violenza inconcepibile e senza senso.

La sento gemere. Mi volto a fissarla. Nell’oscurità della notte, vedo lacrime silenziose scorrerle sulle guance.

Non posso resistere oltre.

È tempo di finirla.

Afferro la maniglia della portiera, faccio per aprirla… e un movimento improvviso mi blocca.

Da dietro un’automobile sbuca un’altra figura umana. Un uomo un po’ gobbo, con il volto coperto di barba malfatta. Sembra un disperato, qualcuno che non ha più nulla da perdere.

I nostri sguardi impietriti lo fissano mentre si avventa contro il mostro. Lo raggiunge alle spalle e quello, ancora concentrato sulla sua schifosa droga, non se ne accorge nemmeno. Non si accorge neppure della prima coltellata che lo raggiunge tra le scapole. Ma l’uomo continua a infierire e il mostro crolla, spandendo sangue su tutto l’asfalto del piazzale.

L’assassino si china per colpire ancora e una lama di luce mette in risalto i suoi lineamenti. Lo riconosco, e lo riconosce Diot.

È il cameriere che la salvò dallo stupro e che a causa del suo gesto umano venne licenziato dal suo posto di lavoro.

Anche lui è stato una vittima di questa faccenda. Anche lui ha covato rabbia, rancore e sofferenza per un anno intero. Anche lui cercava vendetta.

Solo che lui è arrivato prima di noi.

Lo fissiamo mentre si rialza.

Un uomo sfinito e devastato. E sul suo viso riconosciamo quella stessa distruzione interiore che avrebbe potuto cogliere noi, in questo preciso momento, se avessimo ucciso il mostro al suo posto.

 

Perché violenza chiama violenza, sangue chiama sangue.

 
   
 
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