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Autore: Valerie    07/01/2024    2 recensioni
E se a raccontarci gli Hunger Games fosse Peeta?
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Vedo Effie Trinket volteggiare la mano all’interno del contenitore di vetro un paio di volte prima di fermarsi su una strisciolina di carta pieghettata. La tira fuori ed esclama un nome.
Mi sento paralizzato. Non riesco a respirare. Vorrei girarmi a guardarla, ma non mi riesce.
La sento solo urlare il nome di sua sorella e poi uno strozzato ma alto -Mi offro volontaria! Mi offro volontaria come tributo!- e in un attimo, vorrei che il mondo finisse ora.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1
 
Apro gli occhi improvvisamente. Mi guardo intorno. È tutto immerso nel buio.
Deve essere ancora presto, immagino.
Mi metto a sedere sul letto. Meglio alzarsi, prima che le urla di mia madre riecheggino per tutta la casa intimandomi di muovermi e di scendere al negozio. Mi tolgo il pigiama e mi infilo i panni da lavoro. Oggi non c’è scuola per via della mietitura, ma occuparsi degli impasti per il pane e dello stoccaggio dei sacchi di farina che sono arrivati ieri tocca comunque a me.
Cerco di fare più silenzio possibile mentre infilo e allaccio le scarpe. Luke e Michael dormono beatamente nei loro letti, liberi da ogni preoccupazione. La paura di essere sorteggiati agli Hunger Games non li tocca più. Un po’ mi sento sollevato, per questo. La sorte non può più essere a loro sfavore. Ma, allo stesso tempo, mi sento animato da una pesante invidia. Se riesco ad evitare il sorteggio della mietitura di oggi, dovrò sopravvivere comunque ad altri due.
Vorrei potermi sentire sollevato al pensiero di arrivare vivo e vegeto ai diciannove anni ma, mentre scendo le scale e apro la porta della panetteria, mi rendo conto che non è pienamente così. La mia salvezza determinerebbe la morte di qualcun altro.
Chiudo gli occhi e cerco di scacciare quel pensiero che tanto non risolve alcun problema e mi dirigo al bancone. Forme di pane sono coperte da umidi ritagli di stoffa, pronte ad essere infornate.
Prendo delle piccole fascine di rami secchi, le posiziono sul fondo del forno e do loro fuoco.
-Peeta- la voce di mio padre giunge da dietro le mie spalle. Non l’ho sentito arrivare.
Lo saluto con un cenno del capo e gli sorrido appena.
-Ci avrei pensato io- dice indicando il lavoro a cui mi sto dedicando -Avresti potuto approfittare della mancanza della scuola per riposare ancora un po’-
Sappiamo entrambi che non è così, ma apprezzo il suo sforzo di mostrarsi paterno e affettuoso, in particolare in questo giorno. Tenta sempre di esserlo quando mia madre non è nei paraggi.
Ma scuola o non scuola, mietitura o no, il figlio del fornaio deve sempre prima sbrigare le sue faccende, poi, può anche andare a morire. La cosa è irrilevante.
-Non riuscivo a dormire- rispondo semplicemente -Tanto valeva alzarsi e fare qualcosa per ingannare il tempo-
Lui annuisce gravemente.
Non è un uomo cattivo, mio padre. Penso solo che la sua più grande pecca sia quella di non avere un carattere molto forte. Totalmente succube della burbera ed impetuosa risolutezza di mia madre, lui viene interamente eclissato dalla sua dispotica personalità.
Mi da una pacca sulla spalla indugiando un secondo di più con lo sguardo sul mio viso poi si allontana, avvicinandosi agli impasti da cuocere.
Nel giro di poco tempo, mentre io sistemo qualche sacco di farina nella dispensa, tutto intorno inizia a sollevarsi un intenso profumo di pane caldo: adoro questo odore, per me sa inevitabilmente di casa.
D’un tratto il tintinnio del campanello della porta d’ingresso attira la mia attenzione. Un ragazzo entra di soppiatto, portando a tracolla una piccola sacca di iuta.
Trattengo a malapena uno sbuffo infastidito.
- Gale, ragazzo mio- esclama mio padre -A caccia anche oggi?- aggiunge chiedendo con voce più cauta.
Lui si guarda circospetto in giro, probabilmente intimorito dall’idea che mia madre possa trovarsi nei paraggi e che possa influenzare la trattativa che sta per ingaggiare con il mio vecchio.
-Si deve pur mangiare, anche oggi, no?- fa lui di rimando, tirando frettolosamente fuori uno scoiattolo di modeste dimensioni dalla sacca.
Osservo l’animale, curioso di capire cosa possa aver posto fine alla sua vita, se una trappola o una freccia, ma non ci sono tracce di ferite inferte da oggetti appuntiti. Magari, per una volta, ci è andato da solo nei boschi.
Tiro mentalmente un sospiro di sollievo, ma mi sento subito un po’ un idiota.
Alla fine, mio padre da a Gale una grossa pagnotta calda in cambio di quello smilzo roditore. Scambio di certo non del tutto equo, ritengo, ma credo che oggi il fornaio si senta in vena di sentimentalismi.
In realtà siamo tutti impauriti e malinconici, solo che non ce lo diciamo. Cerchiamo di sopravvivere all’angoscia riempiendo gli attimi di attesa con gesti abituali e rassicuranti, come se questi potessero in qualche modo tenerci ancorati alla lucidità che spesso minaccia di venire meno, in giorni come questo.
Mi avvicino alla finestra e vedo Gale allontanarsi dal forno mentre infila a fatica la pagnotta nella borsa e non posso fare a meno di avvertire una fitta alla bocca dello stomaco.
Pazienza, penso. Può darsi sta sera io abbia ben altro di cui preoccuparmi.
 
*
-Vai a prepararti!- sbraita mia madre tirandomi per un braccio.
Mi volto verso l’orologio appeso alla parete del negozio. È quasi mezzogiorno. Fra poco più di un’ora saremo tutti in piazza, ordinati e tremanti come foglie al vento.
Decido di darmi una rinfrescata. Sono infarinato dalla testa ai piedi.
Approfitto del camino acceso per riscaldare una decente quantità di acqua necessaria a lavarmi dignitosamente. Anche se viviamo nella parte un po’ più benestante del Distretto, l’acqua calda corrente non è alla portata della nostra famiglia.
Miscelo l’acqua fredda con quella bollente del catino e mi infilo nella vasca da bagno.
Scivolo giù fino a ritrovarmi completamente sommerso e rimango in ascolto dei rumori ovattati per qualche secondo. Tutto ciò che riesco a sentire è il gorgheggiare delle bolle che risalgono in superficie ad ogni mio movimento.
Mi torna in mente quando, da piccoli, io, Luke e Michael facevamo il bagno insieme. Ci divertivamo a soffiare nel sapone che intrappolavamo fra le dita per farne delle bolle oppure a far finta di essere dei pericolosissimi mostri marini pronti a mangiare degli spavaldi marinai.
Risalgo in superficie alla ricerca d’aria.
-Pensavo stessi tentando di affogarti- Luke, il mezzano, sta fermo sull’uscio della porta e mi guarda con aria perplessa.
-L’istinto di sopravvivenza è stato più forte- rispondo abbozzando un sorriso.
-Ti ho lasciato il completo sul letto- aggiunge lui facendo spallucce e chiudendosi dietro la porta.
-Grazie- non faccio in tempo a rispondere che lui se n’è già andato.
Quando arrivo in piazza, tanti di noi sono stati già controllati e sistemati in gruppi. I più grandi davanti, i più piccoli dietro.
Gli stendardi di Capitol City fanno bella mostra di sé appesi ai lati del Palazzo di Giustizia, proprio dietro al piccolo palco allestito per l’occasione.
Mi metto in fila per essere censito e con passo pesante raggiungo i ragazzi della mia età.
È in quel momento che la vedo.
Ha un vestito azzurro, uno di quelli che si userebbe per una grande occasione e che è costretta ad indossare oggi, non proprio un giorno di festa. I capelli, di un lucente nero, sono stretti in un’intricata acconciatura di trecce, mentre il suo viso è teso in uno sguardo duro e ferito. Benché cerchi di non far trapelare nessuna emozione, così come tante volte l’ho vista fare, è chiaro che è preoccupata.
La voce trillante di Effie Trinket richiama la nostra attenzione. Apre il discorso con i soliti riferimenti al Trattato del Tradimento, ai Giorni Bui e a tutto quello che ne è derivato, come gli Hunger Games. Veniamo costantemente puniti per farci ricordare che questo è quello che accade a chi si ribella. Una sorte di eterno “memento mori”. Così sembra dicessero gli antichi latini: ricordati che devi morire.
E noi lo ricordiamo benissimo. Moriamo per i giochi, per le malattie, alcuni per la fame, per le praticamente inesistenti condizioni di sicurezza nelle miniere.
Il mio sguardo torna a lei per un altro secondo soltanto, prima che l’arrivo di Haymitch Abernaty mi distragga dall’intento.
Quando il trambusto dovuto all’ingresso del mentore del nostro distretto viene placato è finalmente il momento del sorteggio.
-Prima le signore- esclama la Trinket zampettando con le sue scarpe fino alla boccia contenente i nomi di tutte le ragazze del 12 moltiplicate per gli anni di iscrizione agli Hunger Games e per le volte in cui sono state segnate nell’arco degli anni in un apposito registro, costrette a chiedere le tessere per un po’ di fornitura di viveri.
La vedo volteggiare la mano all’interno del contenitore di vetro un paio di volte prima di fermarsi su una strisciolina di carta pieghettata. La tira fuori ed esclama un nome.
Mi sento paralizzato. Non riesco a respirare. Vorrei girarmi a guardarla, ma non mi riesce.
La sento solo urlare il nome di sua sorella e poi uno strozzato ma alto -Mi offro volontaria! Mi offro volontaria come tributo!- e in un attimo vorrei che il mondo finisse ora.
Tutto in torno a noi c’è un silenzio assordante. Di quelli che ti rimbombano nelle orecchie.
Non riesco neanche a sentire cosa l’accompagnatrice del distretto blatera sul palco.
Primrose urla il suo nome e non vuole lasciarla andare. Gale arriva a prenderla in braccio e a portarla via.
Non riesco a seguire bene cosa succede dopo. Sento una gran confusione nella mia testa, il battito nel mio petto è accelerato.
-Katniss Everdeen- le sento dire una volta raggiunta Effie sul palco. Probabilmente le ha chiesto come si chiama.
Certo che Primrose è sua sorella, che diavolo di osservazione è? Mi verrebbe voglia di urlare.
Sento il fuoco nei polmoni. Com’è che si fa per respirare?
Una sensazione di frustrazione e impotenza inizia ad invadermi dalla testa ai piedi, fino a che, al momento del sorteggio maschile, il nome ad essere pronunciato è proprio il mio.
Allora non sento inspiegabilmente più niente. La testa è vuota e leggera.
Vorrei scoppiare a ridere, come prima reazione, se non fosse che credo mi si siano paralizzati i muscoli del viso.
Ironia della sorte.
Così tanto tempo ad essere invisibile per lei e questo è il modo che il destino ha creativamente trovato per farmi notare.
Eppure, adesso, mentre avanzo verso il palco, qualcosa di molto simile al terrore inizia a farsi strada in me, mano a mano che la consapevolezza sale.
Se saremo fortunati, uno solo di noi potrà tornare a casa e probabilmente quell’uno non sarò affatto io.
Mi sarebbe piaciuto parlarle, prima di oggi. Chiederle scusa per come le ho tirato il pane, quel giorno di pioggia di cinque anni fa.
Sarei dovuto andare da lei e non lanciarlo in mezzo al fango.
Quando arrivo sul palco, lei mi guarda negli occhi e le stringo la mano, penso che lo farò. Mi scuserò. E, se dovrò morire, farò almeno in modo che lei sopravviva.
 
 
   
 
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