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Autore: Shailene_bird    07/02/2024    0 recensioni
Durante un volo intercontinentale Takumi, ormai trentenne, ripensa ai tempi del liceo e al suo rapporto con Asami, una ragazza giapponese che scompare dalla sua vita all'improvviso e di cui nessuno ha più memoria tranne lui stesso. Per scoprire la verità su di lei Takumi, che da sempre sogna di diventare un pianista come suo nonno, compie appena diciottenne un viaggio nel lontano Giappone assieme alla madre e al suo migliore amico Thomas.
Tuttavia, venuto a conoscenza della verità sulla ragazza, la sua vita cambierà completamente e dovrà fare i conti con quello che nel suo mondo ha sempre considerato irreale.
Guardando dal finestrino dell'aereo, diretto laddove anni prima aveva lasciato una parte di sé, e attraverso dei dialoghi con una signora anziana seduta al suo fianco, Takumi rifletterà su quanto ha perso, ricordando un amore che non ha mai dimenticato, le amicizie degli anni giovanili e il rapporto speciale con la madre, alla ricerca del suo posto nel mondo.
NDA
Pubblicherò solo i primi 3 capitoli di questo romanzo per darvi un assaggio della storia. Il resto, se vi andrà di leggerlo, potete trovarlo su Amazon scrivendo Kiss the Rain Sara Manfredi. Grazie di cuore ai lettori!
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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KISS THE RAIN 

CAPITOLO 1 



«Un caffè, signore?».
«No, la ringrazio».
«Se ci ripensa, mi faccia un fischio».
Sorrisi a quella hostess, ricambiando al suo occhiolino, forse per la terza o quarta volta.
Il volo sarebbe durato dodici interminabili ore, alias settecentoventi minuti. Misurare l’attesa in minuti non è consigliabile quando devi restare concentrato e rilassato, soprattutto se rientri nella categoria di persone che tutte le volte che prova a fare respiri profondi finisce per stare peggio di prima.
«Scusi», dissi facendo cenno con una mano per richiamare l’attenzione della hostess.
«Mi dica, ha ripensato al caffè, non è vero?».
«In realtà mi stavo chiedendo se aveste una tisana o una camomilla».
«Una richiesta inusuale, ma vedrò cosa posso fare».
«Grazie».
Sorrisi, sperando in una tisana, ma alla fine mi dovetti accontentare di una calda camomilla. Guardando dal finestrino di un aereo non puoi fare a meno di pensare. A quello che è stato, a quello che è adesso e a quello che sarà.
Ti perdi ad osservare le nuvole bianche sotto di te, pervaso da un turbinio di riflessioni, domande, pensieri confusi che fanno capolino nella tua testa inaspettatamente. E ti senti strano, quasi scombussolato da quella tensione alla bocca dello stomaco, che forse ti fa capire che quella che stai provando è solo nostalgia di un tempo perduto. O forse un piccolo vuoto che in tutti questi anni non sei riuscito a colmare.
 
 
Scoprii l’amore ai tempi del liceo quando mi accorsi di non essere in grado di ascoltare e guardare allo stesso tempo.
Riuscivo a farlo solo con una persona. Asami.
Non facevo che guardarla e quando non la guardavo, volevo farlo. Era come se dentro di sé avesse una calamita forgiata solo per attrarre i miei occhi. Quando parlava alle interrogazioni in classe o recitava i versi di alcune poesie durante le ore di letteratura, ascoltavo ogni singola parola, ogni suono emesso dalla sua voce delicata e leggera, così fragile che sembrava potersi spezzare da un momento all’altro. Peccato che non riuscissi a fare lo stesso con i professori e infatti i miei voti non erano il massimo, solo il giusto per non essere bocciato.
Asami aveva un modo di fare strano, ma a me piaceva.
Se ne stava in disparte, in un angolino della classe, seduta al banco vicino alla finestra. Ogni tanto si voltava a guardare il cielo e quando vedeva uno stormo di gabbiani o i primi fiori sbocciare in primavera accennava un lieve sorriso. Durante la ricreazione leggeva un libro, mentre sgranocchiava una mela e un pacchetto di cracker. Non sembrava interessarle troppo fare amicizia con gli altri, forse i suoi libri le erano sufficienti, magari in essi trovava cose più divertenti ed emozionanti che parlare di argomenti stereotipati come ragazzi o smalto alle unghie.
Asami entrò a far parte della nostra classe solo dalla terza superiore. Ricordo ancora oggi la sua presentazione alla classe, breve e concisa, una di quelle che ti fanno capire subito che quella persona, in realtà, ha molto da raccontare.
Qualcosa dentro di me cominciò a cambiare una mattina quando, durante la lezione di letteratura, ci guardammo nello stesso momento. Accadde senza preavviso, mi voltai verso di lei come se lo avessi sempre fatto, come uno di quei gesti spontanei che esegui senza usare la benché minima razionalità. Come quando spegni la sveglia al mattino mentre cerchi ancora di capire che giorno sia.
Fu allora che sentii qualcosa allo stomaco, come una leggera fitta che ti arde il volto all’improvviso. Mi chiesi spesso la ragione di quella mia reazione. Era qualcosa di illogico, eppure doveva avere una spiegazione razionale.
In ogni caso da quel giorno mi ritrovai sempre più spesso a guardarla e accadeva di frequente che anche lei ricambiasse quel gesto insolito, provocando in me una sensazione piacevole e al tempo stesso fastidiosa, forse perché non seppi mai spiegarla.
Avevo sempre avuto timore delle cose che non potevo comprendere, come quando da piccolo mio padre mi disse che l’universo è infinito e che la Terra gira attorno al Sole e su se stessa. Cercò di farmi dei disegni, di spiegarmi le ragioni di quei fenomeni, ma finivo sempre per arrabbiarmi o farmi venire il mal di testa. Crescendo mi posi altre domande, ma molte di queste non trovavano risposta e ciò mi provocava la stessa reazione irritante.
Asami rappresentava un mistero per me, l’essenza stessa di ciò che non può essere conosciuto. Di lei non sapevo praticamente niente a parte il suo nome, ma forse era proprio questo che mi piaceva di lei, il suo essere così imperscrutabile.
Quando mi perdevo ad osservarla in classe, pensavo a quanto mi sarebbe piaciuto parlare con lei, magari per chiederle il significato del suo nome, che era tanto strano quanto il mio, o sapere quale genere letterario le piacesse, le canzoni che ascoltava di più alla radio o il suo gusto di gelato preferito. Magari non le piaceva neanche il gelato, ma io desideravo saperlo.
Poi venne un giorno in cui, finalmente, ne ebbi l’occasione.
Era maggio e a scuola c’era l’occupazione. I miei compagni di classe erano così eccitati all’idea di saltare le lezioni che non facevano altro che sbraitare a giro per i corridoi. Non si trattava di certo di un’occupazione costruttiva, probabilmente non sapevano neanche per cosa stessero protestando, ma è tipico di quell’età fare qualcosa in modo inconsapevole lasciandosi andare al puro e semplice istinto, quindi non persi troppo tempo a biasimarli.
Dopo averli seguiti per un po’, decisi di andare nell’aula utilizzata dal club di musica. Avevo voglia di suonare. Era uno strano bisogno che nasceva dentro di me all’improvviso, senza una logica ben precisa. Forse ero nato per questo, a dir la verità non sapevo fare altro. Mio padre mi regalò la mia prima tastiera a sei anni e da quel giorno non sono più riuscito a farne a meno. È stato un dono, letteralmente.
Mio nonno paterno era un pianista di mestiere, lo chiamavano a suonare nei teatri più famosi al mondo per accompagnare l’orchestra nelle opere liriche e quando veniva a trovarci per trascorrere le vacanze in famiglia non perdeva mai occasione di farci sentire qualche pezzo inedito o le melodie classiche più note. Nonostante fosse poco presente a causa del suo lavoro, ho un ricordo nitido delle sue mani che scorrono sui tasti del pianoforte con leggerezza ed eleganza. Credo sia soprattutto grazie a lui se mi sono avvicinato alla musica.
Quando cominciai a suonare purtroppo mio nonno era già scomparso, quindi non poté insegnarmi. Mio padre lesse alcuni libri di teoria musicale solo per mostrarmi a quali tasti corrispondessero le sette note principali, ma a differenza del padre lui, di musica, proprio non ne capiva niente. Così quando compii nove anni decise di mandarmi a lezione da maestri professionisti. Trascorsi un anno a suonare brevi motivetti, a imparare a leggere le note, a fare la scala musicale usando le dita giuste e a non perdere la concentrazione durante l’esecuzione di un brano.
Ci voleva disciplina, costanza, pazienza, praticamente tutto quello che non ero a quell’età, ma poi imparai a controllarmi, a saper dosare la mia energia e a incanalarla nei tasti bianchi e neri del pianoforte. Ne uscii diverso, cresciuto, a tratti forse anche migliore.
Suonare il piano mi aveva sempre rilassato e quella mattina caotica mi sembrò il momento perfetto per strimpellare qualche brano che ormai avevo imparato a memoria.
Quando varcai la soglia dell’aula di musica sentii un tonfo sordo riecheggiare in lontananza, come di una porta che si chiude all’improvviso, ma sul momento non ci badai molto.
La stanza era vuota, proprio come mi aspettavo. Un piacevole silenzio aleggiava nell’aria e la rendeva diversa dal solito. Avevo deciso di non far parte del club di musica perché volevo mantenere segreta la mia passione per il pianoforte. Ero consapevole che fosse una cosa stupida, ma preferivo venire a suonare di nascosto senza essere sentito da nessuno, piuttosto che davanti ai miei compagni di classe, soprattutto ad Asami. Avere un segreto del genere mi piaceva, era il mio modo di sentirmi diverso dagli altri.
Mi misi a sedere e cominciai a suonare un brano di Chopin che ormai sapevo eseguire alla perfezione. Valse op. 69 n°1, il mio preferito. Lo ascoltai la prima volta quando avevo nove anni, ma di quel pezzo non mi stancai mai. Era una composizione incisiva che sapeva toccarti interiormente e ogni nota corrispondeva a un momento di puro piacere.
Lo eseguii dall’inizio alla fine finché non sentii una presenza alle mie spalle.
«Ehi ragazzino, fra dieci minuti qui chiudo tutto quindi finisci al più presto e torna nella tua classe».
Mi limitai ad annuire al custode, chiamato da tutti Lupo di mare per essere stato da giovane un brillante marinaio. Indossava sempre una maglietta a righe, gli occhiali tondi e spessi, un berretto beige e non c’era volta in cui non lo vedessi fuori in giardino a fumare un sigaro. I suoi vestiti erano così impregnati di fumo che camminando per i corridoi si sentiva la scia di odore lasciata dal suo passaggio. Era diventato custode nella nostra scuola dopo essere andato in pensione. Lo faceva per passare il tempo, diceva di non essere in grado di stare a casa senza fare nulla, così il preside, suo nipote, lo piazzò come guardiano delle stanze riservate ai club e alla palestra, site al pian terreno. Quando era in vena di chiacchiere, soprattutto durante le ore di educazione fisica, ci raccontava dei suoi lunghi viaggi in mare trascorsi ad occuparsi della cambusa e della manutenzione della nave. Una volta ci disse di aver visto una piovra gigante nel Pacifico, a detta sua la più grande mai vista prima. All’apparenza sembrava burbero e freddo, ma credo fosse solo per mantenere la sua reputazione da buon vecchio marinaio. Non seppi mai il suo vero nome. Un giorno glielo chiesi, ma lui rispose “se te lo dicessi poi dovrei ucciderti”. Da quel momento non gli feci più certe domande.
Chiusi lo sportello del pianoforte che copriva i tasti e mi diressi verso l’uscita, mentre all’esterno cominciò a piovere forte.
«C’è qualcuno?».
Mi bloccai. Una voce femminile risuonò nell’aula, ma a una certa distanza da dove mi trovavo io. Mi era familiare ma sul momento non seppi riconoscerla. La pioggia faceva troppo rumore, capii solo che proveniva dall’interno di una stanza.
«Chi parla?», chiesi.
Seguirono alcuni secondi di silenzio, poi arrivò la risposta.
«Sono Asami», disse.
Cominciai ad agitarmi, non sapevo cosa fare. Come quando decidi di buttarti col parapendio ma l’immagine dello strapiombo davanti agli occhi ti terrorizza e finisci per pentirti di quella scelta.
Persi alcuni istanti a tastarmi il petto alla ricerca di un’imbracatura, poi decisi di buttarmi. Seguii il suono della sua voce e finii per trovarla.
Asami era rimasta chiusa dentro la stanza dove i ragazzi del club di musica tenevano i loro strumenti. Pensai a come fosse possibile, ma poi alzai lo sguardo e notai che a fianco della porta c’era un foglio con su scritto “Non chiudere la porta. È rotta”.
«Asami sono Takumi, sei qua dentro?».
«Sì, ero venuta perché volevo...», si interruppe. Dopo alcuni secondi di silenzio riprese a parlare.
«Volevo suonare il basso, ma quando sono entrata un colpo di vento ha chiuso la porta all’improvviso. E così sono rimasta bloccata qua dentro».
«Credo sia stata colpa mia, sono entrato poco fa, ma pensavo non ci fosse nessuno. Mi dispiace Asami. Vado a chiamare subito il custode».
«Okay».
Corsi all’uscita, ma la porta era chiusa a chiave, diedi uno sguardo alla finestra di vetro e vidi in lontananza Lupo di mare che se ne stava andando.
«Ehi, aspetta!», gridai.
Non poteva sentirmi, aveva le cuffie del walkman alle orecchie come al suo solito. Lo rilassava, diceva.
Provai a bussare con forza alla porta, ma fu del tutto inutile. Lupo di mare stava già varcando la soglia d’uscita alla fine del corridoio.
Rimanemmo chiusi dentro entrambi.
La mattina avevo detto a mia madre che sarei rimasto a dormire dal mio amico Thomas, quindi anche se non fossi tornato a casa, i miei non si sarebbero certamente preoccupati. Nemmeno lui, però, venne a cercarmi. Forse ipotizzò che fossi tornato a casa per un imprevisto dell’ultimo minuto.
Tornai da Asami, ma ciò che dovevo dirle non le sarebbe piaciuto.
«Asami».
«Si?».
«C’è un problema».
«Che succede?».
«Lupo di mare ci ha chiusi qui dentro per sbaglio. Evidentemente pensava non ci fosse più nessuno».
«Lupo di mare?», ripeté perplessa.
«Sì, il signore che fa la guardia al piano terreno, non lo conoscevi?», chiesi.
«Non sapevo che avesse questo nome».
«Beh, non è il suo vero nome ovviamente, è solo uno stupido soprannome che gli abbiamo dato, non farci troppo caso».
«Uhm, okay», rispose infine Asami.
«Ma adesso cosa facciamo?», aggiunse subito dopo.
«Sono le quattro del pomeriggio ormai e l’occupazione non credo durerà molto. Il preside ha già minacciato di chiamare le forze dell’ordine quindi staranno già uscendo tutti per tornare a casa. Temo che dovremo passare qui la notte. Mia madre pensa che io sia da un amico a dormire, quindi non verrà a cercarmi. Tra l’altro ho lasciato il mio Nokia a casa. Tu hai un telefono?».
«No, non ho mai avuto un telefono».
«Allora forse potrebbero venire i tuoi genitori. Se non ti vedono tornare a casa...». Non riuscii a terminare la frase che Asami mi interruppe.
«Ehm, io in verità vivo con mia nonna, non ho nessun altro, ma dubito che verrà a cercarmi, è malata e non riesce a muoversi come vorrebbe».
Improvvisamente immaginai Asami prendersi cura della nonna, cucinarle dei piatti squisiti, stendere i panni al sole e badare a se stessa. Pensarla in quel modo mi rese più vulnerabile, mi sembrò ancor più bella, più forte, più vera.
«Ehi Asami, andrà tutto bene, promesso».
Mi guardai attorno sperando di trovare una soluzione per aprire quella dannata porta che ci separava, ma eravamo nel club di musica, non di meccanica.
Fortunatamente Asami mi disse che il ripostiglio degli strumenti era stato all’origine uno spogliatoio della palestra, quindi poteva andare in bagno in qualsiasi momento. Lo stesso, però, non valse per me, e infatti dovetti rinunciare alla buona condotta civile e farla dentro un cestino. Una delle cose più schifose che feci in tutta la mia vita.
Pensare di trovarmi a pochi metri da Asami era strano, quasi surreale, come la situazione che fummo costretti a vivere quel giorno. Non eravamo mai stati così vicini, non avevamo mai parlato così.
Essere rimasti chiusi dentro la scuola non mi sembrò affatto un problema, perché inaspettatamente era diventata la mia occasione per stare con lei.
Fuori continuava a piovere forte e le gocce d’acqua che battevano sulla strada furono il sottofondo musicale a tutto ciò che io e Asami ci dicemmo in quel lungo, ma fin troppo breve, pomeriggio.
Restai seduto appoggiato al muro per un po’ di tempo, in assoluto silenzio, certo di sentire la presenza di Asami proprio alle mie spalle.
Per qualche strana ragione, le nostre voci arrivavano dritte alle nostre orecchie, come se fossimo seduti l’uno accanto all’altra.
«Hai fame?», le chiesi.
«Un po’».
Alzai lo sguardo verso la parete in cerca di un’apertura che mi permettesse di passarle del cibo nel caso avessi trovato qualcosa. In alto a destra c’era una bocchetta dell’aria, mi sarebbe bastato togliere la grata per comunicare con lei.
«Aspetta, mi è venuta un’idea», dissi.
In quel momento ricordai che il club di musica, due giorni prima, aveva organizzato una piccola festicciola, una sorta di rituale prima del saggio di fine anno. Sperai fossero rimasti degli avanzi di patatine o qualsiasi altra cosa che potesse fermare il languore allo stomaco.
«Ehi Asami, ho trovato delle patatine e un po’ di aranciata. Te le passo attraverso questa grata».
Asami non rispose, era molto silenziosa, ma in fondo lo era sempre stata.
Le uniche volte in cui avevo sentito la sua voce era quando la professoressa la interrogava o le poneva alcune domande in classe. Ogni volta che succedeva cercavo di ritagliarmi quei momenti e di memorizzarli nella mia testa, così da ripescarli quando ne avevo più voglia.
Presi una sedia e ci salii sopra. Tolsi la grata che non era sigillata con dei chiodi e la vidi. 
Era appoggiata al muro, esattamente come l’avevo immaginata. Alzò gli occhi e mi guardò. Non seppi decifrare la sua espressione, ma sembrava sorpresa, come se non fosse abituata a ricevere qualcosa dagli altri.
«Grazie, Takumi».
Non disse nient’altro, ma il modo in cui pronunciò quelle parole lo rese speciale.
Asami, quel giorno, indossava un vestitino lungo bianco ornato di pizzo ai bordi che ben risaltava sui suoi capelli scuri e le guance rosee. In realtà doveva proprio piacerle il bianco perché non indossava altro che non fosse di quel colore.
Mentre pensavo a quanto mi piacesse Asami, inciampai sulla sedia e caddi, facendomi male. Un tonfo riecheggiò nella stanza.
«Ti sei fatto male?», chiese lei sporgendosi dalla bocchetta. Sembrava preoccupata per me.
«Solo un po’ di dolore alla caviglia», risposi mentre mi toccavo il piede per constatare il danno.
«Devi metterci del ghiaccio allora».
«Non credo ce ne sia qui».
Alzai lo sguardo per guardare Asami, ma non la vidi.
Dopo alcuni istanti in cui imprecai mentalmente a causa del dolore, riapparse dalla grata.
«Mettici questo».
Era un pacchetto di ghiaccio istantaneo.
«Dove l’hai trovato?».
«Sono dentro un vecchio spogliatoio, ricordi?».
Eravamo molto più fortunati di quanto potessimo pensare.
«Grazie Asami», dissi accennando un lieve sorriso.
Ci guardammo per pochi secondi, poi lei distolse lo sguardo.
Asami aveva gli occhi leggermente a mandorla e di un castano così profondo da rischiare di caderci dentro.
Spesso mi ritrovavo a pensare a quante cose potesse nascondere quello sguardo, ma era una di quelle domande alle quali sapevo di non poter dare risposta.
«Stai tranquillo, non è niente di grave», disse Asami.
La sicurezza con cui pronunciò quelle parole mi confortò non poco.
«Beh, perlomeno avremo qualcosa da raccontare ai nostri nipoti», scherzai. Chissà se con nostri intendessi in comune.
«Takumi, tu sai suonare?», mi chiese improvvisamente Asami cambiando discorso, anche se sul momento la sua sembrava più un’affermazione che una domanda.
«Perché non fai parte del club di musica?», aggiunse. Dopo alcuni attimi di esitazione ribattei.
«Potrei farti la stessa domanda».
Asami rimase in silenzio, ma sapeva bene a cosa mi riferissi.
«Ti capisco sai, neanche io amo molto suonare davanti agli altri, soprattutto se si tratta dei miei compagni di classe. È per questo che non faccio parte del club di musica, ma di quello sportivo», dissi.
Dopo alcuni istanti di silenzio Asami cominciò a parlare.
«Ma io non faccio parte del club di musica perché mi imbarazza suonare davanti agli altri», chiarì.
«E allora perché?», chiesi perplesso.
«Perché “suonare” per me non significa “doversi esibire”. Lo faccio per me stessa, perché mi fa stare bene. Se un giorno dovessi sentire il bisogno di condividere la mia musica, allora suonerò davanti a qualcuno».
Le sue parole mi sorpresero a tal punto che non seppi rispondere. Avevo sempre pensato che suonare uno strumento implicasse prima o poi il dovere di esibirsi davanti a qualcuno, come se la musica esistesse solo nel momento in cui viene ascoltata da altri, ma non era così. Almeno non per Asami. E da quel momento nemmeno per me.
«E comunque Takumi, dovresti lasciar andare di più le tue emozioni», disse prima di scendere dalla sedia e sparire dalla mia vista.
Nei dieci minuti successivi riflettei sulle sue parole, ma allora non riuscii a comprenderle fino in fondo.
Erano le venti e nessuno era ancora venuto a cercarci.
«Ti piace il gelato Asami?», chiesi improvvisamente.
«Perché mi fai questa domanda?»
«Ehm, semplice curiosità», balbettai.
«Sì mi piace, soprattutto la cioccolata fondente».
Un piccolo pezzo del puzzle si era appena aggiunto al quadro d’insieme.
«Io preferisco la fragola».
«La fragola?», esclamò Asami sorpresa.
«Già, perché, è strano?».
«No, ma a nessuno piace il gusto alla fragola».
«Mmm, forse hai ragione, ma solo perché è sottovalutata. Le persone sottovalutano sempre tutto, ma si sa, sono le cose che non ti aspetti a sorprenderti di più», dissi maledicendomi per quel banale intervento filosofico.
Dopo il liceo, però, mi resi conto che quella frase era la descrizione esatta di Asami.
Nessuno sapeva chi fosse veramente perché a nessuno importava di conoscerla. Asami era sottovalutata, proprio come il gusto alla fragola.
«Asami, tu non parli molto vero?», chiesi improvvisamente.
Quando mi resi conto di averlo detto ad alta voce era ormai troppo tardi.
«In classe ho notato che trascorri gran parte del tempo a leggere, quindi mi chiedevo se fosse perché non...».
«A te piace leggere Takumi?», disse lei interrompendomi.
«Io, beh, roba di scuola non molto in verità, ma sono un grande appassionato di leggende popolari».
«Davvero?», esclamò sorpresa Asami.
«Sì, mi affascinano molto».
«Raccontamene una allora».
«Dici sul serio? Voglio dire, non vorrei annoiarti».
«Sul serio, sono curiosa».
«Allora ti racconto una storia che mi narrò mio nonno quando ero molto piccolo. Mi è sempre piaciuta, a tal punto che la ricordo ancora oggi», sorrisi.
«Ti ascolto», disse lei.
«Si tratta di una leggenda giapponese. Narra che moltissimi anni fa – cominciai a dire – lungo il fiume celeste, l’equivalente della Via Lattea, viveva una bellissima ragazza di nome Orihime, figlia dell’imperatore Tentei. Orihime era una bravissima tessitrice, ma anche un’incessante lavoratrice, per cui non aveva mai tempo di pensare a se stessa. Così il padre, dispiaciuto per lei, pensò di darle in marito un mandriano che pascolava le mucche. Il ragazzo si chiamava Hikoboshi e anche lui non si riposava mai. Orihime e Hikoboshi si innamorarono a prima vista e desiderarono di diventare al più presto marito e moglie. Tuttavia, quando i due divennero sposi finirono per trascurare i loro lavori, così il telaio di Orihime si impolverò e i buoi dimagrirono per mancanza di cibo. Tentei cercò di rimediare rimproverando i due ragazzi, ma fu inutile perché loro non ripresero più a lavorare. La situazione peggiorò ulteriormente, così all’imperatore non restò che proibire ai due di vedersi. I due innamorati furono separati, Orihime fu portato a ovest della Via Lattea ed Hikoboshi ad est. Da quel momento non poterono più vedersi o sentirsi, il fiume era infatti troppo largo per permettere loro di incontrarsi. Ma nonostante la loro separazione il problema non si risolse perché i due non ripresero a lavorare, Orihime non faceva che piangere ed Hikoboshi si rinchiuse in casa. Allora all’imperatore non restò che prendere una decisione. Disse ai due innamorati che...»
«Che si sarebbero potuti vedere una sola volta all’anno, il sette di luglio, il giorno in cui le due stelle Vega e Altair, gli astri che li rappresentano, si trovano più vicine nel cielo. È così che termina la storia, non è vero Takumi?», concluse Asami.
«Aspetta, tu la conosci?», dissi sorpreso.
Prima che Asami rispondesse trascorsero alcuni secondi di silenzio.
«Mia nonna me la raccontava sempre quando ero piccola, prima di addormentarmi. Era il mio racconto preferito».
«Ma come fa a conoscerla tua nonna?».
«Beh, lei è giapponese, come lo sono io, per cui è normale per noi conoscerla».
Rimasi stupito da quella notizia. Non sapevo davvero niente di Asami, nemmeno quali fossero le sue origini. Per quanto avessi notato i suoi lineamenti orientali, non potevo sapere da dove provenisse con esattezza.
Mi sentii uno stupido, eravamo in classe insieme eppure la conobbi solo quel giorno.
«Quindi sai anche che in Giappone c’è una festa che si chiama Tanabata che celebra proprio il ricongiungimento di queste due stelle e quindi dei due innamorati».
«Sì. Il sette luglio di ogni anno, infatti, io e mia nonna scriviamo su un foglietto colorato i nostri desideri e li appendiamo ad una canna di bambù. È una tradizione».
«Che bello Asami», dissi all’improvviso.
«Che cosa?», chiese lei confusa.
«Che tu ti sia aperta con me».
Come al mio solito aprii la bocca senza pensarci troppo.
«Sai cosa potremmo fare? Guardare insieme le stelle Vega e Altair, che ne dici?», le proposi entusiasta.
«Ecco, io...», cominciò a dire Asami prima che la interrompessi.
Mi chiedo ancora oggi cosa avesse da dirmi, detesto me stesso per non averla fatta parlare. In fondo anche io ero come tutti gli altri, istintivo, imprudente, immaturo. Parlavo, ma non sapevo ascoltare. Volevo conoscerla, ma non le davo modo di mostrarsi. Dopo il liceo mi ripromisi di ascoltare di più, di imparare ad aspettare, dopotutto era stata la musica ad insegnarmi la pazienza, mi bastava applicarla a qualsiasi cosa.
«Sono certo che riusciremmo a vederle», continuai.
In quell’occasione Asami non rispose, restò in silenzio, e nei minuti successivi mi chiesi se avessi detto qualcosa di sbagliato.
La pioggia non sembrava voler smettere, continuava a battere incessantemente sui vetri della finestra dell’aula di musica.
Guardai l’orologio. Segnava le ventuno.
«Asami?».
«Sì?»
«Il tuo nome ha un significato?».
«Non lo so in verità. Mia nonna mi ha sempre raccontato che io e Anami, mia sorella gemella, eravamo come due parti di una stessa cosa, per questo abbiamo un nome molto simile».
La sua voce, mentre pronunciò lentamente quelle parole, mi sembrò più fragile del solito. Perché Asami viveva solo con la nonna? Dov’erano sua sorella e i suoi genitori?
Avrei tanto voluto chiederglielo ma per qualche strano motivo, allora, non le feci nessuna domanda. Era strano per uno come me rispettare il silenzio di qualcuno, io che tendevo sempre a riempire ogni minuto della mia vita con la musica o con le parole. Quando conobbi Asami quel giorno, quando parlai con lei quella notte, il silenzio assunse un significato nuovo per me.
«Immagino siano nomi giapponesi», ipotizzai.
«Sì, più o meno. Beh, però anche tu hai un nome strano eh?», chiese lei.
«Me lo ha dato mio nonno. Lui era un pianista e suonava spesso in Giappone, per questo anche lui sa molte cose riguardo questo paese. Takumi era il nome di un suo amico a cui era molto legato, anche lui musicista, conosciuto a Tōkyō. Chissà, forse mio nonno sapeva già che ero destinato ad innamorarmi della musica», spiegai abbozzando un sorriso.
«E così abbiamo qualcosa in comune», disse Asami.
«Già», sorrisi di nuovo.
Il rumore violento di un tuono riecheggiò improvvisamente nell’aria, facendomi sussultare.
«Hai freddo Asami?», chiesi.
«No, tu?».
«Nemmeno io, ma devo ammettere che i tuoni mi fanno un po’ paura», confessai. Sentii Asami ridere dall’altra parte del muro.
«Ehi, guarda che non è divertente», dissi offeso.
«Sei davvero buffo Takumi».
Quella fu la prima volta che mi definì in quel modo.
«Sapevi che esiste un modo per calcolare la distanza tra noi e il tuono?», disse poi.
«Cosa? È possibile?», esclamai sorpreso.
«Certo».
«E allora lo voglio sapere, potrebbe essermi utile per non rimanere folgorato quando sono fuori casa», dissi.
«Devi solo dividere per 2,9 l’intervallo di tempo che intercorre tra la visione del lampo e il rumore del tuono», spiegò Asami.
«Ma è difficile senza una calcolatrice».
«Beh, in realtà puoi anche dividerlo per 3, così è più semplice», chiarì lei.
«Perché non provi?», aggiunse.
«Okay, aspetta».
Raccolsi la sedia dalla quale ero caduto, ci salii sopra per affacciarmi alla finestra che dava sull’esterno in giardino e attesi l’arrivo di un forte lampo.
Spesso, soprattutto nelle giornate di pioggia, mi ritornano alla mente le goccioline sparse sul vetro di quella finestra un po’ polverosa, i battiti del mio cuore accelerare, il respiro affannoso per l’emozione e la trepidazione che si prova quando si aspetta qualcosa. Mi chiedo se da piccoli si è in grado di provare sensazioni più forti, perché adesso, quando mi perdo a guardare le gocce d’acqua cadere dal cielo, mi rendo conto di non percepire quell’evento come vorrei. Se solo potessi riprovare le stesse sensazioni di allora, in quella stanza del club di musica, vicino ad Asami, ma non ci riesco. Non senza di lei.
«Ecco il lampo!»
«Inizia a contare allora!», gridò Asami dall’altra parte della stanza.
«Uno, due, tre...», cominciai a contare drizzando le orecchie in attesa del tuono.
«6 secondi!», gridai.
«Quindi sono...», iniziò a dire Asami.
«Due chilometri da qui!», gridammo all’unisono. Scoppiammo a ridere per averlo detto nello stesso momento.
«È abbastanza vicino allora, ma tranquillo, qui siamo al sicuro», disse Asami.
«Asami io...».
Chissà se Asami, dopo quel giorno, si sia mai chiesta cosa avessi da dirle. Ma che cosa volevo dirle? Mi sembra di non ricordarlo bene, come una foto sgranata che non riesci a mettere a fuoco.
«Ehi tu! Che ci fai ancora qui?!».
La porta della stanza si spalancò all’improvviso facendomi sussultare. Lupo di mare si ergeva sulla soglia in tutta la sua severità.
«Ecco, io...», borbottai ancora frastornato.
«Forza andiamo, tua madre ti sta cercando, è molto preoccupata per te».
«No aspetti, dobbiamo aprire questa porta, una mia compagna di classe è rimasta chiusa dentro», dissi frettolosamente.
Senza dire una parola Lupo di mare si avvicinò alla porta e con un colpo secco unito a un giro di maniglia la aprì.
«Ah, questi ragazzi d’oggi, la prossima volta, se volete trovare un posto appartato dove amoreggiare come due stupidi adolescenti, fatemelo sapere che vi do qualche dritta. Non serve chiudersi qua dentro».
«Che cosa...no, guardi che ha capito male», bofonchiai, mentre Lupo di mare si dirigeva a passo deciso verso l’uscita della stanza.
«Ma chissà perché ora fanno tutte queste storie per darsi un bacio, ai miei tempi ci si dichiarava alla luce del sole», borbottò prima di sparire dalla mia vista.
Io e Asami restammo lì in piedi per alcuni secondi, ancora confusi da quello che era accaduto. Ci guardammo per qualche secondo, poi lei scoppiò a ridere.
«Lo trovi divertente?», chiesi.
«Quello era Lupo di mare, non è vero?», disse accennando un risolino.
«Già», risposi accigliato.
Seguirono alcuni secondi di silenzio.
«Grazie, Takumi».
Non ebbi il tempo di rispondere che Asami si stava già dirigendo verso l’uscita.
La sua silhouette di spalle mentre varca la porta d’ingresso del club di musica, con quell’abito bianco di pizzo che svolazza ad ogni passo, ricorre ancora oggi nella mia testa, come un promemoria mentale di cui il mio cervello non riesce a fare a meno.
   
 
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