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Autore: Dilandau85    09/02/2024    1 recensioni
Siamo in un mondo fantastico chiamato Elysia, in un'epoca che potrebbe essere paragonabile al nostro XVIII secolo. La vita di Solène, 5 anni, e della sua famiglia viene turbata da un drammatico evento, che la strapperà alle sue radici e la getterà in un baratro oscuro. Pedina di potenti in un mondo precario e scosso dalla guerra riuscirà a ritornare a casa, abbandonarsi il passato alle spalle e vivere in pace? Quanti anni ci vorranno? A che costo? Questo è l'inizio di un lungo progetto narrativo che, se vi piacerà, avrò il piacere di condividere con voi.
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tre colpi, vigorosi e sordi, risuonarono sul portone di Villa Masson. Tanto bastò per infrangere le speranze che la piccola Solène riponeva in quella mattinata d’estate. Doveva trattarsi del maestro che faceva lezione a suo fratello Aymar, ne era sicura. Nonostante fosse un appuntamento fisso, la bambina si ritrovava ogni volta a sperare che un qualche inconveniente trattenesse quel vecchio dalle orecchie rosse ed enormi lontano da casa sua. Proprio come quella volta, lo scorso inverno, quando un brutto raffreddore aveva permesso a tutta la famiglia un mese di vacanza. Che gioia, al solo ripensarci! E invece eccolo varcare la soglia di casa sua, con quella ridicola parrucca marrone in capo, di quelle lunghe e folte come non se ne vedevano più già da un pezzo. Tuttavia la peluria riccioluta non era bastata a celare agli occhi attenti della bambina, azzurri come due specchi puntati sul cielo, il suo imbarazzante segreto. 
Laurette, la domestica, lo accolse, e il frinire delle cicale pervase per un momento l’abitazione fresca e in penombra. Lo pregò di attendere nell’ingresso mentre andava a chiamare la padrona. Solène si ritrasse dalla balaustra della scala, dove si era goduta il freddo del marmo sulle guance mentre spiava l’ospite giunto al piano di sotto.
In virtù della giovane età aveva facoltà di scegliere se seguire o meno la lezione; non era ancora tenuta a studiare come suo fratello maggiore, che andava già per gli undici anni ed era ormai l’uomo di casa. L’importante, come sempre, era che non arrecasse disturbo. Corse dalla madre precedendo Laurette e la accompagnò, tenendosi attaccata alla stoffa della sua gonna, ad accogliere l’austero maestro, forte del fatto che ancora l’uomo non poteva avere nessuna autorità su di lei.
Questi le rivolse un sorriso in risposta allo sguardo aggrottato, ma Solène non se ne accorse nemmeno; continuava a cercare le orecchie tra la peluria sciupata del cimelio che aveva in capo. Il gruppo si recò nella camera di Aymar; il ragazzo, dal fisico slanciato e fluenti capelli biondi raccolti in una coda, li attendeva al tavolo già pronto per la lezione, ripassando gli argomenti trattati nella precedente sessione per non farsi cogliere impreparato. 
Solène sapeva che il maestro si sarebbe trattenuto lì fino all’ora di pranzo e che nel pomeriggio, tolte le ore di studio individuale che toccavano ad Aymar, avrebbero avuto modo di giocare insieme, forse anche di andare al mare a fare un rapido bagno prima del tramonto. Ma quella mattinata si prospettava infinita. 
Per giunta non poteva neanche approfittare dell’occasione per avere sua madre tutta per sé. Quel giorno la signora Auda Masson aveva deciso di trattenersi più del solito in compagnia di Aymar e del suo maestro. Madre e figlia erano sedute su un divano in disparte, per non interferire. Auda agitava il ventaglio per scacciare la calura. Possibile che quella lezione di storia interessasse tanto a sua madre? Solène non ne coglieva il filo logico, un po’ perché non poteva e un po’ perché non voleva. Erano fiumi di parole, di cui molte incomprensibili, che messe una dietro l’altra a quel ritmo formavano uno sproloquio inascoltabile.
Si tappò le orecchie con tutta la sua forza, irritata. Avrebbe fatto di tutto per non sentirlo più. E poi aveva caldo, ferma immobile su quel divano che come una trappola sembrava volesse imprigionarla nel suo velluto. Volse lo sguardo all’orologio: come un mausoleo in miniatura si faceva beffe di lei da sopra il fregio del camino: “No, no, no, no”, sembrava ripeterle il pendolo corto con cadenza serrata; di contro, le lancette parevano immobili. 
Si volse allora alla madre, cercando il suo sguardo, che però era concentrato su Aymar. Quella mancanza di attenzione nei suoi confronti fu la goccia che fece traboccare il vaso. Non vedeva quanto stava soffrendo? Le tirò il vestito, ma niente. Anzi, sembrava che Auda iniziasse a infastidirsi. 
Piuttosto che recedere, Solène valutò che sarebbe stata una buona idea testare la pazienza di sua madre ed estorcerle il punto di rottura.
“Mamma, mamma”, sussurrò senza voce toccandola, pensando che il solo fatto di utilizzare un tono di voce adeguato legittimasse il suo diritto a parlare e il dovere della madre a prestarle attenzione.
La donna la ignorò e Solène tornò all’attacco.
“Mamma, io voglio andare con te a raccogliere dei fiori, quelli che ti piacciono tanto”, le disse toccandola questa volta in volto, per costringerla a guardarla.
Giocando d’astuzia la bambina tentava di corromperla con un’attività che piaceva più a sua madre che a lei. Per tutta risposta Auda le fece cenno col dito di tacere, “Ora no, più tardi; ora voglio ascoltare anche io cosa dice il maestro.”
“Ma io cosa faccio allora?!”, esplose Solène a un passo dal piangere, disfandosi del tono di voce sommesso e di tutte le accortezze rispettose tenute in precedenza.
La madre si alzò, prese in braccio la figlia e uscì dalla stanza, perché tutta quella confusione aveva interrotto la lezione e quel loro dialogo stava distraendo Aymar già da un po’. La bambina esultò; portare sua madre fuori da là era già una mezza vittoria.
“Solène, devi iniziare a capire che non ci sei solo tu a questo mondo”, Auda era molto stizzita, “Tra un anno dovrai iniziare anche tu a seguire le lezioni e imparare a leggere e scrivere, come faremo? Adesso non disturbarmi più per favore, te l’ho già spiegato, vai da Laurette e chiedi a lei di portarti da qualche parte.”
L’atteggiamento risoluto della madre ne aveva reso gli occhi due lame di ghiaccio. Posò a terra la bambina, la baciò sulla testa e rientrò nella stanza, non aspettando neanche una sua replica, chiudendole per giunta la porta in faccia. Solène tremava dalla rabbia, ma sapeva che non poteva più entrare o fare confusione. Allora  decise che gliel’avrebbe fatta pagare a sua madre, nella maniera più subdola, facendo in modo di passare da colpevole a vittima e costringendo sua madre a scusarsi con lei, non il viceversa.
Ignorò quanto le aveva detto Auda e uscì di casa da sola, di nascosto. Non voleva giocare con Laurette, voleva giocare con sua madre, in quel preciso momento, e la sua età non le permetteva di avere nessuna elasticità in questa presa di posizione, né di scorgere orizzonte temporale più profondo dell’“adesso”.
Si sarebbe nascosta, per vedere se prima o poi sua madre si sarebbe ricordata che esisteva anche lei, oltre a suo fratello. E allora, magari dopo un po’ di sana preoccupazione e sensi di colpa, le avrebbe concesso tutto l’amore che ora, a suo parere, le stava negando.
Uscì dalla villa, controllando che nessuno la vedesse e si allontanò passando dal retro. Attraversò tutto il giardino e varcò un cancelletto metallico arrugginito che dava sui campi che si estendevano a perdita d’occhio tutto intorno. Adesso era sicura che nessuno l’avrebbe più vista e si incamminò rimuginando ancora sull’accaduto e tirando calci all’erba costellata di spighe dorate, alta oltre i ginocchi, l’abito tenuto su con le mani per non inciampare.
Ad un tratto raggiunse un basso muretto a secco che separava i campi dalla strada. Si volse alle spalle. Casa sua già non era più visibile da lì; non perché avesse fatto molta strada ma perché aveva scollinato un piccolo poggio, che ora ne nascondeva la vista. 
Guardò quella strada non senza timore. Sua madre gliel’aveva sempre descritta come un luogo pericoloso, a cui prestare la massima attenzione, da cui tenersi alla larga. E la paura aveva ben attecchito su di lei, che adesso si guardava intorno spaventata come se si trovasse in un seminterrato oscuro e pieno di presenze terrificanti. 
Si fece coraggio. Lì non c’era nessuno. Invece proprio di fronte a lei, attraversata la strada, un grande albero di gelso antico quanto villa Masson si ergeva solitario in quel campo. Soltanto l’altro ieri ci si era recata, proprio con sua madre, a raccoglierne i frutti neri e succosi. La vista della grande pianta che si stagliava tra l’oro dell’erba bruciata dal sole le diede sicurezza. Scavalcò le pietre ben note del muretto, attraversò la strada e scalò l’altro muretto dirimpetto, corse e si arrampicò sui rami più bassi di quell’albero amico per raggiungere i frutti con le mani.
Ve ne erano ancora in quantità. Certo era molto impegnativo stare arrampicata su quei rami e al contempo raccogliere i frutti che dispettosi erano sempre più lontani di quanto sembrassero. Dato che poi nella sua piccola mano non ne entravano che quattro o cinque, rinunciò ad aggrapparsi al tronco preferendo dedicare quella mano alla collezione del prezioso bottino nella gonna del suo vestitino.
Dopo qualche minuto aveva già ammassato un bel po’ di more morbide e mature, e poco importava che le sue mani, il suo vestito e la sua bocca si fossero sporcati di rosso. In quel momento era così impegnata e concentrata a non cadere che non si accorse che non era più da sola.
“Già che sei lassù me ne passeresti qualcuna anche a me? Sembrano molto buone quelle more, sai?”
Solène quasi sobbalzò dallo spavento. Con la solitudine se n’era andata via anche la sua tranquillità. E poi, da quando quello sconosciuto era lì e la stava osservando? Il sangue le si gelò nelle vene. Si guardò intorno. In quella vastità di campi solcata dalla strada non c’era altra anima viva oltre a lei, alle rumorose cicale e al viaggiatore barbuto con un grosso cappello marrone a tesa circolare.
Prese qualche frutto dal suo cestino improvvisato e lo passò all’uomo dabbasso.
“Ti ringrazio. Sono davvero buone! Sei agile! Ci sei arrivata da sola lassù?”
Solène annuì con la testa. Sperava solo che se ne andasse quanto prima. Invece sembrava che quello avesse voglia di parlare. Sapeva che non doveva parlare con gli sconosciuti, sua madre glielo ripeteva sempre; ma d’altronde anche non rispondere sarebbe stato da maleducati (altra cosa per cui veniva spesso rimbeccata). Quell’uomo sembrava così gentile, che male c’era a rispondere a qualche innocua domanda?
“Vivi qui vicino? Sei venuta qui da sola?”
Di nuovo fece cenno di sì con la testa.
“Quanti anni hai?”
Solène indicò restia il palmo con le cinque dita ben separate e lui parve gradire quella risposta più di tutte le altre, perché una strana luce gli balenò negli occhi da volpe.
“Vieni, ti aiuto a scendere”, l’uomo si avvicinò risoluto, porgendole a mano.
Questa volta Solène scosse la testa con forza. Quelle ultime parole avevano suonato come un ordine più che come un’offerta di aiuto. Purtroppo si rese conto che dove si trovava non era abbastanza in alto per essere al sicuro e che se quello avesse voluto, avrebbe potuto acciuffarla con facilità. Si allontanò camminando sul ramo e balzò giù, iniziando d’istinto a correre verso casa per cavarsi da quella situazione scomoda.
Ma non fu abbastanza veloce. Il suo istinto infantile le aveva detto giusto. L’uomo la inseguì e presto la raggiunse, afferrandola. Era un incubo ad occhi aperti. Solène si dimenava tra le sue braccia e un panico mai sperimentato prima si impossessò di lei.
“Stai calma, non voglio farti male”, disse quello cercando di calmarla e fermo attese che la naturale paura della bambina si acquietasse, “Voglio soltanto che mi segui, ma sai perché? Sai perché?”
Lo sconosciuto stette lì senza perdere la pazienza ripetendo quelle parole finché non riuscì a conquistare l’attenzione di Solène, che si sentì costretta a interagire con lui pur di far finire quell’incubo. Scosse la testa in segno di dissenso.
“Voglio farti vedere un posto, ci sono altri bambini come te che vogliono conoscerti. Vedrai, ti divertirai.”
Solène acconsentì a quel compromesso e l’uomo la condusse per mano lungo la strada. Sapeva che non poteva fare niente per fuggire da lì. Si voltò per guardarsi alle spalle. La strada era sempre deserta in quella torrida mattinata. E casa sua si faceva sempre più lontana. In cuor suo sperava solo che l’uomo fosse onesto e che quella faccenda si concludesse il prima possibile; sperava che se avesse fatto come diceva lui sarebbe presto potuta tornare a casa da sua madre e suo fratello.
Con l’innocente fiducia che questo scenario si sarebbe avverato, anche perché scenari diversi erano per lei inconcepibili, rifletté sul fatto che non avrebbe raccontato nulla di tutto ciò a sua madre. Non avrebbe avuto bisogno di altri rimproveri. D’altronde sapeva che se sua madre avesse scoperto una cosa del genere si sarebbe arrabbiata non poco con lei. La lezione l’aveva già imparata da sola. Non ci sarebbe stato motivo di riportare alla luce quell’episodio in futuro. Avrebbe abbracciato a lungo sua madre e non si sarebbe più allontanata da lei per nessuna ragione, anche a costo di annoiarsi per sempre.
Camminarono per tre chilometri e Solène iniziava ad essere stanca.
“Siamo quasi arrivati, guarda laggiù”, fece il tipo, che non aveva mai lasciato la salda presa sulla sua mano, indicandole un accampamento nelle vicinanze.
Vi erano tre grandi carri, sei cavalli che brucavano l’erba e un capannello di persone che chiacchieravano in circolo.
“Ne hai trovata un’altra?”, chiese una donna venendogli incontro agitata.
“Sì ho approfittato dell’occasione, ma dobbiamo andarcene in fretta”, rispose lui concitato, ignorando Solène che però ben intese quelle parole, “Prendi la bambina, io preparo i cavalli.”
La donna si chinò su Solène e le sorrise, “Come ti chiami, piccola?”
“Solène”, rispose con la voce tremante. Aveva pronunciato a fatica quella parola, un nodo le stava attorcigliando la gola.
La donna la prese in braccio e la strinse forte. Per quanto si trattasse di una sconosciuta quel contatto risvegliò ferocemente la nostalgia che aveva di sua madre, tanto che sfogò quel bisogno abbracciando quella donna con tutta la sua forza e, chiudendo gli occhi, si fece cullare dalla calda illusione che sotto le sue braccia ci fosse sua madre, che stesse andando tutto bene.
La donna cercò di consolarla, mentre camminava verso uno dei carri. Nel frattempo i presenti avevano sgomberato tutto e stavano attaccando i cavalli alle carrozze.
“Piccina, cerca di calmarti. Guarda, non sei da sola.”
Indicò l’interno del carro. Altri quattro bambini, più o meno della sua età, erano seduti lì dentro con volti tutt’altro che felici.
“Ora cerca di riposarti un po’, è stata una giornata faticosa e ci attende un lungo viaggio”, e detto questo lasciò Solène con gli altri bambini.
Quel distacco fu un duro colpo per Solène. Avrebbe preferito di gran lunga rimanere con quell’aguzzina, piuttosto che trovarsi tra chi, oltre ad avere la medesima età, condivideva con lei la medesima, triste sorte. Ora si sentiva ingannata e abbandonata e il futuro cominciava ad apparirle nebuloso. Si chiedeva solo quando sarebbe riuscita a tornare a casa. Allo straziante dolore che stava provando si aggiunse la consapevolezza che sua madre a quel punto sarebbe stata in pena non vedendola tornare, e l’idea di far soffrire sua madre la fece stare male ancora di più. 
Dopo qualche minuto il carro iniziò a muoversi ad andatura sostenuta. Ognuno di quei bambini era troppo chiuso nella propria disperazione e solitudine per curarsi di cosa stava accadendo intorno, e presto Solène divenne indistinguibile in quella schiera di afflitti.

  
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