Film > Luca
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    11/02/2024    0 recensioni
[Pre-Canon]
---
Valentina Milani è una ragazza come tante, una su un milione. Una inguaribile pigrona, golosa di pasta e gelato, solare e chiacchierona, anche se un po’ frivola, appassionata di meccanica e di motociclette, e affezionata ai suoi due migliori amici d’infanzia. Nata e vissuta nel piccolo paese di Portorosso, circondata dalle solite strade, le solite facce, il solito mare, le solite tradizioni, le solite leggende sui Mostri Marini, ha sempre sperato in una qualche novità in grado di stravolgere la sua vita e di strapparla a una quotidianità che ormai le calza sempre più stretta.
L’arrivo in paese di un giovane straniero potrebbe esaudire questo suo desiderio e cambiare per sempre non solo il corso della sua vita, ma anche l’intera visione del mondo che l’ha sempre circondata.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Portorosso'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

N.d.A.

Anno nuovo… e nuovo arco narrativo!

Trascorriamo assieme un 2024 ricco di emozioni e colpi di scena. ʚ(˃ ᵕ ˂ )ɞ


 

Dunque era vero – Atto I

 

 

Valentina strinse entrambi i pugni sul manico dell’ombrello, lo inclinò in avanti in modo che la sbieca raffica di pioggia rimbalzasse sul telo, invece che inondarle le spalle e la schiena, e accelerò la corsa controvento schiaffeggiando sotto le suole il torrente d’acqua che scivolava seguendo la pendenza della stradina in discesa. Fredde gocce grosse e dure come ghiaia le colpirono le caviglie, le sporcarono l’orlo della gonna sventolante, e finirono spremute all’interno degli stivaletti fradici – squish, squish, squish! –, facendola rabbrividire fino alle ossa.

Valentina ansimò, sfiancata dallo sforzo della corsa, rallentata dal bruciore dei polpacci e del petto, graffiata dalle unghiate di freddo che le grattavano la gola e il naso, e soffocata dalle bianche nuvolette di condensa che a ogni falcata sbuffava fra le labbra umide e tremanti. Senza smettere di correre, sbirciò da sotto l’ombrello gocciolante, socchiuse le palpebre per inquadrare il termine della stradina che conduceva al retro del Gabbiano d’Argento. Al di là del grigio e lucente velo di pioggia, la lampada appesa alla parete traballava come una fiaccola nella nebbia, illuminava il retro dell’osteria, la nicchia che racchiudeva la porticina attorniata dalle cassette dell’ortofrutta, dalle vecchie giare di olio e di vino, e da un paio di seggiole rotte buone solo come legna da ardere.

Anche le finestre dell’osteria brillavano della stessa fosca luce ambrata spanta dalla lanterna. L’angolino di una tenda sventolò, tornò ad appiattirsi sull’interno della finestra, e l’ombra che l’aveva mossa scomparve, raggiunse anch’essa il retro del locale. Angelo aprì la porticina, si tenne riparato sotto il portico, al di sopra dei gradini, e spalancò il braccio per far cenno a Valentina di spicciarsi, di accelerare la corsa. «Corri, corri, sbrigati!»

Valentina abbracciò la saggezza di quel consiglio e allungò falcate più rapide che pestarono zampilli d’acqua sulla pietra già bagnata. Strinse un ringhio fra i denti, stritolò le mani attorno all’impugnatura dell’ombrello e gonfiò i muscoli delle braccia per non sentirselo strappare dalla presa. Il vento le ululò una zaffata in faccia. La pioggia gocciolò dalle ciglia e dai capelli, le riempì le labbra di un aspro e freddo sapore di ferro, picchiò sulle dita e spanse abbondanti rigagnoli che gocciolarono fra le nocche e lungo il manico dell’ombrello.

Raggiunta l’osteria, scese i tre gradini che conducevano alla porta sul retro, abbassò l’ombrello gocciolante e lo richiuse non appena varcata la soglia, giusto in tempo per farsi avvolgere dall’asciugamano che Angelo le aveva immediatamente buttato sulle spalle.

«Vieni, vieni» le fece lui. «Entra, prima di beccarti un…»

«Etchù

«… accidenti.»

Dopo lo starnuto, Valentina tirò su un risucchio dal naso gocciolante, «Stupidissima pioggia», e si lasciò strofinare la schiena e i capelli dall’asciugamano con cui Angelo l’aveva circondata. Profumava di bucato, del sapone grezzo con cui lavavano anche i grembiuli e le tovaglie.

Un violento brivido le scosse le braccia, discese i pugni, e fece tremolare anche l’ombrello che Valentina stava ancora stringendo fra le dita bagnate. Scivolando dalla punta e gocciolando dagli orli della sua gonna, dalle suole degli stivaletti inzuppati, l’acqua piovana si raccolse in una pozza e si allargò attorno ai suoi piedi. Soffriggendo di frustrazione, Valentina gettò l’ombrello in un angolo dello sgabuzzino, contro le damigiane e i sacchi di farina. «Stupidissimo e inutilissimo ombrello!» Raccolse l’asciugamano dalle mani di Angelo e finì di strofinarsi da sola, frizionando per bene attorno al collo e dietro le orecchie.

Angelo compì un passo indietro e si portò le mani ai fianchi, piegò la testa e si concesse una manciata di secondi per studiare l’immagine di Valentina da sotto le sopracciglia increspate. «Ti sei fatta la strada a piedi da casa tua?» le domandò. «Con questo diluvio? Perché non sei venuta in bici? Saresti andata più veloce e ti saresti bevuta un po’ meno pioggia.»

Valentina si diede un’ultima energica strofinata ai capelli. Dopo un ennesimo starnuto con successivo risucchio di fiato dal naso, il suo faccino rosso di freddo sbucò da sotto l’angolo dell’asciugamano ancora penzolante sulla sua testa. «E come faccio a tenere l’ombrello, andando in bici?»

Angelo strinse le spalle. «Giusto anche questo.» Tenne accesa la luce del piccolo corridoio e, reggendole la schiena ingobbita dai tremiti, guidò Valentina fuori dal retro.

Raggiunsero entrambi il tepore della cucina che precedeva la sala da pranzo. Non c’era nessuno, oltre che il profumo del latte e del caffè che avevano scaldato per colazione, più una pentola a pressione che stava ribollendo e gorgogliando sui fornelli, spandendo un buon odore di zuppa all’orzo e verdure che avrebbero servito per pranzo assieme ai crostini di pane. Sul tavolo della cucina, era preparato il ripiano di legno su cui Angelo aveva già cominciato a mescolare farina e pan grattato per preparare la panatura con cui avrebbe rivestito le sogliole al burro da cuocere in padella.

«Finisci di asciugarti, prima di metterti al lavoro.» Angelo si riallacciò il grembiule in vita, arrotolò le maniche fino ai gomiti. «Per ora non c’è bisogno di aiuto in cucina, quindi puoi cominciare con le camere, e poi dà una pulita ai tavoli prima di mezzogiorno, dato che… ah! No, aspetta.» Indicò uno degli armadietti, il cassetto più basso. «Tira fuori un paio di zerbini, quelli infilati nel cassetto della dispensa sotto le tovaglie, e mettili in ingresso.» Spinse le spalle all’indietro, buttò un’occhiata all’anticamera, e si grattò dietro l’orecchio stropicciando una smorfia perplessa. «Non oso immaginare il macello che verrà fuori quando tutti rientreranno per il pranzo.»

Valentina fece ciondolare il capo in avanti e assecondò quel brontolio di demoralizzazione. «Non oso nemmeno io.» Ma osava eccome. E, osando immaginarlo, nella sua testa si susseguirono una carrellata di immagini ritraenti quel pantano di fango e pioggia schiaffeggiato dagli scarponi dei braccianti, dagli stivali dei pescatori che sarebbero entrati in osteria slacciandosi i pastrani gocciolanti e sfilandosi i berretti fradici per bersi un cicchetto dopo il lavoro. Bagnati tutti come se fossero cascati dalla barca. Tutta l’acqua da asciugare, sulle seggiole e sui pavimenti, per non parlare delle impronte fangose che li avrebbero seguiti salendo fino alle camere.

E chissà quante altre volte succederà, dato che la stagione delle piogge è appena cominciata.

Sforzandosi di non suonare troppo lagnosa di mattina buon’ora, Valentina si sfilò l’asciugamano di dosso, strinse il fiocchetto senza riuscire comunque a mettere in ordine i capelli così umidi e arruffati, diede una scrollata alla gonna, e andò ad affacciarsi alla finestra che dava sulla stradina inondata. Il suo pallido broncio si specchiò sul vetro annacquato. «Non è giusto» sbuffò, fiatando sulla finestra un velo di condensa che successivamente pulì con una manata. Dietro quel gesto, Portorosso in tutta la sua grigia desolazione. Un mantello d’autunno era già scivolato sui tetti del paese, basso e fuligginoso come una cappa di nebbia. Le sue lacrime di pioggia scurivano le facciate delle case e velavano le alture delle viti terrazzate di cui quella mattina non si scorgevano le cime. Il respiro di brina faceva rabbrividire gli alberi, scuoteva le prime foglie secche spogliando i rami degli alberi, spandeva odori di fumo, di cenere, di terra bagnata e indurita, che sopprimevano quelli più dolci di un’estate che ormai era già un ricordo. «Perché non può essere estate tutto l’anno?» Valentina si allontanò dalla finestra. Combattendo il malumore, si rimboccò anche lei le maniche e si mise al lavoro. Tornò in cucina, si inginocchiò per frugare nei cassetti in cerca degli zerbini asciutti. «Ha cominciato a piovere solo una settimana fa e io sono già stufa.»

Angelo scosse la testa. «Ne avrai ancora un bel po’ da lagnarti.» Aggiunse dell’altra farina nella ciotola dove la stava mescolando assieme al pan grattato. Ci spolverò sopra anche una generosa dose di sale. «Alla radio dicono che andrà avanti così fino a fine mese. Bisogna aspettare che cambi la Luna, lo sai. Ha cominciato a piovere quando c’era la Luna piena, quindi è ovvio che adesso continuerà fino a quella nuova.»

«Oh, uffa.»

«Altro che uffa.» Strofinandosi una grattata sul mento – uno sbuffo di farina rimase a imbiancargli la barba – Angelo rivolse uno sguardo più grave fuori dalla finestra. Uno sguardo che si tese ben oltre i gradini che risalivano il carruggio, ben oltre le grate delle terrazze deserte e i tetti delle case arrampicate sul colle. «Anche alla buon’ora, direi. Hai visto che disastro, le vigne? Ormai quest’annata ce la siamo giocata, da’ retta a me.»

Valentina rise, cogliendo certamente una scintilla di ironia, e pestò il piedino sul tappeto appena deposto per appiattirne le curve e le grinze. «E meno male che gli stagionali si sono fermati apposta qualche settimana in più per darci una mano con la vendemmia.»

«E a proposito di questo, Tina…» Dopo essersi ripulito dalla farina rigirando le mani sul grembiule, Angelo guidò Valentina fino a un cantuccio della cucina, le porse un fazzoletto dentro cui infagottò dei biscotti, poi usò un ramaiolo per versare il caffellatte avanzato in una tazza che coprì con un piattino capovolto. «Fammi un favore, prima di cominciare le faccende…» Le fece chiudere le mani attorno alla tazza per evitare che si rovesciasse. «Porta questo a Bruno nella sua camera.»

Il pensiero di Bruno di primo mattino, da dolce e burroso proprio come il profumo dei biscotti infagottati, «Di sopra?», diventò amaro e stomachevole come quello del caffè cattivo, lasciato ristagnare nei suoi fondi neri e sabbiosi. «Ma, aspetta, Bruno non…» Non è uscito per il lavoro? Di nuovo? «È ancora malato?» Le scivolò addosso un brivido. Un cupo e fitto moto di apprensione che era più freddo e sgradevole di tutta la pioggia che Valentina aveva dovuto attraversare per correre fino all’osteria.

Angelo annuì, si strofinò una nocca sotto i baffi e soffiò uno sbuffo che gli infittì un’ombra attorno alle grinze delle palpebre. «Un malanno stagionale, sembrerebbe.» Si mise a braccia conserte, guardò verso l’alto, verso il soffitto che li separava dalle camere da letto, e tambureggiò un piede a terra. «Gli avevamo proposto di far venire il medico, di farsi visitare, ma si è rifiutato. Dice che è normale. Che gli passerà. Che gli succede sempre con l’arrivo del freddo e della pioggia. È sensibile ai cambi di stagione, a quanto pare.»

Valentina rabbrividì, nonostante il tepore della tazza avvolta fra le mani. «Oh…» Volse anche lei lo sguardo verso l’alto. Gli occhi umettati da una tristezza grigia e inconsolabile come il cielo che stava lacrimando fuori dalle finestre. Era da una settimana che Bruno si era ammalato, da quando erano cominciati i giorni di pioggia. Una settimana trascorsa potendosi vedere e salutare solo sulla soglia della camera. Una settimana in cui Valentina si era sentita ancora più prigioniera di lui, tarpata dietro un muro che le impediva di raggiungerlo, di abbracciarlo forte, di carezzargli quel suo viso ruvido, bruciato da sole e dall’aria di mare, sollevandogli le guance che era sicura sarebbe riuscita a far arrossire, a far sorridere come quando si divertiva a fargli il solletico al naso, a giocherellare con i suoi riccioli. Per farlo sentire meglio, gli avrebbe fatto poggiare il capo sul grembo, o sul petto. Lo avrebbe ricoperto di baci per lenire tutto quel dolore che lo tormentava e da cui lei avrebbe voluto liberarlo. Bruno…

Angelo sollevò un sopracciglio cisposo, intercettò quel baluginio di dolore luccicato in fondo allo sguardo di Valentina. Sospirando, le aprì una mano sulla schiena e la incoraggiò a prendere le scale. «Vai, vai, va’ da lui…» Un minuscolo sorrisino d’intesa. «Magari sono altre le visite di cui Bruno ha bisogno per rimettersi in sesto.»

Valentina sorrise, assecondò ben volentieri l’incoraggiamento. Attraversò la sala da pranzo che aveva cominciato a popolarsi – solo un paio di clienti, facce anonime chine sulle loro tazze e sui piattini di pane imburrato –, reggendo la colazione fra le mani e guardando verso le scale che la separavano da Bruno. Salendo il primo gradino, lo sguardo sempre fisso sull’oscurità che la attendeva al termine delle scale, sentì cadere su di sé il freddo peso della loro lontananza, di tutta quella pioggia che li divideva e che, dietro la sua nebbia, sembrava nascondere segreti inconfessabili. Camminò ancora, lo scricchiolio delle scale e il tintinnante traballare della tazza ad accompagnare ogni suo passo, e venne punta da un altro brivido, questa volta sulla nuca, penetrante come un ago. Lo riconobbe. Era quella vocina interiore che lei tante volte decideva di ignorare e che invece adesso le bisbigliava all’orecchio di voltarsi, di scendere le scale e di allontanarsi dal pericolo che la attendeva al piano di sopra, dietro una porticina che – guai a lei! – le conveniva non aprire.

 

♡♡♡

 

«Bruno?» Tina dovette destreggiarsi per non far cadere la colazione. Fece scivolare la tazza coperta nella stessa mano con cui reggeva il fagotto di biscotti, e usò quella libera per bussare alla porta di Bruno. Ma fece piano. Soffici tocchi di nocche, senza troppa insistenza, nel caso lui fosse stato ancora a letto a riposare. «Bruno, sei sveglio? Ti ho portato un po’ di colazione.»

Dietro la porta, un fruscio delle lenzuola e lo scricchiolare di molle che cigolavano, forse perché Bruno si era scostato la coperta di dosso e si era alzato dal letto. «A…» L’inconfondibile asprezza della sua voce ovattata dalle pareti della camera da letto. «Arrivo.» I suoi passi strusciarono fino alla porta. La maniglia scattò e l’anta stridette aprendo uno spiraglio.

In quella fioca striscia di luce si allungò l’ombra di Bruno, si materializzò la sua sagoma sottile, la camicia abbottonata male che cadeva larga attorno alle spalle ricurve, i riccioli scompigliati a incorniciare il grigio pallore del viso in cui erano incastonati un paio di occhi foschi e cerchiati di nero. Occhi polverosi che sembravano aver assorbito tutta la pioggia che batteva sul vetro della sua camera. Occhi che comunque, anche se solo per un istante, si ravvivarono nell’incontrare lo sguardo di Valentina, il suo viso amico nella penombra. Le sottili labbra di Bruno, screpolate dallo stesso malessere che gli aveva sciupato le guance, vibrarono e si curvarono in un sorriso piccino ma dolce. «Tina.»

Valentina ricambiò il sorriso, e fu un gesto che la colmò di pace, che scacciò l’ombra di ogni timore e la voce di qualsiasi brutto presentimento. Si diede della sciocca per essersi fatta raggiungere in primo luogo da quell’antipatico sibilo di paura. Cosa ci sarebbe stato da temere nei confronti di Bruno, poi? «Sei vivo, allora.» Gli porse il fazzoletto con i biscotti, la tazza bollente coperta dal piattino. «Angelo mi ha detto di portarti questa. È un po’ di colazione, così ti tieni in forze.»

Bruno stirò la fronte, socchiuse gli occhi come se fosse rimasto accecato da un lampo improvviso. «Ah.» Usò le nocche per stropicciarsi le palpebre. «Certo» mormorò. «Grazie.» Raccolse la colazione dalle mani di Valentina, si girò tenendosi stretto nelle spalle che, così larghe e ossute, gli davano rifugio, e tornò a infilarsi nella semioscurità della camera da letto attenuata solo dal tiepido riverbero della lampada a olio la cui fiamma traballava sul suo comodino. «Ringrazia anche Angelo da parte mia.» Poggiò tutto sul ripiano. Si infilò il maglione pesante sopra la camicia e sistemò le coperte che erano scivolate verso il pavimento. «Mi dispiace non poter nemmeno scendere per la cena, ma…» Si attraversò la faccia con un massaggio sprimacciato prima alla radice del naso e poi, a piccoli movimenti circolari, sul gonfiore delle palpebre. «Be’, temo di non essere in gran forma, ultimamente.» Rivolse uno sguardo amareggiato, pieno di risentimento, alla finestra inondata da quel grigio torrente senza fine. «Tutta questa pioggia…»

Valentina annuì, intrecciò le dita e grattò le pellicine attorno alle unghie per tenersi indaffarata con le mani ancora calde dopo essere state avvolte attorno alla tazza bollente. «Sarà sicuramente un malanno di stagione.»

«Sì» soffiò Bruno. «Mi capita spesso. Sono…» Sgranchì un pugno, lo accostò alla bocca e si girò per tossicchiare, «Sensibile all’umidità», lasciandosi scomparire dietro la disordinata caduta dei riccioli.

Valentina sorvolò quella sensazione che le era passata attraverso, simile al bisbiglio che l’aveva raggiunta durante la salita delle scale. Quel freddo spiffero di disagio trasmesso dal gesto di Bruno, quel suo rifugiarsi stando di schiena, come se lo avesse fatto per nasconderle qualcosa. «E se venisse il dottore a visitarti?» Si addentrò nella camera da letto. Profumava di cedro, di cera per legno, dell’olio che bruciava nella lampada, delle sfere di naftalina infilate nei cassetti del guardaroba. «Potrebbe darti qualcosa. Uno sciroppo o…»

«Non cambierebbe molto» la smontò Bruno. «Non sono tipo da…» Strinse le spalle, creandosi attorno un guscio ancora più rigido, e si grattò il braccio su cui ciondolava la manica del maglione. «Un tipo da medicine.» Volgendosi di nuovo alla finestra coperta a metà dalla saracinesca abbassata – il rumore della pioggia grandinava facendone vibrare i riflessi acquosi e ondeggianti –, il suo sguardo si distese in una fioca espressione speranzosa. «Speriamo solo che torni fuori un po’ di sole.»

Valentina si morse il labbro. Proprio non avrebbe voluto dargli quella delusione. «Dicono che pioverà per tutto il mese.»

«Già.» Bruno lasciò cadere la fronte sul vetro, schiacciato dal peso di una disgrazia grande quanto la sua stessa esistenza. La pioggia che rigava la finestra si riflesse nelle profondità dei suoi occhi grigi, fece scivolare una colata di ombre lungo le guance, dando l’impressione che il cielo gli stesse piangendo addosso. «Fra tutti i guai che potevano succedermi…» Un lungo sospiro gli ammosciò le spalle. «E proprio adesso che c’è da lavorare per la vendemmia e l’imbottigliamento del vino.»

Valentina si stupì di sentirglielo dire. «Non ti preoccupare per quello.» Scostò la seggiola vicino al guardaroba, l’unico mobile che occupava la stanza, oltre al letto e al comodino. La giacca di Bruno era appesa con un appendiabiti di ferro a una delle ante, e Valentina si sforzò di non guardarla per schivare la raffica di pensieri che le suscitava. Si fece invece più vicina a Bruno, sospinta dalla scossa che le aveva trasmesso quella paura, la peggiore. Il timore di saperlo lontano. «In fondo è solo lavoro. La salute è più importante del lavoro. E gli altri capiranno se non puoi uscire ad aiutarli.»

«Ma se io non lavoro non posso nemmeno tenermi in salute.» Bruno si lasciò scivolare lontano dalla finestra, dal suo liquido bagliore grigio. «Se non lavoro non vengo pagato. E se non vengo pagato…» Sedette sul letto facendo cigolare il materasso sotto il suo peso. Le mani sprimacciarono il cuscino contro l’arco della testiera, lisciarono le lenzuola sgualcite, la coperta di lana a quadri. Si guardò attorno – le pareti spoglie, eccezion fatta per il quadro di una Madonnina che teneva le mani giunte – con quella faccia che sapeva già di addio, il muso di un cane randagio che si ritrova di nuovo a vagare per strada, ad annusare le ombre dei vicoli in cerca di riparo. Guardò anche la tazza di caffellatte e il fagotto di biscotti. Nei suoi occhi, l’abisso di fame appartenente a un ragazzo che sapeva che presto quel cibo avrebbe potuto non essere così generoso. «Non passerà molto tempo prima che mi caccino.»

Valentina ingoiò l’acre sapore di una botta di panico che le aveva asciugato la bocca e raggelato le guance. La colse una vertigine, il vuoto senso di perdita che provava nell’immaginare la sua vita senza più Bruno affianco. «Ti aiuterei io.» Andò a sedersi anche lei sul letto, nonostante Bruno stesse ancora tenendo lo sguardo voltato. «Posso aiutarti io, finché non ti sarai rimesso in sesto e sarai di nuovo in grado di lavorare. Sono abbastanza parsimoniosa, sai? Ho dei…»

«Non potrei mai chiederti una cosa simile» la interruppe lui. Il tono cupo e intransigente, come nell’atto di difendersi da un’offesa neanche troppo velata. «Non sarei mai in grado di accettare.»

«E se tu venissi a stare da me?»

Bruno accostò una mano alla bocca, soffiò una risata che gli gonfiò le guance e gli ridonò il buonumore. «Da te?» Allontanò i riccioli ciondolati sulla fronte, e finalmente portò gli occhi alla luce, carezzato di profilo dal tepore della lampada che gli imbruniva i tratti del viso, rendendo il suo sguardo più caldo. «Mi raccoglieresti come un gattino randagio…» Sfiorò la guancia di Valentina, le scostò una ciocca dietro l’orecchio. «E mi faresti dormire su un cuscino ai piedi del tuo letto?»

Valentina socchiuse le ciglia, rabbrividì di piacere quando il tocco di Bruno le carezzò l’arco dell’orecchio, spandendo una tiepida scia lungo il collo. Stirò le labbra in un sorriso ebbro e inebetito. «Lo farei di sicuro. Anche se…» Si accostò di più a lui, al suo tocco, come un assetato si tenderebbe verso il fresco getto di una fontana. Le spalle unite, le mani vicine sulla coperta di lana, la sua voce sussurrata attraverso lo scrosciare dell’acqua che batteva sulla finestra. «Non saresti costretto a startene sotto il letto.» E proprio ora si trovavano sul letto della camera di Bruno dove si erano appartati tante volte durante l’estate. Percependo la vicinanza dei loro corpi, il calore della mano che sfiorava la sua, la scia di brividi a ribollire sulla pelle come il bruciore del sole, Valentina riconobbe lo sprigionarsi di quel desiderio che le galoppava nel cuore, quella voglia matta che, nonostante i baci e le carezze, rimaneva sempre insoddisfatta, come un buco nello stomaco che nemmeno cento gelati o mille piatti di pasta riuscivano a saziare.

Stringendo i denti sul labbro inferiore che fremeva di desiderio, affamato di baci, Valentina adagiò la tempia sulla spalla di Bruno, dove il suo profumo nascosto era più intenso, così vicino alla sottile e nuda curva del collo. La mano scivolò sulla sua, divaricò le dita per intrecciarle, sfregò sul ruvido delle nocche nodose e ossute.

Bruno respirò a fondo, raccolse e si avvolse di tutta quella tensione che gli impietrì la schiena. Strizzò i pugni sulla coperta e raggiunse Valentina posandole la fronte sui capelli. Il calore delle sue labbra accostato alla guancia. Il respiro che, scivolando dietro l’arco dell’orecchio, bruciava fino alla base del collo.

Valentina arricciò la bocca che teneva ancora morsicata, ingoiò un mugugno che cadde nel petto e che le accese le guance di rosso. Fece scivolare la mano sul polso di Bruno, risalì il braccio, la stoffa ruvida del maglione, la spigolosità della spalla, sprofondò sotto i riccioli e gli avvolse il tepore del collo, infilandosi nel rifugio di quel profumo che ora riusciva a riconoscere, che la dissetava come un sorso di limonata in un giorno di agosto, come un tuffo nel mare nel pomeriggio più assolato. Le labbra posate sull’angolo della sua bocca, solo uno spazio minuscolo a separarle, la vicinanza di un battito, di un respiro.

Bruno socchiuse la bocca che, tremando, si abbeverò di quel respiro, per poi tornare a girarsi, ad allontanarsi da Valentina sottraendosi al tocco di quella carezza che era quasi riuscita a sbriciolare la corazza. «S-scusa» gemette. «Forse…» Strusciò a sedere più lontano, fino all’angolino del letto, proprio davanti al traballare della lampada che accentuava le ombre intagliate sulle spigolosità del suo viso e sui misteri del suo sguardo. Strinse le gambe. Sollevò la spallina del maglione per nascondere l’invitante sporgenza del collo, la sua pelle modellata nel bronzo. «Forse non dovremmo. Rischio di contagiarti, sai, e non vorrei…»

«Oh.» Valentina si riprese dal rossore schiaffeggiandosi le guance che sentiva pulsare e racchiudere il martellio del cuore saltato in bocca. Si rimise composta, sventolò il nastrino lontano dalla fronte, lisciò la camicetta dell’abito facendo cadere la chiavetta sui bottoni che nemmeno il Buon Senso sarebbe stato capace di tenere chiusi a lungo, e si rimproverò per essere stata così insensibile. «Certo.» Il cigolio del letto che molleggiava sotto il suo peso ora la mise in imbarazzo. «Scusami, non volevo forzarti. È solo…»

«Va tutto bene.» Bruno si prese la fronte, sfregò le mani sotto i capelli per massaggiarsi le tempie. «Non hai nulla da scusarti, lo giuro.» La guardò con quegli occhi dolci e tristi che, per quanto poveri, sarebbero stati capaci di regalarle il mondo intero. «Manchi anche a me, sai, Tina.»

Zampilli di gioia cinguettarono dal cuore di Valentina, le colmarono il petto di un’aura dorata che sembrò asciugare tutta la pioggia come se un nuovo sole estivo fosse sorto a irradiare il cielo di Portorosso. «E a me manchi ancora di più.» Si allungò ad abbracciarlo, e da quell’abbraccio sbocciò un bacio che lei gli posò sulla guancia e che Bruno toccò subito, forse per conservarne il calore. «Ora mangia qualcosa e poi fai ancora un po’ di nanna» disse Valentina. «Devi guarire presto.» Doveva guarire presto perché il profumo dei suoi capelli non era più quello del vento soleggiato, della salsedine e dei campi di lavanda e rosmarino, della terra aperta alla luce. Avevano l’odore del cuscino, delle lenzuola pesanti appena cambiate, dei pasti stantii che Bruno consumava lì in camera, senza nemmeno scendere in sala da pranzo. Il profumo era sbiadito dalla sua pelle come la luce era sbiadita dai suoi occhi. «Così puoi tornare a lavorare e guadagnare tanti soldi e comprarmi un castello fatto di panna e gelato.»

Sospirando, apparendo ancora più fragile fra le forti braccia di Valentina, Bruno fece scivolare il viso sulla sua spalla, adagiò la guancia nell’incavo del collo, accolse l’affetto di quelle carezze lasciando che si portassero via tutto il buio, tutto il dolore che gli schiacciava il petto. «E i coni di cialda al posto delle torri.»

«Geniale.» Di controvoglia, Valentina dovette sciogliere l’abbraccio, privarsi di quel calore, e tornare alla porta. Sulla soglia, prima di addentrarsi nel corridoio, sventolò un ultimo saluto già pregno di nostalgia. «Ciao, Bruno.»

Anche lui la salutò con la mano. Il riflesso della pioggia a cadere dalla finestra e ad annacquare la sua sottile figura ingobbita sul bordo del letto dove vi sarebbe rimasto per chissà ancora quanto.

Valentina scese le scale, tornò al lavoro rallegrata dal canto del cuore che pigolò ancora qualche cinguettio di gioia prima di appassire, avvizzito come un fiorellino inondato dalla prima tempesta autunnale. Le rimase addosso quel cruccio di cui si faceva inevitabilmente peso ogni volta in cui era costretta a separarsi da Bruno, a lasciarlo in balia di quell’oscura solitudine che nemmeno il suo affetto era in grado di lenire e consolare.

 

♡♡♡

 

Fine della giornata di lavoro, fine delle faccende e delle pulizie, ma ancora niente fine della pioggia che continuava imperterrita a scrosciare sui tetti di Portorosso e a innaffiare le finestre dell’osteria, abbondante come se il mare stesso fosse sorto dal bacino del porto e si fosse rovesciato sulle stradine del paese con la stessa prepotenza di un’alta marea. Portava con sé il freddo odore del ferro delle grondaie, del fumo dei comignoli accesi, e della salsedine di cui erano imbevute le pareti delle case.

Valentina spazzò via le briciole di pane dal tavolo della sala da pranzo che aveva appena finito di sparecchiare. Strizzò fra i pugni lo straccio umido e lo strofinò sulle chiazze di vino che stavano già cominciando ad asciugarsi. Doveva sbrigarsi a pulirle prima che diventassero troppo appiccicose.

Senza smettere di grattare il panno sul tavolo, guidata da un desiderio che le aveva dato il prurito per tutta la giornata, fece scivolare lo sguardo alle sue spalle, verso le scale che portavano al piano di sopra. Sospirando, Valentina abbracciò la speranza di vedere Bruno scendere i gradini in quel preciso istante, circondato da un’aura di luce e benessere tanto splendente da abbagliare gli ospiti che ancora occupavano la sala da pranzo, invece che saperlo soffocato da quella nube di tenebra che lo teneva prigioniero da quando si era ammalato.

Due pescatori seduti allo stesso tavolo all’angolo si riempirono un altro bicchiere di vino a testa, facendo squillare il vetro e lasciando zampillare qualche goccia color prugna sulla superficie di legno laccato. Chiacchieravano fra un sorso e l’altro, incuranti del baccano che la pioggia battente mitragliava sui vetri delle finestre. «… non me ne parlare, ieri ci ho litigato tutto il giorno e solo a ripensarci mi viene il mal di testa. Ma sai com’è quando s’impunta, non c’è stato verso di fargli cambiare idea. Si è già sistemato, a quanto pare. Ha fatto tutto da solo. Bah», «E tua moglie cos’ha detto? Ci è rimasta male?», «E come vuoi che ci sia rimasta? Dopo vent’anni che…» Seduto da solo al tavolo affianco, il vecchio Sergio strinse fra le dita tremanti il suo bicchierino di grappa, ne buttò giù un sorso che gli fece tremare il mento e strizzare le rughe graffiate attorno alle palpebre. Volse alla finestra lo sguardo umido e vacillante. Occhi abbacinati, giallognoli e collosi, che assorbirono il caldo tremolare delle luci riflesse sull’oscurità del vetro inondato dal torrente d’acqua che ogni tanto faceva brontolare il cielo, mescolando le crepe delle sue nuvole tanto basse da inghiottire i profili delle case adiacenti.

Valentina sistemò le seggiole attorno al tavolo che aveva appena finito di pulire. Si spostò su quello più vicino, impilò i piatti sporchi che avevano lasciato gli ospiti, li dispose sul vassoio assieme alle posate e alla cesta del pane vuota, e anche lì cominciò a strofinare il panno umido, insistendo su una macchia di sugo di pomodoro che faceva un po’ di attrito ogni volta che ci passava lo straccio sopra. Un altro sospiro le appesantì il cuore e le ingrigì le guance. I suoi occhi tristi e scuri come il cielo fuori dalle finestre. Continuò a fissare le scale, a proiettarsi al piano di sopra, a desiderare di tornare da Bruno per poterlo abbracciare, magari donandogli del sollievo facendogli posare il capo sul grembo e carezzargli i riccioli fra un bacio e l’altro.

Magari potrei anche portargli un piatto di minestra. Quella lo farebbe sentire meglio di sicuro.

Angelo passò affianco a Valentina grattando la scopa sul pavimento e spingendo polvere e briciole dentro la pattumiera che reggeva sottobraccio. Le parlò senza accorgersi del suo sguardo assente e distratto. «… qui in sala da pranzo e poi puoi anche andare a casa. Secondo me però ti conviene aspettare che finisca di piovere almeno un po’, altrimenti rischi di arrivare a casa fradicia. Oggi non sei venuta in bici, no? Se vuoi…»

Ma Valentina non lo stava a sentire. Un unico pensiero a occuparle la testa e a isolarla da qualsiasi altra voce. Forse potrei davvero tornare su da lui, sì. Perché era solo il pensiero di Bruno a parlarle. Solo il ricordo di quegli occhi tormentati che aveva scorto in lui quella stessa mattina, quando era salita a portargli la colazione. Davvero gli occhi umidi e addolorati di un piccolo ammalato, ma non solo. Scavando nel loro profondo, osservandoli mentre fuggivano alla vista della pioggia battente e della finestra inondata dall’acquazzone, Valentina vi aveva letto qualcos’altro. Un timore, o forse un presagio, che le aveva trasmesso un brivido più freddo e viscido di tutte le gocce di pioggia che le erano cadute addosso durante la corsa per raggiungere la porta dell’osteria. Lo stesso brivido che si prova davanti alla furia di una burrasca, durante quell’attimo sospeso in cui il mare si ritira per gonfiare un’onda che poi andrà a schiantarsi sugli scogli, risucchiando chiunque possa venire travolto dalla sua sberla.

Sospirando e inghiottendo il dolore di quel vuoto, Valentina provò proprio qualcosa di simile: la sensazione che Bruno stesse per venire strappato dalle sue mani, rubato dalla forza di un’onda anomala, dalla ferocia del mare di cui lui aveva tanta paura.

«… ma non ci sarà troppo lavoro, quindi se vuoi puoi anche prenderti la mattinata libe – Tina?» Angelo diede un’ultima spazzata a terra, si appoggiò sul manico della scopa, e flesse il capo per raggiungere lo sguardo sfuggente di Valentina. «Mi ascolti, sì o no?»

Valentina ansimò. «Che…» Lo straccio le cadde dalle mani, si afflosciò sul punto del tavolo ripulito dalla chiazza di pomodoro ormai scomparsa. Valentina scosse il capo e si stropicciò gli occhi stanchi, affaticati dalla nebbia di quella giornata bigia e dal peso di tutti quei pensieri brontoloni. «Che cosa?» Schiuse le palpebre appannate e tornò sotto le luci tiepide dei lampadari ancora accesi, avvolta dal profumo pepato degli ultimi piatti di pesce impanato che lei stessa aveva servito per cena. Davanti a lei, il profilo di Angelo la stava ancora squadrando di sbieco, con sospetto e apprensione. «S-scusa, Angelo, non…» Andava tutto bene, era al sicuro. Si trovava al Gabbiano, all’asciutto e al caldo, non in mezzo a una tempesta di mare, a subire le frustate di vento e gli schiaffi delle onde. Andava tutto bene. «Non ti ho sentito.»

Angelo sospirò, senza stupirsene più di tanto. «Ti ho chiesto se volevi fermarti qua ancora per un po’ prima di tornare a casa.» Raccolse scopa e pattumiera e accennò al tempaccio fuori dalle finestre. «Aspetta almeno che piova un po’ di meno, sennò con questo acquazzone rischi di ammalarti pure tu.»

«Ah.» Valentina si grattò una tempia, sperando con quel gesto di diradare il groviglio di pensieri. «Sì, forse…» Sollevò un sorriso stentato, freddo e nebbioso come il suo sguardo. «Forse è una buona idea.»

Angelo annuì. «In cucina è avanzato un po’ del latte e cacao che ho preparato stamattina. Te ne scaldo una tazza, vuoi?»

Valentina sospirò. «Grazie.» E in effetti qualcosa di dolce era proprio quello che ci voleva per superare l’amaro incontro di quella mattina con Bruno. Qualcosa di caldo per sciogliere i brividi di freddo che non avevano mai smesso di formicolare sotto i vestiti, viscidi e pungenti come le gocce di pioggia che tambureggiavano sui tetti e le finestre di tutto il paese.

Dopo aver ripiegato lo straccio, dopo aver riportato vassoio e bicchieri in cucina, dopo essersi slacciata il grembiule e dopo aver accettato la tazza di cioccolata calda dalle mani di Angelo, Valentina andò a sedersi in sala da pranzo. Scelse il tavolo sistemato nell’angolino di solito occupato da Bruno, quello illuminato dal paralume a forma di conchiglia, quello circondato dai quadretti di pesca appesi alla parete. La finestra affacciata ai gradini del carruggio dove di solito i gattini del porto si radunavano in attesa che qualcuno offrisse loro gli avanzi del pranzo o qualche lisca di pesce. Ma nemmeno un gattino nei paraggi, quella sera. La pioggia li teneva lontani. Tutta quella pioggia che, colando sulla finestra e facendo ondeggiare il suo riflesso bluastro sulle pareti della sala, sembrava gocciolare anche dalla tempera dei quadri. Lo scrosciare dell’acquazzone si mescolava all’interno delle cornici, scuoteva i cieli annuvolati, crepitava sulle creste delle onde sfumate di bianco e di grigio, gonfiava le pennellate di colore che schizzavano fuori dai dipinti, si rovesciava sulle barche e sui pescatori che le navigavano, bagnava le loro facce contorte dall’orrore, dalla visione di quel mare nero e spalancato come la bocca di un mostro abissale.

Valentina rigirò la tazza fra le mani infreddolite e arrossate dai calli del lavoro. Stropicciò le dita scottate dal calore della ceramica, tornò a raccogliere la tazza per il manico, e soffiò sulla superficie della cioccolata, sparpagliando la nuvoletta di vapore che le inumidì le guance e il naso. Bevve un sorso, fece schioccare la lingua, arricciò la bocca in una smorfia delusa. Per quanto calda fosse, la cioccolata non era né dolce né buona quanto sperava.

Forse perché manca qualcosa di fondamentale…

Sospirò e posò la tazza. Stringendosi le spalle in un abbraccio solitario, sopprimendo un brivido, si accorse di quanto il suo cuore soffrisse la mancanza di Bruno. Le mancava il suo profumo, le mancava posare la guancia sul suo petto e farsi carezzare i capelli da quelle mani sottili e ruvide. Le mancava il brivido di anticipazione che la elettrizzava ogni sera, prima della chiusura dell’osteria, quando i pescatori cominciavano a posare i bicchieri, a raccogliere giacche e berretti per raggiungere la porta, quando Valentina sapeva che in sala sarebbero rimasti solo lei, e Bruno, e le chiacchiere e i sorrisi che si sarebbero rivolti sedendosi a quello stesso tavolo, fra quelle stesse pareti che ora non riuscivano a trattenere nemmeno un raggio di luce.

Le mancava il profumo del caffè zuccherato. Le mancava la musica del grammofono, il singhiozzare dei dischi più vecchi e consumati. Le mancava quell’espressione d’estasi che ogni tanto si dipingeva sul viso di Bruno quando le sue orecchie si tendevano verso le canzoni più tragiche e malinconiche. Quel modo che Bruno aveva di chiudere gli occhi, di flettere le sopracciglia verso l’alto, e di trattenere il respiro come se una mano fosse sprofondata a stringergli il cuore, come se quella musica avesse racchiuso il potere di trascinarlo in una corrente di ricordi simile al calore di un abbraccio.

Anche Valentina chiuse gli occhi, inspirò il profumo tostato della cioccolata calda, più dolce rispetto a quello del caffè. Ripensando con nostalgia a quelle serate estive, canticchiò a bocca chiusa la melodia di O mio babbino caro, quella che era rimasta la loro canzone, sua e di Bruno. Si sentì diventare triste ed estraniata come lo era diventato Bruno la prima sera in cui l’avevano ascoltata assieme, e il ricordo fu così forte e penetrante da farle male al cuore.

«Rischi di ammalarti pure tu.»

Nel sentirsi rivolgere la parola, Valentina riaprì gli occhi, cadde dai ricordi, e venne accolta dalla luce bassa e tiepida delle pareti, dal battere incessante della pioggia sulla finestra, e dal profumo di pomodoro e brodo di pesce che fumava dagli ultimi piatti della cena serviti da dietro il bancone della cucina. Si girò interrogando con lo sguardo il pescatore che le aveva appena parlato, che aveva ripetuto la stessa frase di Angelo, anche se pronunciandola con un tono ben più acido e ostile.

Il pescatore, uno dei due seduti al tavolo affianco a quello del vecchio Sergio, posò il suo bicchiere di vino mezzo vuoto, pescò un grissino dalla cesta del pane e strappò un morso croccante. Accennò al piano di sopra con un’alzata del mento. «Tu e il tuo ragazzino.» Strofinò una nocca sotto i baffi per ripulirsi dalle briciole. «Strano che non vi siate ammalati assieme, con tutto il tempo in cui siete stati appiccicati.»

L’altro annuì. Pigiò una fetta di pane nel suo piatto e fece scarpetta nella salsa di pomodoro avanzata dalla sua porzione di stoccafisso. «Anche troppo, a dire la verità.»

«Vedi, Tina, dovresti cogliere l’occasione per…» Il pescatore finì di sgranocchiare il suo grissino al sale. «Tornare a prendere le distanze da lui.» Strinse le spalle in un gesto rassegnato. «Sennò chissà quali schifezze rischia di attaccarti.»

Valentina premette le mani attorno alla tazza di cioccolata, senza curarsi della ceramica bollente che le scottava la pelle, e corrugò la fronte facendosi nera in volto. «Io non mi ammalo mai.» Ed era vero, lei aveva sempre goduto di una salute di ferro, fin da neonata. Non un raffreddore, né una febbre, né un’influenza. Nemmeno una di quelle brutte tonsilliti che costringevano i suoi compagni di classe a letto per tre settimane di fila.

Soffiò sulla sua tazza e sorseggiò dell’altra cioccolata. Amarissima. Aggiunse un altro abbondante cucchiaino di zucchero che sparse qualche grano sul piattino, ma nemmeno quello riuscì ad addolcire le sorsate che seguirono. «E vedrete che presto anche Bruno tornerà nel pieno delle forze.»

«Nel pieno delle forze?» Il pescatore si tuffò in bocca il suo boccone di pane inzuppato di salsa al pomodoro. Sospirò. «Bah, staremo proprio a vedere.»

«Io onestamente dubito che quel ragazzo sia mai stato nel pieno delle forze.» L’altro volse lo sguardo alle scale, all’ombra che si infittiva sui gradini più alti e nascosti. «Così gracilino, così…» Alzò un sopracciglio. «Cagionevole…»

Il petto di Valentina bruciò d’indignazione. «Ma non lo è affatto» esclamò lei. «È solo…» Ma anche Valentina fu costretta ad affrontare il ricordo dell’aspetto sciupato che Bruno aveva mostrato proprio quella stessa mattina. La sua pelle ingrigita come le nuvole autunnali che si erano sparpagliate su tutta Portorosso, i suoi occhi nebbiosi come il cielo annacquato dalla pioggia, quella sua espressione bigia e triste che rifletteva tutto il maltempo che si stava rovesciando sul mare freddo e ingrossato dal diluvio costante. «Si è solo preso un’influenza, ecco tutto.»

«O un mal di lavoro.» Il pescatore raccolse la brocca di vino per riempire il suo bicchiere e quello del compare. «Ecco cosa si è preso sul serio.»

«Cosa vuoi aspettarti da quelli come lui?» L’altro scosse la testa. La faccia raggrinzita da un’espressione contrariata, da ramanzina. «Buoni a nulla. Buoni solo a darci problemi.» Accostò il bicchiere alle labbra e arruffò i baffi, affilò la lingua. «Questi ter…»

«Smettetela!» Valentina picchiò la tazza sul sul tavolo. Una goccia di cioccolata schizzò fuori, bruciò cadendole sul dorso della mano, ma lei nemmeno se ne accorse. Nessuna fiamma era più incandescente di quella sprigionata dalla rabbia che le ardeva in petto come un tizzone.

«Oh, non prendertela troppo a cuore, Tina.» Il pescatore posò il bicchiere e ammorbidì il tono di voce. La fredda ramanzina diventò una paternale. «E soprattutto cerca di non prendertela troppo a cuore quando Bruno se ne andrà.»

La bocca di Valentina cadde aperta, si lasciò sfuggire un gemito. «A…» Un brivido le conficcò in petto una scheggia di gelo. «Andare?» Un freddo alito di paura soffiò sotto i vestititi, strinse la sua pancia in un nodo di panico, oscurò il suo sguardo gettandole addosso quell’ombra che lei aveva sempre percepito alle sue spalle, silenziosa ma inesorabile come l’arrivo dell’autunno. «E perché mai dovrebbe andarsene?»

«Perché è uno stagionale.» Il pescatore alzò il mento e rivolse un cenno fuori dalla finestra annacquata. «E la pioggia se lo porterà via.»

«E soprattutto perché qui non c’è posto per gli scansafatiche» disse l’altro. «Comincia ad abituarti all’idea di non rivederlo in giro, Tina, credi a noi.»

Su Valentina franarono le parole che suo padre le aveva rivolto all’inizio dell’estate, quando aveva cominciato a notare i suoi occhioni sognanti posati sul misterioso straniero, quando l’aveva vista tornare a casa accompagnata da Bruno, quando li aveva sorpresi abbracciati fuori dalla porta, persi l’uno nello sguardo dell’altra.

È uno stagionale, Tina.” Gli occhi di Eros si erano addolciti, avevano condiviso quel dispiacere. “Non vorrei che ti affezionassi a Bruno più del necessario. E non vorrei che poi tu soffrissi nel separarti da lui, a stagione finita.”

Persino Angelo le aveva detto qualcosa di simile. “A lavoro finito lui se ne andrà da Portorosso e tu ti ritroverai con in mano solo un pugno di mosche e un cuore spezzato. Sei una brava e cara ragazza. Meriti di più di così.”

Durante l’estate, Valentina nemmeno ci pensava. Aveva evitato di farlo. L’arrivo della stagione fredda le era sembrato un tempo così remoto. Credeva che sarebbe bastato scacciare il pensiero di una partenza di Bruno per impedire che accadesse, e invece ora si ritrovava a sbatterci il naso contro. La crudele violenza di un muro comparso senza preavviso dietro la curva di una strada. Valentina non seppe se sentirsi più irritata o spaventata da quelle parole, perché ormai rinunciare a Bruno non era più un’opzione. Pensava che sarebbe stato più facile dire addio a Portorosso che dire addio a Bruno. Se si fosse trattato di scegliere, se si fosse trattato di doverlo seguire fin dove lo avrebbe trascinato la tempesta

Se la pioggia se lo porterà via…

«Con la pioggia…» A un gorgoglio delle nuvole e a una zaffata di pioggia crollata sulle finestre, seguì un brontolio del vecchio Sergio che fece voltare Valentina verso il tavolo dov’era seduto. Gli occhi lucidi, chini sul bicchiere di grappa che reggeva fra le dita grinzose e tremanti. Le guance chiazzate di rosso, il mento traballante, la bocca impastata dal fiato caldo di alcol. «I mostri marini…» Sergio singhiozzò, bevve un altro sorso di grappa che gli arrochì la voce. «I mostri marini escono con la pioggia. Vengono fuori dal mare solo quando piove, perché…» Picchiò il bicchiere sul tavolo e annuì a se stesso. Gli occhi abbacinati fissi su un punto del tavolo sporcato dalle briciole della sua cena. «Perché se c’è il sole non sono più mostri marini.»

Valentina riconobbe quelle farfugliate che aveva udito tante volte uscire dalla bocca del vecchio. Chissà per quale motivo ora le fu impossibile ignorarle.

Sergio torse un braccio dietro di sé, strizzò un paio di volte la mano a vuoto prima di riuscire a recuperare la giacca gettata sullo schienale della seggiola. «I mostri marini sono mostri marini solo se…» Si alzò, barcollò, tornò a cadere seduto, e sbatacchiò l’unico braccio che era riuscito a infilare nella manica della giacca. «Solo se nuotano nel mare. Poi salgono sulla barca e diventano umani.»

Valentina rabbrividì, le guance ghiacciate e un la pelle d’oca lungo le braccia. Assurdo. Aveva sentito quella storia e quelle fandonie tante di quelle volte che persino lei sarebbe stata capace di ripetere il racconto per intrattenere gli ospiti dell’osteria. Allora perché adesso la sconvolgeva tanto?

Aspre risate di scherno crepitarono dal tavolo dei due pescatori, gli unici ospiti rimasti in tutta la sala da pranzo. «Sta’ attento a tornare a casa, allora.»

Si scambiarono una sgomitata di complicità. «Con tutta questa pioggia chissà quanti mostri marini salteranno fuori per sgranocchiarti.»

«Oppure sarai proprio tu a trasformarsi in un mostro marino, Sergio

Risero ancora, e l’eco di quelle stolte risate rimbalzò fino alle orecchie di Sergio, accese le sue guance di un rosso cupo come tutto il vino che era stato servito durante il pasto. «Voi…» Il vecchio tornò a rimbalzare in piedi, ma un altro capogiro lo fece barcollare e sbattere sullo spigolo del tavolo. «Voi non sapete quello che dite!» Compì un passo, inciampò sui suoi stessi piedi, sventolò la mano da sotto la manica della giacca infilata solo per metà. «Se solo…»

«Buono, buono, Sergio.» Angelo lo acchiappò al volo prima di vederlo finire con il naso per terra, lo calmò strofinandogli una soffice pacca sulla schiena. «Hai esagerato anche stasera, vero? Cosa devo fare con te?»

Una stretta di compassione afflisse il cuore di Valentina. Proprio non ce la fece a rimanere lì a guardare, così si alzò e andò anche lei ad aiutare. «Tutto bene?»

Angelo annuì. Raccolse l’altra manica della giacca di Sergio e lo aiutò a finire di indossarla. «Forse è meglio se lo riaccompagno a casa io, sennò rischiamo di trovarlo sul fondo di un tombino.»

Sergio grugnì e lo spinse via. «Fandonie!»

Valentina scosse la testa, si abbandonò a un sospiro. «Fai il bravo, Sergio, su. Ecco…» Lo aiutò ad abbottonare la giacca e gli rimboccò il colletto. «Copriti bene e vai a casa a riposare al caldo e all’asciutto. Domani mattina sarai come nuovo, vedrai. E magari avrà anche smesso di piovere.»

Sergio ingoiò un altro singhiozzo che odorava di grappa alla prugna. Incrociò le gambe nel tentativo di un passo, dondolò fra le braccia di Angelo, allungò una mano e sembrò che con quel gesto volesse aggrapparsi al tavolo. Invece afferrò Valentina per il polso. Una presa forte e fredda, ruvida di calli e pungente come le sue vecchie ossa sporgenti. Una presa che non le lasciò scampo. «Devi stare attenta.»

Di nuovo quel freddo spasmo penetrò il petto di Valentina, le gelò il sangue e la lasciò pietrificata. Quelle parole pesarono, non erano il farneticamento di un vecchietto un po’ brillo. Sergio si stava riferendo a lei. «Co-cosa?»

Sergio torse le labbra sotto i baffi. «Con la pioggia…» Strinse la presa tremante con cui si era aggrappato al polso di Valentina. Le unghie ruvide penetrarono la carne, le vene bluastre pulsarono sotto la pelle sottile e raggrinzita come carta. «I mostri marini vengono fuori con la pioggia.» Tirò su la faccia. Gli occhi rossi, sporgenti, scintillarono incassati nella ragnatela di rughe che ramificava dagli angoli delle palpebre, animati da una scintilla di follia che brillò nel nero delle pupille. «Devi stare attenta ai mostri marini, perché quando non c’è la pioggia noi non ci accorgiamo che esistono.»

Valentina trattenne il fiato. Bianca in volto, ingoiò quel singhiozzo di paura che le soffocò i battiti del cuore. Strinse il pugno, indurì la spalla e tirò indietro il braccio, ma il polso rimase intrappolato fra le dita rachitiche di Sergio. Quella resistenza inaspettatamente forte le trasmise una scossa di terrore che bruciò come uno schiaffo in pieno viso. Quello scherzo non le piacque più. Non sembrò più uno scherzo.

Angelo spinse via Sergio reggendolo per le spalle ricurve. «Su, Sergio, adesso basta» gli disse. «Ti accompagno a casa, altrimenti la pioggia farà uscire il mostro del raffreddore anziché il mostro marino.»

Sergio brontolò sotto i baffi, ma alla fine mollò il polso di Valentina, ammosciò la tensione della schiena, e si lasciò condurre verso la porta senza ulteriori proteste.

Prima di uscire, Angelo rivolse un ultimo cenno d’intesa a Valentina. «Lo accompagno a casa.» Si infilò anche lui il cappotto e recuperò l’ombrello dall’angolino dell’anticamera. «Non ci metterò molto. Tu rimani qui a dare un’occhiata, d’accordo? Così quando torno puoi andare a casa anche tu.»

Valentina sbatacchiò gli occhi, soffiò fuori il fiato che aveva trattenuto e che cominciava a bruciarle in fondo al petto, e annuì apatica, senza nemmeno rendersi conto di quello che Angelo le aveva appena detto. Si massaggiò il polso sul quale sentiva essere rimasto impresso il freddo bracciale di quella presa che l’aveva avvolta e trascinata nel buio di quella visione da incubo – i mostri marini vengono fuori con la pioggia. Batté ancora le palpebre e forzò la vista a rischiarirsi, a rintracciare un ordine nel nugolo di confusione attraverso cui le era impossibile vedere, perché fitto come quella nera cappa di nuvole temporalesche che da una settimana stavano annaffiando i tetti e le strade di Portorosso. “Devi stare attenta ai mostri marini, perché quando non c’è la pioggia noi non ci accorgiamo che esistono.”

Dopo che Angelo e il vecchio Sergio se ne andarono dall’osteria, nella sala da pranzo scese un nebbioso velo di quiete. Solo le chiacchiere costanti, ma basse e distanti, dei due pescatori, più lo stridere di un cucchiaio che raschiava il fondo della scodella e lo sbriciolarsi di un tozzo di pane che veniva spezzato per raccogliere gli avanzi di sugo. Tutti suoni che il rumore della pioggia così fitta non faceva fatica a coprire.

Valentina tornò al suo tavolo, alla sua cioccolata ormai non più tanto calda. Avvolse le mani attorno alla tazza, fece tamburellare le dita, si morse il labbro e rifletté. Rifletté sulle parole del vecchio Sergio, su quell’ombra di paura che era scesa su Bruno da quando erano cominciati i giorni di pioggia. I brividi che la assalirono furono gli stessi di cui era già stata vittima quella domenica estiva, il giorno dell’incidente della fontana, quando aveva rischiato di perdere Bruno, quando lo aveva visto cadere, rimpicciolirsi sotto l’ombra della statua del pescatore, annaspare di terrore dopo aver schivato gli zampilli dell’acqua, e infine fuggire senza nemmeno guardarsi indietro.

Valentina rivolse lo sguardo alla finestra, alla luce grigia che inondava le sue guance e il tavolo su cui era seduta. Pioggia battente sul vetro e sui gradini che scendevano il carruggio, la strada deserta, le terrazze senza fiori, una nebbia d’acqua a inghiottire il paesino. Sulla stessa parete della finestra, colorati dal rossiccio tepore del paralume a forma di conchiglia, i soliti quadretti di pesca che sembravano rigurgitare il rumore di tutta quell’acqua scrosciante. Valentina si sentì risucchiata nel nero di quelle onde. Si ritrovò a battere le suole sul pontile scivoloso di sangue, a sputacchiare l’acqua di mare schiaffeggiata sulla sua faccia, e ad aggrapparsi alla balaustra per non cadere sulle ginocchia, vittima delle gambe molli e tremanti di paura. Si ritrovò catapultata nel racconto del vecchio Sergio. Il racconto del suo incontro con il mostro marino.

Mostri marini che sono mostri marini solo quando nuotano nel mare.

I mostri marini esistono” aveva detto Sergio quella sera d’estate, quando tutta l’osteria aveva osservato un rispettoso silenzio per ascoltare il suo racconto, persino coloro che ormai lo sentivano da trent’anni a quella parte. “Esistono e possono trasformarsi, per questo non li riconosciamo. Mutano forma per mescolarsi ai mostri terreni come noi.”

Ma quando non c’è la pioggia sono come noi, realizzò Valentina. Per questo non ce ne accorgiamo. Mollò la presa dei denti sul labbro, prima di sentirlo sanguinare, e continuò a rimuginarci sopra rosicchiandosi l’unghia del mignolo, stropicciando la fronte in una smorfia buia di pensieri. Ma come facciamo a non accorgercene? Forse perché è la pioggia a bagnarli. In mare sono bagnati, con la pioggia sono bagnati. È l’acqua a renderli mostri marini, allora? Ma allora, quando non sono bagnati…

Era un uomo.” E, come ogni volta, negli occhi arrossati di Sergio si erano dipinti un dolore e un rimorso che nemmeno cento anni di lacrime sarebbero stati in grado di lavare dalla sua anima. “Proprio così: un uomo. Un uomo come me, come te, come lui.”

Bruno si era impressionato durante il racconto di Sergio. Tutti se n’erano accorti. Sara aveva notato la sua faccia sbiancata, Massimo aveva fiutato la sua paura arruffando i baffi e scrutandolo attraverso un cipiglio di sospetto.

Bruno ci aveva messo poco a riprendere colore e a sdrammatizzare stirando un minuscolo e fragile sorriso che gli aveva spezzato la linea delle labbra. “È solo che tutte queste storie di mostri marini e di cacce spietate in mare mi hanno proprio lasciato senza parole.” Così si era giustificato, ma intanto la sua faccia agonizzante era la stessa di un pesce boccheggiante ancora agganciato all’amo. La stessa che aveva mostrato quando aveva rischiato di bagnarsi con l’acqua della fontana. Magari proprio perché lui…

Valentina scosse la testa con forza, sentendo il dondolio dei capelli sulle guance. Si rifiutò di crederci.

No, no, che storia assurda.

Bruno si era spaventato davanti al racconto del vecchio Sergio perché già sapeva che stava parlando di un mostro marino come lui? Ma quelle erano solo leggende. Storielle di vecchi pescatori dalla mente corrosa dalla troppa acqua di mare e dai troppi bicchieri di vino.

Oppure no? continuò a domandarsi Valentina. Perché, mettendo insieme i pezzi, tutto tornerebbe.

La nebbia si diradò, il temporale si ritirò mettendo a tacere il brontolio dei tuoni e il rovesciarsi della pioggia. Scoprì un cielo quieto come la mente di Valentina che tornò limpida, tanto che le fu possibile affacciarsi a certe immagini distanti che credeva irrilevanti ma che ora assunsero un’importanza inaspettata, un significato del tutto nuovo.

Bruno aveva paura dell’acqua. Dell’acqua del mare, dell’acqua della pioggia, dell’acqua delle fontane, e non ne toccava nemmeno una goccia né davanti a Valentina né davanti a nessun altro. La evitava come il Diavolo avrebbe evitato l’acqua santa, in effetti. Anche quella volta di Pepe, poi… quel giorno in cui lo aveva carezzato dal cancello di casa, e il cagnone gli aveva leccato la mano per ringraziarlo delle coccole. Anche se distante dalla scena, Valentina aveva scorto quell’abbaglio blu baluginare sul suo palmo, dapprima scambiandolo per un’allucinazione o un gioco di luci.

Un picchiettare impaziente delle dita di Valentina sul tavolo, e i suoi pensieri volarono attraversando quella stessa sala da pranzo, raggiunsero i ricordi di quella sera che aveva già visitato ma che continuavano a venirle incontro.

E tu, Bruno?” Sara si era rivolta a Bruno con un sorriso speranzoso. Cercava sostegno. Sperava di poter contare sulla sua bontà d’animo per sconfiggere tutte quelle spietate idee di cacce ai mostri marini, di arpioni lanciati fra le onde, di mari intrisi di sangue. “Tu cosa faresti se dovessi incontrare un mostro marino?”

Bruno si era stretto nelle spalle, arricciandosi in un piccolo guscio. Si era fatto meditabondo come lo era diventato Massimo davanti alla stessa domanda, ma lui aveva anche sollevato lo sguardo verso i quadretti di pesca, come in cerca di un appiglio, di ricordi a cui aggrapparsi. “Gli chiederei cosa lo abbia spinto a uscire dal mare.”

Sara e Massimo si erano azzittiti davanti alla stranezza di quella risposta. Valentina non aveva tardato a far sentire la sua. “Con tutti i pescatori che ci sono, se uno di loro emergesse non sopravvivrebbe nemmeno un giorno senza rischiare di finire arpionato. Sarebbe un mostro marino un po’ scemo a decidere di venire proprio qui a Portorosso, con tutti i posti che ci sono al mondo.”

Già.” Bruno aveva sospirato. Aveva fatto ciondolare il capo nascondendosi sotto l’ombra di quel gesto, aveva risposto con amarezza. “Proprio il più scemo di tutti.”

Ma c’era stata anche quella giornata trascorsa a zonzo per Portorosso. Il loro primo vero appuntamento. L’agguato in cima al monte, la crudeltà con cui i ragazzi l’avevano aggredito, e il modo in cui Bruno non aveva quasi battuto ciglio davanti ai loro insulti, lasciando che fosse Valentina a sfogare tutta la sua rabbia. Bruno si era limitato ad alzare le spalle, indifferente a insulti e sassate. “So di vivere in un mondo che non mi appartiene” si era giustificato.

Un mondo che non gli apparteneva. Ma perché? Perché veniva dal Sud? Però la parlata di Bruno non era sporcata da nessun accento, da nessuna inflessione dialettale. Bruno somigliava a un ragazzo meridionale, ma non c’era nient’altro oltre il suo aspetto che lo riconducesse al Sud Italia. Forse perché non veniva dal Sud. Forse perché veniva da…

Sei emerso dagli abissi?”

Bruno si era strozzato con il boccone di patata fritta, si era agguantato la gola soffocando un tossito dopo l’altro, aveva strabuzzato lo sguardo cinereo in un’espressione allucinata. “C-c-che cos’hai detto?”

«Abissi» mormorò Valentina, nel tepore della sala da pranzo dell’osteria, senza nemmeno accorgersi di aver schiuso le labbra per lasciarvi scivolare attraverso quella parola. I mostri marini vengono dagli abissi. Escono dal mare solo quando c’è la pioggia? No. Sembra che escano dal mare solo quando piove perché è la pioggia che continua a farli sembrare mostri marini. Come i lupi mannari con la Luna piena? Ma i lupi mannari sono sempre lupi mannari, anche quando è giorno e loro hanno l’aspetto di esseri umani.

Valentina spinse in avanti i gomiti premuti sul tavolo, affondò le dita fra i capelli, spremette un massaggio sulle tempie e strizzò gli occhi, mugugnando un lamento addolorato. Le stava venendo il mal di testa. Non era da lei soffermarsi così a lungo per ragionare su un dilemma, nemmeno sui suoi conflitti interiori. Lei non pensava ai problemi, li affrontava e basta.

Forse dovrei fare così anche ora.

Valentina alzò lo sguardo verso la scalinata che conduceva al piano superiore dell’osteria. L’oscurità che si infittiva al termine dei gradini le sembrò ancora più cupa, pesta e fredda, come l’antro di una grotta marina dentro cui l’eco di un ruggito rantola affamato.

Dovrei salire da Bruno e parlargli apertamente.

Valentina si passò un’altra nervosa manata fra i capelli, arricciò l’indice attorno al nastrino, lo grattò fra i polpastrelli che cominciavano a sudare di nervosismo.

Ma come si affronta un discorso simile? Ehi, scusa, Bruno, non è che per caso sei un mostro marino? Uno di quelli che emergono dagli abissi e che passeggiano in mezzo a noi con l’aspetto di normali esseri umani? Che coincidenza che tu sia capitato proprio in un paese di pescatori che farebbero a gara per farti la pelle e appendere la tua coda al muro, eh?

Ma se Bruno fosse stato un mostro marino, se si fosse reso conto che Valentina ora conosceva il suo segreto, a quel punto cosa sarebbe successo? Si sarebbe arrabbiato? Sarebbe fuggito? Sarebbe arrivato a farle del male pur di non far trapelare quel segreto fino alle orecchie sbagliate?

Valentina deglutì. Si massaggiò la gola tremante per sciogliere il groppo pastoso di quella paura scesa a strozzarle il cuore, e tornò a fronteggiare i quadretti di pesca. Quello più vicino alla finestra, alla sua grigia tenda di acqua piovana, ritraeva un pesce-cane che saltava fuori dall’acqua infrangendo la nera superficie del mare. Il mostro spalancava le fauci e azzannava la prua di una nave da pesca, dilaniandone le assi e strappandone le vele. Uno dei pescatori veniva inghiottito dalla voragine del mare. L’altro, nonostante le braccia protese al cielo e le mani aggrappate alle cime di corda sventolanti, scivolava verso la bocca del mostro che era in procinto di divorarlo, di triturarlo come aveva appena triturato la plancia e i remi della barchetta ribaltata dalle onde e dai colpi di pinna.

Magari sarà così anche per me. Era una realtà sempre più viva nella mente di Valentina. Forse il Bruno-Umano un giorno non avrà più alcun controllo sul Bruno-Mostro-Marino che non esiterà ad azzannarmi, a trascinarmi fino in riva al mare per divorarmi il fegato.

Una paura remota e ancestrale artigliò le viscere di Valentina, strizzò la sua presa ed evocò un conato di nausea che le diede il capogiro. All’interno delle cornici, Valentina vide l’acqua del mare tingersi di un rosso cupo, accavallarsi sulle rocce e i ciottoli della spiaggia depositando lingue di alghe sbrindellate da unghiate, abiti da pescatore dilaniati da morsi. La marea si ritirava, la coda pinnata di un mostro marino disegnava una curva sulla superficie dell’acqua, scompariva ritirandosi negli abissi dove i cadaveri delle sue prede sarebbero marciti fino a diventare tutt’uno con il fondale, con i relitti delle barche sfasciate dalle sue zampate.

Per la prima volta nella sua vita, Valentina non si sentì più al sicuro in quella che era la sua casa, il suo paese. Sospettava quel terribile segreto che non poteva condividere nemmeno con Sara e con Massimo ai quali aveva sempre confidato tutto. Non poteva coinvolgerli. Bruno avrebbe potuto fare del male anche a loro.

Stringendosi ai suoi brividi, al peso di quell’angoscia, Valentina poteva solo aspettare. Poteva solo aspettare che la pioggia cessasse, che le nuvole si ritirassero verso l’orizzonte del mare accompagnando sul fondo degli abissi quel mostro marino che ora si trovava in agguato proprio fra le asciutte e sicure mura di Portorosso.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Luca / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_